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giovedì 27 febbraio 2020

La vecchiaia, questa sconosciuta



Sono stati versati fiumi d’inchiostro sulla vecchiaia e, a tutt’oggi, il dibattito su questo tema, che ha affascinato i pensatori di tutte le epoche, risulta sempre di grande attualità. Anziano, vecchio, attempato, maturo, diversamente giovane: i nomi si sprecano per definire una condizione dell’esistenza che, prima o poi – se non intervengono impedimenti in itinere  - riguarda tutti noi. “Morir di vecchiaia – diceva Michel de Montaigne – è una morte rara, singolare e straordinaria, e tanto meno naturale delle altre; è l’ultima specie di morte, e la più difficile; più è lontana da noi, tanto meno possiamo sperare in essa; essa è senza dubbio il confine al di là del quale non andremo, e che la legge di natura ha prescritto non debba essere oltrepassato; ma è una sua rara concessione farci giungere fin là”.

Ma a che età comincia davvero la vecchiaia? A sessanta…a settanta…a ottant’anni? Qualcuno ha detto che comincia nel momento stesso in cui si nasce. La terza età (chiamiamola pure così, nella sua accezione più edulcorata) per me è arrivata all’improvviso, come un temporale estivo che si scatena inaspettato e ti coglie senza l’ombrello. Ero in pensione da poco, quando un mio amico - che non vedevo da tantissimi anni - incrociandomi per caso una mattina, dopo avermi osservato con attenzione per qualche istante, mi ha detto compiaciuto: ti trovo bene! L’ho ringraziato di cuore, naturalmente, però riflettendo su quell’affermazione apparentemente innocua, tanto cortese quanto indulgente, mi è venuto di pensare che mai prima di allora avevo ricevuto un siffatto apprezzamento. Quel “ti trovo bene” l’ho percepito in maniera ambigua, come a dire: vabbé, sono passati tanti anni, però vedo che ancora te la cavi e, tutto sommato, credevo di trovarti peggio di come sei. Ora, diciamocelo: per vedere come gli anni cambiano il tuo fisico, nessuno specchio è più affidabile della faccia di un tuo coetaneo che non vedi da molto tempo. E devo dire che, osservando la faccia alquanto stagionata del mio amico di gioventù, quella mattina ho capito che anch’io avevo imboccato quella fase calante dell’esistenza che lo specchio di casa - con cui faccio i conti tutti i giorni - non mi aveva ancora svelato. Ci rido sopra, ovviamente, eppure è così: ho avuto la sensazione, per la prima volta, di non essere più il giovane virgulto degli anni migliori.

Il tempo passa e se ne va, lasciando i suoi segni indelebili sulle cose, così come sul volto di una persona. E questo passaggio genera inevitabilmente sensazioni e sentimenti, a volte velati di malinconia. I giovani, per esempio, non avvertono mai il fluire del tempo perché la giovinezza - che apparentemente sembra un’età infinita - concede loro un privilegio che ad altri non è concesso e cioè quello di poterlo sprecare, il tempo, visto che ne hanno in abbondanza. A volte i giovani, anziché vivere con gioia il presente, non vedono l’ora di diventare grandi e indipendenti. Rinviano tutto al futuro, incapaci di cogliere l’attimo, che deve passare presto, affinché il domani arrivi quanto prima. Anch’io, quando ero ancora un giovane lavoratore, non vedevo l’ora che arrivasse il sabato e la domenica…le ferie estive…una certa ricorrenza…una determinata occasione. Erano i soli momenti, questi, in cui credevo di poter vivere ed essere felice. Troppe erano le ragioni per sperare che il tempo passasse il più velocemente possibile, che il presente diventasse futuro e in questa infinita attesa aspettando di avere già vissuto, andavo inesorabilmente incontro alla “vecchiaia”. E non me ne accorgevo. Ora, guardando indietro, ho l’impressione che almeno fino ai trent’anni il tempo sembra statico, che non passa mai; dopo i quaranta comincia a correre, passati i cinquanta precipita giù come un masso da una montagna e compiuti i sessanta - poiché ci si trova in età pensionabile - gli anni ruzzolano uno dietro l’altro a velocità inaudita, nonostante si viva l’illusione di giornate lunghissime, rese tali dai minori impegni e dai tempi più lenti del vivere quotidiano.

“Vorrei fermare il tempo in questo dolce istante”, così cantava negli anni sessanta/settanta il cantautore italo-belga Adamo, che forse solo quelli della mia età ricordano.  Ma il tempo non si può fermare. Eppure, oggi, nella società dell’efficienza a tutti i costi e della “dittatura della giovinezza”, in quest’epoca ormai proiettata verso un’aspettativa di vita vicina ai 100 anni, vige una sorta di convinzione di onnipotenza che induce a pensare - proprio nel momento in cui il tempo sta per travolgerti – di poter ritornare giovani attraverso un intervento di chirurgia estetica. Su questi penosi restauri non posso che stendere un velo pietoso perché la bellezza non è solo quella di superficie, fatta di esteriorità e immagine – che comunque ha una sua importanza – ma è soprattutto quella interiore, spirituale. E poi, non si può escludere che ha una sua straordinaria bellezza anche il volto di un anziano segnato dal tempo, con le sue rughe che raccontano storie ed esperienze di vita vissuta.

La terza età, che comincia a manifestarsi sul corpo e sulla mente con l’arrivo della pensione, non è una sciagura – come si vorrebbe far credere - ma l’inizio di un nuovo capitolo dell’esistenza che elargisce, senza alcuna enfasi, vantaggi e piacevolezze, ma anche rimpianti e sofferenze, a cui nessuno può sottrarsi. Essa irrompe, spietata, nella vita rappresentandone un ritaglio importante ed imprescindibile, facendoti comprendere l’estrema fragilità della condizione umana. Finalmente puoi accantonare il tempo fisico ed esteriore, quello regolato dagli orologi, dalla burocrazia, dalla pubblicità e dai ritmi lavorativi, e riconquistare quel tempo interiore, vitale e primario che scorre lento e sereno, guidato non più dalle convenzioni sociali, dalla fretta e dagli impegni, ma dai sentimenti, quelli veri, dagli affetti e dai ricordi. Non devi più firmare il cartellino, puoi pensare, leggere, scrivere, passeggiare, oziare, osservare, perché non hai più un padrone a cui rendere conto; sei affrancato dal “mercato” e da quell’abito sociale che ti era stato confezionato addosso; non devi più dimostrare nulla a nessuno e puoi finalmente appendere al famoso chiodo quei “tormenti più intimi” e seguire il consiglio di Lord Philip Chesterfiel, secondo cui fare certe cose ad una certa età non conviene perché “la fatica è tanta, il piacere è poco, la posizione è ridicola”. La vecchiaia ti apre ad un mondo nuovo e ti rende finalmente libero. Libero di essere te stesso senza falsi infingimenti. Libero dai lacci e dai lacciuoli imposti dalla società, dagli affari, dalle mode, dalla tecnologia.

mercoledì 19 febbraio 2020

La scomparsa del pensiero



Perché oggi un politico può vincere le elezioni raccontando menzogne? Perché la pubblicità, appellandosi ai nostri istinti più elementari, riesce a far credere che bevendo un caffè diventiamo belli come George Clooney? Perché i giovani copiano lo stile, i tic espressivi, i tatuaggi, il modo di vestire e di pettinarsi delle star del cinema e dei calciatori? Perché quando ci troviamo in un luogo sconosciuto camminiamo con lo sguardo incollato su Google Maps? Insomma, perché lasciamo che siano gli altri a pensare e a decidere al posto nostro e non facciamo nulla per invertire questa tendenza? Se lo chiede Ermanno Bencivenga – professore ordinario di filosofia presso l’Università della California – nel suo saggio “La scomparsa del pensiero” pubblicato da Feltrinelli.

L’autore, attraverso un’analisi approfondita e didascalica, arriva ad una conclusione inquietante: la nostra capacità di ragionare oggi è a rischio. Incombe la minaccia di una vera e propria mutazione antropologica che dissolve la peculiarità propria degli esseri umani, che è quella di pensare. Si tratta – dice il prof. Bencivenga - di una “catastrofe gentile che non squassa l’ambiente con uragani…e non semina cadaveri”, ma ci viene apparentemente incontro con un’offerta di aiuto che è ancora più devastante, perché “qualcun altro, qualcos’altro, ragionerà per noi”. I più esposti a questa deriva sono naturalmente i giovani, ipnotizzati dai loro cellulari e immersi in scambi virtuali con persone assenti, i quali non sono più in grado di prestare attenzione a nulla, costantemente distratti da un flusso continuo di informazioni e di messaggi visivi e sonori, troppo veloci e potenti rispetto ai tempi di elaborazione che il pensiero logico richiede. “I dispositivi elettronici – scrive Bencivenga – hanno eliminato la necessità di svolgere semplici, quotidiani esercizi deduttivi e hanno così pesantemente ridotto il fiorire della virtù logica che in questi esercizi trovava nutrimento”. In altre parole, è vero che la tecnologia ci libera da certe fatiche, ma è pur vero che affidandoci completamente a delle macchine fornite di intelligenza artificiale, finiamo per perdere quelle capacità sensoriali e cognitive indispensabili per riflettere e ragionare con la nostra testa.

venerdì 14 febbraio 2020

La solitudine del lettore



Chi ha una certa familiarità con i libri forse ha avuto modo di verificare quel benevolo “risentimento” che un‘azione così pacifica come quella di sfogliare e leggere un libro, può provocare in ogni occasione di coesistenza con il prossimo ed in particolare con le persone che hanno poca dimestichezza con la lettura. “Te ne stai sempre con un libro tra le mani…”: sono le parole che mi ripeteva spesso mia madre, soprattutto negli anni scolastici, quando mi vedeva intento nella lettura non propriamente finalizzata allo studio. Mia madre non è che volesse privarmi di un piacere, a lei sconosciuto, tuttavia, pur riconoscendo l’importanza della cultura e dell’istruzione - a cui lei non aveva avuto accesso, avendo frequentato solo la scuola dell’obbligo fino alla quarta elementare - scorgendomi sempre chino su un libro cercava, in qualche maniera, di distogliermi da quella condizione di solitudine che, comunque, genera la lettura. E poi tentava soprattutto di interrompere quel silenzio così ingombrante che si frapponeva tra di noi, silenzio che se per me era indispensabile, per lei significava rinunciare ad una possibile conversazione.

Chi legge, afferma sempre un’esigenza di solitudine, un bisogno di estraniarsi dal contesto sociale in cui si trova, per ricucirsi uno spazio intimo e personale dove non sono ammessi estranei. Questa condizione privilegiata - che  ti permette di “conversare” con uomini molto più interessanti di quelli che potresti incrociare nella quotidianità, e ti fa incontrare personaggi che diventano tuoi amici fidati - spesso viene osteggiata dalle stesse persone che ti vogliono bene, le quali avvertono quasi la necessità di richiamarti nell’alveo di quel tessuto socio-familiare fatto di relazioni colloquiali, dal quale la lettura ti allontana. Sotto questo aspetto, leggere appare agli occhi degli altri quasi come una forma di misantropia, di distacco dalla realtà circostante che il piacere della lettura, comunque, non può sempre compensare.

Leggere un libro richiede solitudine e silenzio, contemplazione e lentezza, qualità poco attinenti ai tempi nevrotici in cui viviamo, sempre più afflitti dalla fretta e da un inquinamento visivo e sonoro che non danno scampo. C’è da dire, però, che finché la lettura costituisce per noi la chiave per aprire quegli spazi in cui da soli non saremmo mai capaci di entrare, la funzione che essa svolge nella vita quotidiana è assai benefica. Diventa invece quasi dannosa quando - anziché risvegliare lo spirito critico di ognuno di noi e indirizzare il nostro sguardo verso una visione più nobile del mondo e della vita - tende a sostituirsi alla vita stessa, illudendoci che possano bastare le pagine di un libro - seppure scritte da un grande della letteratura - per risolvere tutti i nostri problemi esistenziali.

lunedì 10 febbraio 2020

Il bell'Antonio


" Gli amici brutti rispettavano Antonio, e lo avrebbero anche invidiato, e forse odiato, se, indotti e contagiati dalle donne che frequentavano, anch’essi, senza saperlo, non fossero stati innamorati di lui”

Io credo che certi fatti tragicomici possano accadere solo in Sicilia e che nessuno, meglio di uno scrittore siciliano, sappia raccontarli con ironia e leggerezza. E’ il caso della storia narrata da Vitaliano Brancati in uno dei suoi romanzi più noti: “Il bell’Antonio”.

Il protagonista del libro è un giovane rampollo della borghesia fascista siciliana (Antonio Magnano), un giovane talmente bello e impossibile da penetrare nei desideri e nella fantasia erotica di tutte le donne che incontra lungo via Etnea, l’arteria principale di Catania. Costui ha fama di grande seduttore, al quale vengono attribuite conquiste femminili a ripetizione, vere o false che siano; è invidiato dagli uomini, che lo vedono inimitabile e irraggiungibile, e corteggiato dalle donne che se lo mangiano vivo con gli occhi. Naturalmente non può che essere il vanto di un padre  maschilista (don Alfio) che ha fatto del “gallismo” la sua filosofia di vita, un suo “modo di essere siciliano”. Ad impalmare il “bell’Antonio” è una ricca e bella ereditiera (Barbara), naturalmente scelta dal padre, figlia di un rispettabilissimo notaio “ritenuto l’uomo più serio ed equilibrato della città”. Tutto sembra filare liscio, come in una favola, ma il dramma è dietro l’angolo.

E allora provate ad immaginare cosa può succedere in un simile contesto socio-familiare - dominato dal gallismo e dal mito del maschio siciliano – quando la famiglia e tutta la gente del contado verrà a sapere che il “bell’Antonio”, il tombeur des femmes, è un impotente e che sua moglie, dopo tre anni di matrimonio è tale e quale come è uscita dalla sua casa paterna.

Comicità e tragedia, ironia e scherno, commedia e farsa si mescolano in questo romanzo incentrato sul malessere esistenziale di un uomo condizionato da convenzioni sociali e pregiudizi, metafora di una società che probabilmente non esiste più ma che Brancati, grazie alla sua straordinaria capacità affabulatoria, riesce a far vivere per sempre.

lunedì 3 febbraio 2020

In viaggio con Leopardi



Giacomo Leopardi non era un viaggiatore – come certi artisti e letterati del suo tempo che non rinunciavano mai al cosiddetto “gran tour” - tanto meno era scrittore di letteratura di viaggio, visto che non ci ha lasciato libri di questo genere. Più che farli, probabilmente Leopardi preferiva immaginarli i suoi viaggi, perché il muoversi per lui significava “separazione e fatica” e in questa sua “proiezione immaginaria” così scriveva nello Zibaldone: “è assai più dolce il ricordarsi del bene (non mai provato, ma che in lontananza sembra d’aver provato) che il goderne, come è più dolce lo sperarlo, perché in lontananza sembra di poterlo gustare”. I suoi tragitti, a volte molto brevi, si risolvevano sempre “in fughe disperate e in ritorni angosciosi”,  come scrive Attilio Brilli, autore di un libro molto piacevole che si intitola “In viaggio con Leopardi” (il Mulino). Parlare, quindi, di questi spostamenti da/per le principali città italiane quali Roma, Bologna, Milano, Venezia, Firenze, Pisa, Napoli… significa innanzitutto scoprire quel suo bisogno di evadere dal “natio borgo selvaggio”; ma significa anche rivivere le sue insoddisfazioni e le sue paure che nascevano nel momento stesso in cui doveva lasciare la casa paterna.

Il libro ripercorre luoghi e città – fra il 1822 e il 1833 – visti e raccontati attraverso le lettere che il poeta inviava a familiari ed amici, dove ritroviamo la sensibilità e la sottigliezza delle osservazioni di uno degli ingegni più grandi della nostra letteratura. E non mancano, nel libro, le belle e profonde riflessioni di altri viaggiatori dell’Ottocento – quali Hutton, Lady Morgan, Stendhal, Ruskin, Hazlitt, Vieusseux) che si ritrovavano a percorrere gli stessi itinerari,  quasi a voler mettere a confronto stati d’animo differenti nell’osservare lo stesso luogo. Scrive Brilli che un luogo visitato o solo intravisto dalla carrozza, per Leopardi, era tanto più seducente ed interessante quanto più riusciva quel luogo a stimolare la memoria del borgo nativo, come a dire che anche quando si trovava in un’altra città, lui cercava sempre quelle “rimembranze” che gli ricordassero l’ambiente della sua Recanati, il suo “carcere” amato e odiato. Leopardi, insomma, non aveva una grande capacità di entrare in sintonia con un luogo che non fosse quello d’origine, verso il quale si riversavano comunque i ben noti motivi di rigetto. Lo dice in una lettera indirizzata al padre il 3 ottobre 1825, mentre si trovava a Bologna: “Io non cerco altro che libertà, e facoltà di studiare senza ammazzarmi. Ma veramente non trovo in nessun luogo né la libertà né i comodi di casa mia…”. Nelle sue parole si coglie sempre un senso di estraneità e rifiuto nei confronti della grande città, dove non riesce a coltivare rapporti di solidarietà e amicizia. Una lettera inviata al fratello Carlo, due giorni dopo il suo arrivo a Roma, nel 1822, rivela tutta la delusione e il disagio che gli procura la città eterna: “…delle gran cose che io vedo non provo il minimo piacere, perché conosco che sono meravigliose ma non le sento, e t’accerto che la moltitudine e la grandezza loro m’è venuta a noia dopo il primo giorno…”. Neanche Milano sembra conquistarlo. E se a Stendhal - che l’aveva visitata non molto tempo prima – era apparsa una meta ideale in cui “bighellonare” tra i suoi monumenti che gli offrivano “un’idea della bellezza lombarda, una delle più conturbanti”, al poeta recanatese, invece, il capoluogo lombardo era sembrato  “insociale” dove non si poteva “fare altra vita che quella del letterato solitario”. Aveva apprezzato, però, la calda atmosfera e la buona accoglienza che gli offriva Bologna, una città a misura d’uomo, dove aveva “contratto più amicizie assai in nove giorni, che a Roma in cinque mesi”. Così come era rimasto incantato dalla bellezza e dal clima di Pisa, che tanto bene procurava al suo fisico malandato. E poi c’è Napoli che è una città – come scrive Brilli – “sempre sul punto di essere travolta dai detriti dei luoghi comuni dai quali non fu del tutto immune nemmeno Leopardi”. Il poeta visse quel suo lungo soggiorno a Napoli – vi era arrivato assieme all’amico Antonio Ranieri - come un ospite precario “separatissimo dalla gente” ed il suo risentimento nei confronti della città e dei suoi abitanti, definiti “Lazzaroni e Pulcinelli nobili e plebei” affiora spesso nelle sue lettere.

Come tutti i libri di viaggio – di cui sono un estimatore, lo confesso – anche questo piccolo saggio l’ho gustato con squisita lentezza, interrompendo ogni tanto la lettura per soffermami con la fantasia sulle incredibili peripezie e sugli  inconvenienti cui andavano incontro i viaggiatore di un tempo: le strade insicure e malridotte, le carrozze, le soste alle locande, gli incidenti di percorso. Nulla a che vedere con i viaggi dei nostri tempi. Queste letture le consiglio solo a coloro che sanno viaggiare senza partire, e che amano intraprendere un viaggio nel viaggio, traendo diletto dalle esperienze e dalle descrizioni di chi ha visitato luoghi incontaminati, non ancora stravolti dal turismo di massa. Leggere i pensieri di un grande viaggiatore del passato – mi viene in mente Goethe, Ruskin, Piovene – non è come ascoltare passivamente il racconto di un amico al ritorno dalle sue vacanze estive. Quest’ultimo, con enfasi autocelebrativa, non fa che sciorinare un elenco infinito di cose e di luoghi visitati, costringendoti a guardare un migliaio di foto catturate con il suo smartphone, incurante della noia che dopo un po’ ti assale. Il grande scrittore/viaggiatore, invece, senza nessuna fotografia ma solo con parole, le più suggestive, ha la straordinaria capacità non solo di raccontare il fascino di un luogo, ma anche di trasmettere la sua emozione al cospetto della bellezza, nonché la sua repulsione di fronte alla bruttezza: sensazioni, queste, che diventano nostre attraverso la lettura.