sabato 30 gennaio 2016

La felicità



Non c’è artista o poeta che non si sia pronunciato, almeno una volta, su quello stato di grazia che è la felicità. Scriveva Totò:
Felicità !
Vurria sapè ched'è chesta parola,
vurria sapè che vvò significà .
Sarrà gnuranza 'a mia, mancanza 'e scola,
ma chi ll'ha 'ntiso maje annummenà .


Non credo che occorra la traduzione per capire quella sua condizione espressa in versi. E’ il componimento che forse meglio definisce la struggente malinconia di un personaggio che, con grande maestria, sapeva nascondere dietro la sua maschera la sua profonda solitudine.
Era meno pessimista il poeta romanesco Trilussa, per il quale la felicità si poteva trovare solo nelle piccole cose:

C’è un’ape che se posa
su un bottone de rosa:
lo succhia e se ne va…
Tutto sommato, la felicità
è una piccola cosa.

Per Vincenzo Cardarelli, invece, è una cosa precaria, ci abbandona immediatamente, non ci dà il tempo di assaporarla:

Felicità…ti ho riconosciuta dal passo
con cui ti allontanavi.
Anche Eugenio Montale aveva un rapporto instabile con tale stato d’animo: per lui la felicità è fragile, si può spezzare quando meno te lo aspetti, è un barlume che vacilla:

Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s'incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t'ama.
Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
e' dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case

 
E per  Salvatore Quasimodo è un raggio di sole che subito tramonta:

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera

martedì 26 gennaio 2016

Da Sapri con dolore



Può capitare che un libro – su cui avevi riposto interesse ed aspettative, anche in forza dei giudizi positivi espressi dalla critica – ti lasci, a lettura terminata, una sorta di amaro in bocca. E non ti sai spiegare il perché, nonostante lo stile della scrittura sia altissimo. Arrivi quasi con fatica all’ultima pagina, magari saltandone anche qualcuna, e ti accorgi che la storia che hai appena finito di leggere non ti ha soddisfatto del tutto. Hai come la sensazione di non averlo letto con la dovuta attenzione, di non essere riuscito ad immedesimarti nella psicologia dei personaggi, interrompendo troppe volte la lettura oppure di avere scelto il momento forse meno adatto per interiorizzarlo. E quell’amaro in bocca ti fa quasi pensare ad una tua evidente sconfitta, ad una tua incapacità di comprenderlo nella sua intima essenza. E allora – quasi a voler confermare la qualità letteraria del romanzo – ti assale e ti tormenta un strano pensiero che ti spinge a rileggere il libro. Tali sono state le sensazioni di fronte a “Il dolore perfetto” di Ugo Riccarelli, uno scrittore piemontese (era nato a Ciriè in provincia di Torino), morto a Roma nel 2013 a soli 58 anni. Ma sinceramente non so se avrò di nuovo la voglia di riprenderlo tra le mani, per recuperare ciò che in questa prima lettura non ho saputo cogliere.
La storia prende le mosse da un paese del Sud, Sapri. Ci troviamo negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia. I “trecento” di Carlo Pisacane erano stati massacrati proprio da quei contadini che volevano liberare dal dominio borbonico, mentre il nuovo stato italiano era nato nel nord ma nelle campagne di Sapri - incontrastato feudo di una classe di notabili avida e prepotente, pronta a saltare sul carro del vincitore - si manifestava soltanto con i suoi soldati violenti e con la consueta ingiustizia e sopraffazione. E da questo Sud antico, arretrato e sfruttato, da questa civiltà contadina arcaica e immobile, emigra verso il Centro-Nord un giovane maestro, con le sue idee anarchiche che non riconoscevano autorità né allo Stato, né al Re, né alla Chiesa; un idealista animato da un utopistico progetto rivoluzionario di rivalsa sociale, convinto che “anche i cafoni hanno un cervello”. Approda in Toscana in un piccolo paese (Colle) che apparentemente gli ricorda la sua Sapri, seppure con le dovute differenze: “i contadini e la povera gente – scrive l’autore - erano povera gente qui come dalle sue parti, ma i volti erano meno spigolosi, le facce più aperte al sorriso, quasi che la bellezza del paesaggio (…) avesse mitigato anche i suoi abitanti (…) e fu colpito dalla gentilezza delle donne. Non che quelle delle sue parti non fossero gentili, ma mantenevano sempre, in ogni circostanza, un riserbo, quasi una scontrosità che le isolava in una sorta di mondo a parte…”.  Il “Maestro” – verrà chiamato così durante tutta la narrazione – si innamorerà, in questo ambiente descritto quasi in maniera fiabesca e idilliaca, di una vedova del posto da cui avrà 5 figli ed ai quali darà nomi assai simbolici, in linea con le sue idee: Ideale, Mikhail, Libertà, Bartolo, Cafiero. La vedova Bartoli, con amore e dedizione, asseconderà le idee del maestro e lo sosterrà anche nei momenti di grande difficoltà in cui verrà a trovarsi, a seguito delle sue battaglie politiche che lo costringeranno alla fuga ed all’esilio.
Nel corso degli anni le vicende della famiglia Bartoli si intrecciano, attraverso amori e matrimoni, con quelle della famiglia Bertorelli, commercianti di maiali i quali - appassionati di epica e di Omero - amavano leggere, nelle sere d’inverno accanto al camino, l’Iliade e l’Odissea e si tramandavano, di generazione in generazione, i nomi degli eroi dei poemi omerici: Ulisse e Telemaco, Paride e Ganimede, Enea e Didone... Due famiglie, due modi diversi di vedere la realtà e la vita: idealisti gli appartenenti alla famiglia del “maestro”, materialisti i commercianti di maiali. Eppure, nonostante le differenze, i due gruppi familiari riusciranno a trovare punti d’incontro e di condivisione. E le vicende umane e spirituali di questo microcosmo, che racchiude matrimoni e nascite, amori struggenti e divisioni laceranti, si sovrappongono ai drammatici avvenimenti della Storia che vanno dalla tragica spedizione di Sapri condotta dal Pisacane, fino al secondo dopoguerra, con le sue rivolte, le sue epidemie, i suoi morti, le sue speranze. Il dolore è sempre presente nelle pagine del libro; è un sentimento ricorrente, forte e perfetto, come dice il titolo, un aspetto predominante del racconto che si esplica nei momenti drammatici dell’esistenza ma anche negli attimi di gioia del quotidiano. Un dolore perfetto, che abbaglia e che si percepisce non solo quando la vita lascia il posto alla morte, ma anche quando la vita fa nascere una nuova vita. Ed è ciò che intuisce Annina, uno dei tanti personaggi del romanzo, mentre passa dalla vita alla morte: “Appena qualche attimo prima di morire, appoggiata al nocciolo del giardino, l’Annina emerse dall’ombra in cui la sua mente si era nascosta da molti anni e, all’improvviso, in quei brevi istanti che la morte ancora le concesse (…) vide sua madre partorirla urlando di un dolore che le sembrò perfetto, e solo alla fine, quasi spiando, scorse la propria testa uscire da quel corpo rosso e gonfio dallo sforzo, e sentì per l’ultima volta l’odore di viole del suo fratello gemello che da dentro la pancia la spingeva nel mondo”.

venerdì 22 gennaio 2016

Quella volta che Leopardi chiese la raccomandazione



Qualche giorno fa un parlamentare della repubblica ha confessato durante una intervista di aver ricevuto, in 12 anni di permanenza nelle istituzioni, ben 20.000 richieste di raccomandazioni. Sembrerebbe, visto l’andazzo, che l’Italia sia una repubblica fondata non sul lavoro - che non c’è - ma sulla raccomandazione al fine di ottenere una qualsiasi occupazione. E scagli la prima pietra chi non ha mai sentito il bisogno di affidarsi ad una tale pratica per risolvere qualche problema e aggirare l’ostacolo, o chi non si è mai rivolto ad un amico, ad un conoscente autorevole, per assicurarsi un favore … un aiutino. E allora contattare “l’uomo della provvidenza”, impersonato a seconda delle circostanze dal potente di turno ma anche dall’amico di vecchia data, diventa quasi una necessità irrinunciabile.
Ho scoperto che neppure Giacomo Leopardi fu immune da  questo vizio, tant’è vero che nel 1823 inviò una lettera al cardinale Consalvi, ex Segretario di Sato del Vaticano, con la quale il grande poeta “del natio borgo selvaggio”  chiedeva un posto di lavoro adeguato alle sue capacità. Mi piace qui riportare integralmente la lettera, tratta dal libro di Ermanno Rea La fabbrica dell’obbedienza  (Feltrinelli Editore) :

Eminentissimo Principe. Incoraggiato dai luminosi esempi di sua generosa benevolenza verso quei sudditi Pontificii che in qualche modo si affaticano per li progressi de’ buoni studi, supplico l’Eminenza Vostra Reverendissima a rivolgere anche sopra di me i suoi benefici sguardi. Essendomi finora applicato alle lingue classiche e a quelle materie che più direttamente dipendono dalle medesime ho pur troppo conosciuto che dovrei rinunziare a ogni speranza di ulteriori avanzamenti se continuassi a vivere in Recanati mia patria. D’altronde mio padre aggravato di prole, e per le passate vicende attenuato di rendite, non ha mezzi di mantenermi in altro luogo dove la Società d’uomini di Lettere, e il soccorso de’ libri possano perfezionare le mie deboli cognizioni. Sarebbe pertanto mia fervida brama di giungere a questo scopo coll’esercizio di qualche impiego amministrativo, nel quale servendo fedelmente lo Stato, avessi il modo di servire ancora, secondo le mie scarse forze, all’incremento di quelle scienze a cui mi sono dedicato. Veggo che niun impiego potrebb’essere più confacente alle mie mire e alle mie ristrette capacità che quello di Cancelliere del Censo in qualche importante Capoluogo di Delegazione. E se attualmente non ve n’ha alcuno vacante, non manca certamente all’Eminenza Vostra Reverendissima il modo di supplire a ciò, conferendo ad alcuno degli attuali Cancellieri del Censo qualche equivalente impiego che fosse ora vacante o per vacare. Supplico l’Eminenza Vostra a perdonare colla sua tanto acclamata bontà il mio ardire, ed attribuirlo alla fiducia m’ispira il suo gran cuore, permettendomi intanto di segnarmi con profonda venerazione e gratitudine di Vostra Eminenza Reverendissima umilissimo, devotissimo, obbligatissimo Servitore.
Uno pensa: ma se anche Leopardi, per lavorare, ha dovuto ricorrere ad una consuetudine così deplorevole come la raccomandazione, che speranza hanno i tanti poveri disoccupati del nostro Paese, privi come sono della sua intelligenza e del suo ingegno? Mi chiedo ancora: avvalersi della raccomandazione è un tipico comportamento insito nella natura degli italiani, oppure è solo un momento di pigrizia, un atto di  cedimento ad un costume - o malcostume - che in realtà non ci appartiene e che esula dal nostro abituale modo di agire e di pensare?

sabato 16 gennaio 2016

Come è bello far la spesa



Lo confesso: mi piace fare la spesa. Sono un abituale e indomito frequentatore di supermercati e mercatini rionali. Devo dire che ho acquisito in tanti anni di dignitosa attività - dispensando mia moglie da questa gravosa incombenza - una certa dimestichezza con i luoghi della distribuzione, una discreta conoscenza dei prezzi ed una apprezzabile competenza tecnico-alimentare. Ho imparato per esempio a distinguere le pere coscia da quelle kaiser, il carciofo “tondo di Paestum” dalla “mammola romanesca, la caciotta romana dal caciocavallo abruzzese.  
Dobbiamo pur mangiare e sappiamo quanto oggi sia difficile trovare cibi sani e naturali, saturi come sono di conservanti, coloranti ed altre schifezze simili. Quando si parla di cibo mi ritornano sempre in mente le parole della buon’anima di mia nonna, la quale aveva capito in anticipo rispetto ai tempi che le cose stavano per cambiare - in peggio - nel campo agroalimentare; infatti soleva ripetere: “moriremo tutti avvelenati”. Evidentemente si era resa conto, la poveretta, che stavano per sparire le buone cose fatte in casa come solo lei sapeva preparare: il pane, i biscotti, la pasta, il formaggio, la passata di pomodoro, le salsicce… E che anche la frutta e la verdura, trattati con pesticidi chimici, costituivano un pericolo per la nostra salute. Se è proprio così, se davvero dobbiamo morire avvelenati mangiando due mele annurche e un’insalata riccia, ebbene preferisco avvelenarmi con le mie mani, scegliendo i veleni che mi danno più fiducia e mi garantiscono una minore sofferenza. E allora, quando mi accorgo che il frigorifero di casa sta per svuotarsi, senza lasciarmi prendere dallo sconforto, parto alla volta del supermercato. Una volta esisteva il negozietto sotto casa: era quasi sempre una bottega a conduzione familiare. Poi qualcuno si è accorto che le massaie, in questi posti, compravano solo ciò di cui avevano bisogno e non vi trascorrevano l’intera giornata. Comportamenti, questi, che non andavano bene e allora, per far si che si consumasse sempre di più ed aumentassero a dismisura sprechi e rifiuti, hanno inventato dei luoghi immensi, dove si va a fare la spesa con dei veri e propri container. Naturalmente i piccoli negozi sotto casa hanno dovuto chiudere perché non potevano competere con le multinazionali della distribuzione.

La cosa che più colpisce, quando si entra in questi mega centri del consumo, è la varietà e l’abbondanza di qualsiasi prodotto di cui sono stracolmi gli scaffali, tutti sistemati in maniera strategica, tale da farti spendere sempre di più: succede che eri entrato per comprare il pane e il sale e ne esci con una vagonata di articoli di cui spesso non avevi strettamente bisogno. Però erano “in offerta” e pazienza se poi hai dimenticato di prendere proprio il pane e il sale.
In fila alla cassa il confronto tra i carrelli è d’obbligo: sembra quasi - a guardare i volti orgogliosi di chi si porta dietro il “vagone” - che ci sia una sorta di gara spendereccia a chi ce l’ha più zeppo. Ebbene devo dire che il mio appare sempre semivuoto rispetto all’abbondanza di mercanzie che tracimano dai carrelli dei vicini. A volte resto esterrefatto ed ho come l’impressione, di fronte a quell’accaparramento selvaggio di derrate alimentari, che stia per arrivare,  a mia insaputa, un lungo periodo di carestia, oppure che sia stata annunciata una guerra e la gente abbia paura di rimanere senza viveri; resto incredulo quando mi accorgo che la signora accanto a me, il cui peso è proporzionato alla sua spesa, butta dentro il carrello qualsiasi cosa le capiti a portata di mano senza il minimo discernimento. Sembra quasi che l’unica sua accortezza sia quella di arraffare tutti i prodotti ben reclamizzati e la pubblicità sia, pertanto, il suo esclusivo parametro di sicurezza, il suo unico metro di giudizio. “ Io guardo sempre la pubblicità in televisione – ha detto una volta lo scrittore Erri de Luca - altrimenti non potrei sapere quali sono le cose che non devo comprare”.

Quando mi presento alla cassa con la mia spesa striminzita da pagare, avverto un senso di imbarazzo con quel mezzo chilo di pomodorini pachino comprati al reparto del biologico, una fetta di primo sale di pecora della Ciociaria, 250 grammi di  mozzarelle di bufala di Battipaglia e due pacchi di spaghetti di Gragnano. Non posso competere con quella signora di prima, che dietro di me avanza a fatica spingendo il suo tir strapieno di scatole di merendine di tutti i tipi (ripiene di coloranti, conservanti, edulcoranti…), innumerevoli pacchi di pesce surgelato al mercurio pescato nei vari oceani, diverse confezioni di affettati di mortadella e salami di dubbia provenienza, pacchi di assorbenti e carta igienica in offerta, bottiglie di olio “d’oliva” prodotto non si sa dove, confezioni di enormi e oscene cosce di pollo dal colore incerto (nate in Polonia, macellate in Olanda e confezionate in Italia), barattoli alla rinfusa di sughi già pronti, buste di insalata già lavata, fagiolini già lessati, cicoria catalogna passata in padella, pacchi di piatti e posate in plastica, lattine di pomodori pelati (come natura crea), due pizze quattro stagioni surgelate…; e quella signora, sbirciando il mio carrello pressoché vuoto, sembra  guardarmi quasi con un sentimento di pietà misto a disprezzo, come se fossi un povero miserabile, un morto di fame, degno della sua commiserazione.

lunedì 11 gennaio 2016

Per una cucina veloce...



Ho ricevuto in regalo per le feste di Natale un libriccino di ricette di cucina la cui autrice,  Priscilla Musu - come riporta nelle sue brevi note biografiche - “nata a Roma per fare l’architetto, si è ritrovata a Torino a lavorare per le Ferrovie dello Stato, ma da sempre la cucina è una delle sue grandi passioni”. Non mi era mai capitato, prima d’ora, di ricevere in regalo un libro di ricette. Se devo proprio dire la verità, è un testo che probabilmente non avrei mai comprato perché la gastronomia in prosa non è il mio genere preferito di lettura. E poi, lo ammetto, avverto una certa insofferenza nei confronti delle opere gastronomiche che ormai hanno invaso tutti i luoghi e monopolizzato il settore, i cui autori – tutte facce note dello spettacolo – fanno bella mostra dalla quarta di copertina dei loro “capolavori”. A volte mi viene da pensare, guardando le vetrine delle librerie addobbate a festa con questi volumi, senza contare le mille ricette che vengono proposte quotidianamente dai tanti programmi che impazzano in televisione, che la gente non legga altro che ricette e che si dedichi solo alla cucina, consultando i libri dei propri beniamini. Ma la gastronomia è una cosa importante e non può essere lasciata nelle mani di persone incompetenti che si credono eredi di Pellegrino Artusi.
Il piccolo libro della cucina veloce ma chic”, questo il titolo del libro di Priscilla Musu, si discosta dai tanti manuali alla moda e si fa apprezzare, prima ancora che per le sue ricette, innanzitutto per le sue dimensioni ridotte e per la sua accattivante copertina color fucsia. Caratteristiche, queste, che richiamano immediatamente l’attenzione e lo sguardo di qualsiasi lettore distratto. Pubblicato dalla Iacobelli Editore in formato tascabile, appare come un piccolo e delicato Davide se lo confrontiamo con i tanti Golia che – con malcelata arroganza - mostrano i muscoli ( o meglio la faccia famosa dell’autore ) sugli scaffali delle librerie. Con le sue piccole dimensioni sembra quasi volersi nascondere, non risulta affatto invadente e sfacciato come i suoi dirimpettai che dall’alto della loro presunzione sembrano dire: non sai chi sono io. Lui invece appare discreto, un testo che occupa poco spazio e perciò trova facilmente posto nella nostra libreria. E perché no: nelle nostre tasche. E già questo rappresenta un aspetto positivo che lo pone al di sopra dei tanti suoi simili più noti e famosi. Nella sua essenziale semplicità e nella sua veste grafica così funzionale e seducente, questo piccolo libro di cucina esalta “sapori, colori e odori” di alcune sfiziose ricette “nella speranza – scrive l’autrice nella presentazione – di risvegliare il gusto della sperimentazione e il piacere della ristorazione di qualità”. E noi oggi abbiamo davvero bisogno di stimolare, prima ancora che l’interesse per la ristorazione di qualità, quell’antico piacere per la cucina e per il mangiare sano, che sono stati ormai completamente soffocati dalla fretta.
Il libro si rivolge proprio a chi ha fretta e va sempre di corsa, a chi è indaffarato e non trova mai il tempo per cucinare, a chi non sa andare oltre il solito panino o la solita fettina con l’insalata, soluzioni quest’ultime che si adattano benissimo alla velocità dei nostri tempi. Eppure, il cibo è fonte di piacere e di godimento perché appaga tutti i nostri sensi. E una ristorazione di qualità la possiamo trovare anche in una cucina veloce: basta saper coniugare gli ingredienti giusti, come ha saputo fare – con passione e competenza - l’autrice di questo piccolo e prezioso manuale. Allora sfogliamolo e affidiamoci alle appetitose ricette che ci propone (calde e fredde) per tutti i giorni; consultiamo la preparazione delle salse e delle paste; lasciamoci guidare dai suoi consigli, impariamo a preparare quei suoi sfiziosi piatti ricchi di tradizione e di gusto, che renderanno meno faticose le nostre giornate. Il tutto per una cucina veloce sempre all’insegna della salute e del benessere. Un libro che si tiene sul palmo di una mano mentre con l’altra, in maniera veloce, possiamo divertirci preparando succulenti piatti a base di involtini di melanzane o di vitello con asparagi…cartocci di ceci fritti o focaccia con scamorza…soufflé di cavolfiore o crostatina di scarola…insalata affumicata o stuzzichini con broccoletti e bresaola. E tanti altri ancora: c’è solo l’imbarazzo della scelta.

sabato 2 gennaio 2016

E' forse il mondo stesso una prigione?



Ancora una volta, tra le bancarelle di un mercatino dell’usato, ho scovato un libro importante che cercavo da tempo, introvabile nelle librerie: Il mondo è una prigione di Guglielmo Petroni. Gli editori – è noto - anziché ripubblicare buona letteratura, preferiscono rincorrere facili guadagni e affidarsi ai volti noti della televisione stampando qualsiasi inezia essi scrivano. Di questo autore autodidatta (nato a Lucca e morto a Roma nel 1993), avevo già letto un suo libro: La morte del fiume, vincitore di un premio Strega negli anni ‘70. Il romanzo che ho appena finito di leggere – nella bella edizione Oscar Mondadori del 1974 - è forse la sua opera più nota, in cui lo scrittore custodisce, in poco più di 150 pagine, la sua dolorosa esperienza carceraria. Infatti Petroni, per la sua attività antifascista, nella primavera del 1944 fu arrestato e rinchiuso nel carcere di Via Tasso a Roma; torturato e condannato a morte, venne trasferito a Regina Coeli, per essere poi liberato dagli Alleati dopo 33 giorni di dura prigione. Il libro di memorie, la cui prima edizione risale al 1949, secondo Natalino Sapegno resta una delle prove più alte della letteratura sulla Resistenza e sulla guerra. Per Andrea Camilleri, il mondo è una prigione è uno dei libri che lo hanno formato “non come scrittore, ma come persona”.

Noi oggi viviamo tempi difficili in cui accadono fatti drammatici (pensiamo per esempio agli attentati di Parigi), a seguito dei quali c’è chi invoca la guerra e c’è chi ritiene che siamo già entrati nella terza guerra mondiale. Ma le persone che con tanta facilità parlano a vanvera e fanno gli interventisti non sanno cos’è un conflitto mondiale perché non l’hanno mai vissuto sulla propria pelle. Per loro fortuna. Io penso che una terza guerra mondiale, uno scontro di civiltà tra l’Occidente e l’Oriente così come viene enunciato dai mass-media, sarebbe una vera catastrofe planetaria. Eppure, non bastano tutte le guerre che l’uomo ha combattuto durante la sua millenaria storia, con l’enorme carico di errori commessi e di morti causati; non sono sufficienti i tanti libri scritti da chi la guerra l’ha fatta e l’ha vissuta e poi ne ha raccontato la barbarie, per dissuadere i guerrafondai dei nostri tempi.

La guerra, qualsiasi guerra (e pensare che oggi c’è chi parla di guerra giusta) è sempre un’azione orrenda e detestabile che genera distruzione e morte. E il carcere – diretta conseguenza della guerra – non è da meno e credo sia una delle esperienze più angosciose e drammatiche che l’uomo possa vivere. Un’esperienza che ti divora e ti porta allo smarrimento spirituale e se ne esci vivo, non sei più quello di prima: sei un uomo diverso, hai paura della realtà e del mondo che ti circonda, avverti una sorta di “fastidio di esistere” e ti assale quella “noia di convivere”. E’ l’esperienza, questa, che troviamo descritta ne “Il mondo è una prigione” il cui autore, non appena uscì dal carcere, così annotò nel suo libro:

“…mi accorsi che rimpiangevo violentemente le ore in cui la mia vita era incerta, insidiata ogni momento; rimpiangevo la fame, il buio e l’incertezza che, questa volta, lasciavo definitivamente dietro le mie spalle (…) sentivo ingigantire nel mio cuore il fastidio di tornare tra gli uomini; sentivo una fortissima attrazione per i giorni trascorsi nelle luride celle delle prigioni che avevo conosciuto in quelle poche settimane che parevano anni…”. E’ incredibile come il carcere possa scalfire così profondamente il pensiero e l’animo umano.

Di fronte a questi sentimenti così contrastanti lo scrittore Guglielmo Petroni arriva a percepire confini molto labili tra la prigione e la  libertà, tant’è che si chiede: “E’ forse il mondo stesso una prigione? Siam forse noi stessi la nostra prigione, oppure è soltanto in noi, la nostra libertà? Gli altri sono forse la tua prigione? Una prigione che potrai amare forse, come ora ami quella concreta che lasci dietro te con questo oscuro rimpianto?”.

“Il mondo è una prigione” è un memoriale che lascia un segno indelebile sull’animo del lettore; mi permetto di dire che per il suo forte impatto emotivo è un libro paragonabile – fatte naturalmente le doverose distinzioni - a grandi opere della nostra letteratura come le “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci e “Se questo è un uomo” di Primo Levi.