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giovedì 26 settembre 2019

Camminare è...

dal web


“Camminare è una guarigione, un’esperienza di salvezza”.
(Michele Serra)

Ho la buona abitudine di camminare tutti i giorni, ad andatura spedita, per circa un’ora. Dicono che aiuti a stare bene fisicamente. Frequento un parco vicino casa - Villa De Sanctis – che tra l’altro custodisce un importante monumento funerario di età romana – il Mausoleo di Elena - fatto costruire dall’imperatore Costantino intorno al 330 d.c. per sua madre Elena. Camminare all’ombra della storia, al cospetto di un monumento che sta lì da oltre 17 secoli, è il modo migliore e più suggestivo per riflettere sulla caducità della condizione umana.
Mausoleo di Elena

Ma le mie camminate non si esauriscono in quel parco: spesso vado gironzolando anche per la città eterna, senza una meta precisa, cercando solo di evitare quei posti battuti da branchi di turisti. Sono due momenti del mio camminare che racchiudono piaceri diversi: salutare e del corpo (il primo), estetico e dell’anima, il secondo. 

Camminare è un coinvolgimento corporeo con l’ ambiente circostante, è un donarsi incondizionato, di anima e corpo, alla bellezza ed alla sensorialità dei luoghi;

camminare è un atto rivoluzionario in un mondo dominato dalle macchine e dalla velocità, è prendere le distanze, in maniera pacifica, dai ritmi sfrenati del progresso;

camminare è l’affermazione del proprio essere, è ricerca di tranquillità, di silenzio, di solitudine;

camminare è godere lentamente il proprio tempo, è gioia del pensare, è bellezza del guardare;

camminare è affinare lo sguardo, è scoprire le piccole cose semplici e belle della vita;

camminare è un’ancora di libertà e di salvezza, una fonte inesauribile di esplorazioni, un sereno godimento di incontri inattesi e di scoperte improvvise;

camminare è cercare un momento di pausa ai ritmi frenetici ed esagitati dell’esistenza, è ristabilire le giuste distanze tra l’essere e l’apparire;

camminare è sciogliere lentamente la tristezza, è la medicina dell’anima e del corpo.

lunedì 23 settembre 2019

La provincia addormentata



Se c’è uno scrittore meridionale che forse più degli altri ha saputo analizzare, con grande maestria, l’animo umano attraverso i suoi libri, interrogandosi su alcuni grandi temi del vivere quotidiano che tormentano l’uomo moderno - quali la solitudine, la sofferenza, l’incomunicabilità tra le persone, i difficili rapporti familiari - ebbene questi è Michele Prisco, lo scrittore partenopeo nato a Torre Annunziata e morto nel 2003 nella città che lui più amava, Napoli.

“La provincia addormentata” rappresenta il suo esordio nel mondo letterario, pubblicato nel 1949. E’ un testo che comprende dieci racconti, attraverso i quali Prisco dipinge, in chiave psicologica, un affresco umano ed esistenziale di notevole impatto emozionale incentrato sulla ricca borghesia partenopea degli anni ’50 - alla quale egli stesso apparteneva – composta da “una ristretta aristocrazia di facoltosi borghesi agganciati tra loro da un vincolo di pigra amicizia: proprietari terrieri, industriali di aziende alimentari o corallifere nelle vicine città costiere, le più sviluppate, taluni professionisti, qualche rappresentante della stanca nobiltà cittadina”.

In questa pigra e addormentata provincia che si adagia alle falde del Vesuvio “un po’ tarda, pettegola ma tanto pacifica” satura di luce, di colori e di profumi, dove le case sono “seppellite di verde, così calme e borghesi, dove tutto è tranquillo e i sentimenti stessi son cose catalogate” si muovono tutti i personaggi del libro, molti dei quali hanno come voce narrante una donna; gli stessi si dibattono, direi senza speranza e vie d’uscita, tra conflitti interiori e difficoltà ad instaurare sereni e duraturi rapporti interpersonali, tra monotonia ed abitudini consolidate, in contrasto con la tranquillità del circostante paesaggio naturale. Quasi sempre gli uomini e le donne, protagonisti di questi racconti, sono reduci da esperienze dolorose; sembrano appesantiti da un fardello di sofferenza e avvolti da una insanabile solitudine che appare come la loro unica possibilità di conforto. Vittime di ossessioni, vere o presunte che si portano dietro, i personaggi che escono dalla penna dello scrittore napoletano richiamano alla memoria tempi passati carichi di nostalgia, i quali pur vivendo in ambienti ricchi e curati, non riescono ad essere felici e vivere una vita normale. Quasi a voler significare che la ricchezza non dona la felicità ai suoi possessori. Alcuni di essi, che si erano allontanati dalla propria casa, dai propri familiari, dal proprio mondo, per inseguire sogni e desideri, spezzando inconsapevolmente un legame sicuro, ritornano alle origini cercando con difficoltà di ricucire gli antichi rapporti con le persone e con le cose che avevano lasciato.

Sono storie velate di leggera malinconia, inserite in un contesto urbano che la modernità ha notevolmente cambiato, scritte con uno stile raffinato che appartiene – senza ombra di dubbio - ad una maniera antica e colta di raccontare, non riscontrabile tra i tanti scrittori alla moda dei nostri tempi.

lunedì 16 settembre 2019

Il mio primo viaggio all'estero



Non sono mai stato un “viaggiatore”, nell’accezione più nobile del termine, e devo dire che non mi sento neanche un “turista” nel suo significato più moderno. Quando viaggio (ed i miei non sono lunghi spostamenti verso i “paradisi” tropicali dell’Oceano Pacifico, o verso le destinazioni più ambite dell’Europa o dell’America, tanto per intenderci), mi considero un “visitatore dell’anima”: ho bisogno di identificarmi nel luogo che mi ospita e non devo  sentirmi né spaesato né straniero. Luoghi dove posso ritrovare me stesso, le mie origini storiche, sociali e culturali: insomma il mio paese. E l’Italia tutta, con le sue città d’arte ed i suoi innumerevoli borghi e paesi ricchi di storia e di fascino, non può essere che il mio esclusivo luogo dell’anima. Più che “andare” in capo al mondo, pertanto, amo “ritornare” in posti a me cari e conosciuti, che io considero più seducenti di quelle mete esotiche o di quelle località alla moda che si trovano sempre altrove, lontane, in un sud del mondo sempre più a sud. Non credo che si possa vedere e godere meglio e di più, viaggiando lontano, verso paesi stranieri. Le nostre località di mare, dalla Sicilia al Conero, dalle Cinque Terre alla Costa Smeralda sono forse meno belle e attraenti delle Seychelles o di Acapulco? Eppure, c’è chi è stato alle Maldive e non conosce Capri e la Costiera Amalfitana, c’è chi va a New York senza avere mai visto Todi, che proprio gli americani considerano il luogo più vivibile del pianeta. D’altra parte c’è chi ha visitato il museo del Prado a Madrid e non ha mai messo piede nella Galleria degli Uffizi a Firenze. E’ come dire che l’erba del vicino è sempre più verde. A volte ho l’impressione che a “casa nostra” le attese di ognuno di noi si indeboliscano e si lascino fuorviare. Viviamo in posti circondati dalla bellezza artistica e paesaggistica, eppure questa bellezza a volte ci sfugge, non la cogliamo, non la conosciamo, andiamo all’estero a scoprire qualche rudere, senza aver mai ammirato i templi di Paestum o gli scavi di Pompei. Siamo convinti di avere già visto, nel paese più bello del mondo (il nostro), tutto quello che c’è da vedere. Ma non basta una vita per visitare l’Italia: e noi ne abbiamo una sola, di vita. L’abitudine a non guardare la bellezza che ci appartiene e che il mondo intero ci invidia, l’esterofilia da cui sembriamo afflitti e, soprattutto, certe mode e certe pubblicità che impazzano, ci hanno resi ciechi e insensibili. “Il fatto è che sono pochi quelli che sanno essere felici dove si trovano – diceva lo scrittore statunitense  George Washington Irving - da qui deriva il desiderio di essere dove non sono, da qui la mania del moto perpetuo. Solo dopo avere sacrificato più e più volte ogni comodità alla passione per i viaggi siamo in grado di apprezzare la dulce domum". E qual è la “dolce casa” se non l’Italia?

Facevo queste considerazioni mentre mi trovavo sul pullman (quando giro preferisco i mezzi pubblici, in primis il treno…la macchina non mi permette di guardare), che aveva da poco lasciato la pianura attorno a Rimini e mi stava portando nello Stato più antico del mondo, appollaiato da oltre 17 secoli sul monte Titano tra la Romagna e le Marche: la Repubblica di San Marino. Mi accingevo a varcare, per la prima volta, i confini di uno stato estero. Si, non sono mai stato all’estero, avendo sempre dato la preferenza all’Italia.
“Questo piccolo, libero stato – scriveva nel 1792 il poeta tedesco Friedrich Leopold Stolberg che l’aveva visitato - sarebbe ben più celebre delle grandi nazioni, se la virtù e l'innocenza, piuttosto che la pompa ed il vizio, costituissero oggetto d'ammirazione degli uomini”. Parole che mi trovano d’accordo. La tradizione fa risalire la sua fondazione al 3^ sec. d.c. quando un tagliapietre della Dalmazia – un tal Marino che poi sarebbe diventato santo - per sfuggire alle persecuzioni contro i cristiani disposte dall’imperatore romano Diocleziano, si rifugiò sulla cima di questa montagna per viverci da eremita. Le sue dure privazioni fisiche e morali ed i miracoli che gli vennero attribuiti, lo resero ben presto popolare, tant’è che una principessa del posto, conquistata dalla sua estrema scelta di vita e dalla sua santità, gli donò la montagna su cui lui fondò una piccola comunità cristiana che prese il suo nome.


Mentre il pullman sembrava arrampicarsi con fatica verso l’alto, quasi a scalare il cielo, mi si aprivano davanti vedute estese e spettacolari che si allargavano verso il mare Adriatico, in lontananza. Alcune delle case sembravano scolpite nelle rocce o costruite con le rocce stesse, qualcuna appariva come un nido di aquile tra le fenditure della montagna, sulla cui sommità appuntita svettavano tre rocche fortificate, ad una certa distanza l'una dall'altra, collegate fra loro con dei camminamenti, le cui torri  sembravano sfidare il cielo.

Il borgo, silenzioso e tranquillo nonostante la folla che lo anima, sembra essere stato creato apposta per sfuggire alle sirene della modernità più sfrenata, e riconduce subito alle sue antiche origini ed alla storia del suo  fondatore eremita. Stradine e angoli suggestivi, a strapiombo sulla valle sottostante, sembrano inghiottirti per liberarti all’improvviso in ampi spiazzi, da dove lo sguardo si perde con ammirazione in lontananza verso Faenza, Forlì, Cesena, Rimini, San Leo, Pesaro, Urbino, Ancona, fino ad arrivare sulle coste della Dalmazia e su quell’oceano di montagne che è l’Appennino tosco-romagnolo. Il luogo ti dispone alla pace, alla meditazione ed alla tranquillità dell’animo, allontana le preoccupazioni che corrodono il corpo e rimuove i timori che avvelenano la mente. Se solo per un attimo si riuscisse a non vedere i tanti turisti che impugnano un telefonino come un’arma filmando senza guardare nulla (guarderanno, poi, a casa), la magica atmosfera del posto ti catapulterebbe nel suo lontano passato. E allora ti chiedi come sia stato possibile che una delle Repubbliche più piccole del mondo abbia potuto mantenere, nel corso dei secoli, la sua libertà e la sua autonomia e sia sfuggita a guerre e a contrasti politici, fatali a tanti grandi imperi dell’Europa, in nome di un diritto “nemini teneri” (non dipendere da nessuno) proclamato dallo stesso San Marino. Una terra meravigliosa che vanta una straordinaria tradizione di ospitalità e che non ha mai negato aiuti e diritto di asilo a nessuno. La sua triplice cerchia muraria racchiude un ricco patrimonio di beni architettonici, tra piazze che si aprono su panorami incantevoli, antichi palazzi in pietra, chiese, musei e case che conservano il loro aspetto medievale. Su una delle piazze più belle si erge maestoso e severo il Palazzo Pubblico, dove si svolgono le cerimonie ufficiali dello Stato. Ho avuto modo di parlare, durante la mia breve permanenza a San Marino, con alcuni suoi abitanti e devo dire che sono rimasto colpito dai loro sentimenti: l’ orgoglio di appartenere ad una piccola e singolare comunità riconosciuta come stato sovrano ed il legame che li tiene uniti alla grande madre patria, l’Italia.

mercoledì 11 settembre 2019

La conosci tu la solitudine?

Edward Hopper - tavola calda


La conosci tu la solitudine?
Sì, quella dei poeti e degli impotenti.
La solitudine?
Quale solitudine?
Ma lo sai che non si è mai soli?
E che dovunque ci portiamo addosso
il peso del nostro passato e anche quello del nostro futuro?
Tutti quelli che abbiamo ucciso sono sempre con noi.
E fossero solo loro, poco male.
Ma ci sono anche quelli che abbiamo amato,
quelli che abbiamo amato e che ci hanno amato.
Il rimpianto,
il desiderio,
il disincanto e la dolcezza,
le puttane e la banda degli dei!
La solitudine risuona di denti che stridono,
chiasso, lamenti perduti…
se soltanto potessi godere la vera solitudine,
non questa mia solitudine infestata dai fantasmi,
ma quella vera,
fatta di silenzio e
tremore d’alberi
Tratta dal testo teatrale “Caligola” di
Albert Camus

sabato 7 settembre 2019

Quando viaggiare era un'arte



In un lontano passato solo poche persone viaggiavano: in primis, i mercanti che affrontavano molte difficoltà per trasportare le loro mercanzie da un paese all’altro; poi c’erano i pellegrini che si incamminavano verso i luoghi dello spirito per ottenere l’indulgenza, attraverso percorsi che hanno disegnato le mappe geografiche dell’Europa medioevale;  ed infine troviamo gli artisti (scrittori, pittori, musicisti…) che a ragion veduta erano i veri viaggiatori – figure romantiche ormai scomparse - che cercavano ispirazioni culturali nelle città d’arte in cui si recavano. Un viaggio in Italia (Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Pompei, tanto per citare le località più ambite), costituiva il coronamento della buona educazione dei giovani delle famiglie benestanti, che si apprestavano a fare il loro ingresso nella società ricca e borghese del tempo. Il loro viaggio – il cosiddetto “Grand Tour” - durava mesi, a volte anni, grazie soprattutto alle disponibilità finanziarie degli interessati, ma anche alla lentezza dei mezzi di trasporto: ci si spostava in carrozza o a piedi, attraverso strade e sentieri accidentati e poco affidabili, sostando in locande e bettole in cui promiscuità e gravi carenze igieniche erano la normalità. Si pensava che tramite queste esperienze di vita si potessero acquisire doti di capacità, conoscenze e coraggio, necessarie ai rampolli di quell’aristocrazia europea impegnata soprattutto in un’attenta gestione delle proprie ricchezze.
Il Settecento - scrive Attilio Brilli, uno dei massimi esperti di letteratura da viaggio, nel suo interessantissimo saggio che si intitola “Quando viaggiare era un’arte”, con sottotitolo “il romanzo del Grand Tour” – è stato il secolo d’oro dei viaggi, “l’era di una cultura saldamente ancorata ai parametri della ragione ottimistica, cosmopolita e soprattutto itinerante”. Si partiva per l’ignoto e per conoscere e studiare le vestigia delle antiche civiltà, con un occhio attento al “viaggio di dentro ritagliato nelle anse e nelle pause di quello di fuori”.
E il “viaggiatore”, che nel passato percorreva la sua strada quasi sempre in solitudine e in lentezza – tranne i rampolli delle famiglie aristocratiche che si facevano scortare da un vero e proprio corteo di servitori e lacchè, precettori e medici, cuochi e palafrenieri - in un’epoca caotica e massificata come la nostra si è trasformato in “turista” che aspira ad essere guidato e portato in giro, a condividere in gruppo e senza sforzo le medesime esperienze. Esperienze ed emozioni che, vissute da pochi, apparivano uniche ed irripetibili, cessano di essere significative quando vengono vissute da tutti alla stessa maniera. Quell’arte di viaggiare, riservata un tempo alle classi più colte, oggi si è come frantumata al ritmo squilibrato del turismo di massa, sommerso da “consigli” sul dove andare e su cosa visitare, a scapito della qualità, della lentezza e della riflessione. L’antropologo e filosofo Levy-Strauss – scrive Brilli nel suo libro – dice che i viaggi non sono più in grado di concederci promesse di sogno e tesori incontaminati, poiché la prima cosa che vediamo viaggiando per il mondo è la nostra sporcizia gettata in faccia all’umanità. Anche per questo i libri di viaggio – prosegue Levy-Strauss – creano l’illusione di qualcosa che non esiste più ma che vorremmo esistesse ancora.