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lunedì 24 aprile 2023

Pavese attraverso le lettere

 


Quando finisco di  leggere un romanzo di un grande scrittore mi piace frugare – diciamo così - tra le pagine di qualche altro suo scritto precedente o successivo, alla ricerca di un possibile collegamento. E devo dire che questa sorta di connessione la ritrovo quasi sempre, perché i libri dello stesso autore sono legati tra loro dalla medesima impronta stilistica, o meglio da un filo narrativo che li rende, in qualche maniera, riconoscibili. Tali sono i libri di Cesare Pavese. Questo per dire che, dopo aver letto “Prima che il gallo canti” – di cui ho parlato pochi giorni fa -  ho avvertito la necessità di addentrarmi tra le sue lettere scritte nel corso della sua vita, che spesso anticipano temi e personaggi dei suoi libri e si configurano come un diario pubblico, una sorta di tormentato testamento spirituale, insieme al “Mestiere di vivere”.

Leggendo le missive scritte da Pavese ai suoi amici e conoscenti, alla sorella, ai colleghi, alle donne di cui si era innamorato, si può seguire, passo dopo passo, la sua formazione professionale, i suoi primi successi letterari, ma anche le sue vicende più intime, le sue inquietudini, la solitudine che mai lo abbandonerà, nonché il doloroso evolversi dei suoi burrascosi sentimenti. Diversamente da quel suo personaggio (Clelia) del romanzo “Tra donne sole”, che dice di non riuscire a leggere un libro con risvolti autobiografici perché ha l’impressione di aprire le lettere degli altri e mettere il naso nei loro affari, io sono un cultore degli epistolari: mi piace “mettere il naso” tra le carte private dei grandi scrittori perché credo sia l’unico modo per conoscerli meglio. E il carteggio tenuto da Pavese, che ha uno straordinario valore letterario, ne costituisce la testimonianza. Il primo a dirlo fu Mario Sturani, un suo amico: considerava le sue lettere “dei veri capolavori letterari, delle poesie liriche, delle sinfonie, dei miracoli”.

La cosa che più colpisce, leggendole, è quel suo “vizio assurdo” di auto-annientamento, quel pensiero fisso di volersi suicidare che sempre lo tormentava. Aveva solo 19 anni quando, in una drammatica poesia inviata proprio al suo amico Sturani, scritta “alle tre del mattino, dopo una serata errabonda e tre ore di crisi meditativa nella mia stanza”, affiora in Pavese - per la prima volta - la tentazione di farla finita con una pistola: immaginava “il sussulto tremendo” dopo averla appoggiata contro una tempia “per spaccarmi il cervello”. E ancora al suo amico di liceo Tullio Pinelli scriveva nel 1927: “Oh, un giorno ne avrò bene il coraggio! Lo vagheggio di ora in ora tremando. E’ il mio ultimo conforto. Scrivimi qualcosa, voglio sentire sentire, son troppo solo, mi smarrisco”.

Dalle lettere, Pavese appare come un uomo tormentato e schivo che non si sente per niente appagato e felice. E soffre, per i suoi “desideri più lancinanti” o per le sue “disperazioni più vili”. In una lettera indirizzata al suo professore di Liceo Augusto Monti, si lamenta che non ha niente da fare e conduce “un’esistenza vilissima e ormai m’accorgo di non saper più uscire dal pantano della mia anima”. Parlando di arte, dice che “è la più alta delle attività umane e porta l’uomo più di ogni altra cosa vicino alla divinità”. Però, prima di giungere al capolavoro, l’artista subisce una sorta di “maceramento dello spirito” che finisce per logorarlo. “Per vivere – scrive sempre a Monti – bisogna aver forza e capire, saper scegliere. Io non ho mai saputo far questo. Come non capisco niente di politica così di tutti gli altri tramenii della vita”. Le lettere alla sorella Maria mostrano un Pavese più disteso, più dolce, più ironico, nonostante le sue avversità. Si trova nelle Carceri Nuove di Torino quando le scrive il 18 maggio 1935: “Qui si sta come in convento e sono tutti gentilissimi, meno la porta. Quando uscirò, saprò che cosa pensare della mia vocazione religiosa: se posso decidermi a fare il frate o no (…) In questa prigione non manca niente. C’è persino un ragno che conto di addomesticare, e, se Dio vuole che ci resti, quest’estate acchiappargli le mosche. Fra poco coltiverò una pianticella sul davanzale”.

Pavese viene poi mandato al confino a Brancaleone Calabro. Sempre alla sorella scrive il 9 agosto 1935: “Il viaggio di due giorni, con le manette e la valigia, è stata una impresa di alto turismo. Ormai il nome della famiglia è irrimediabilmente compromesso”. E all’amico Sturani, sempre da Brancaleone: “Ho quindi comperato una bella corda, l’ho adattata a nodo scorsoio, e tutte le mattine la insapono per tenerla pronta”. Ma subito dopo precisa: “Mi serve a guadagnarmi un po' di carne, quando i vicini mi chiameranno a prender parte all’impiccagione del maiale, che sta ora ingrassando in rigorosa castità”. E sempre a Sturani, tra il serio e il faceto: “qui sto bene, mi trattano con ogni civiltà, sono pagato per non far niente, realizzo insomma il mio ideale di vita”. Pavese vive tra i libri e parla spesso di libri “che sono come i figli…si conoscono solo una volta fatti, quando insomma non si è più a tempo a farli meglio. Occorrerà se si vuole riparare farne degli altri”. E, naturalmente, non mancano le lettere, a volte struggenti, a donne amate o solo vagheggiate: ad una ragazza che si firma Dinah “Noi non ci amiamo, Dinah. E nemmeno lo diciamo a noi stessi. Ci cerchiamo, così, per simpatia…”; a Milly, una famosa soubrette “Io la conosco, signorina, la conosco, ripeto, ma così, di sfuggita, l’ho seguita, l’ho osservata a lungo, talvolta, ma senza mai osare avvicinarla…Io non sono che un comunissimo studente di 19 anni”; a Fernanda Pivano “non ci si uccide per amore di una donna” le scriveva tormentato dalla sua relazione delicata e complessa; a Pierina: “Posso dirti, amore, che non mi sono mai svegliato con una donna mia al fianco, che chi ho amato non mi ha mai preso sul serio, e che ignoro lo sguardo di riconoscenza che una donna rivolge a un uomo?”; a Constance Dowling, attrice americana con cui ebbe un rapido flirt: “Ti amo…cara Connie, di questa parola so tutto il peso – l’orrore e la meraviglia – eppure te la dico, quasi con tranquillità. L’ho usata così poco nella mia vita, e così male, che è come nuova per me”. La sua ultima lettera la scrive a Davide Lajolo, la sera del 25 agosto 1950: “Ora non scriverò più! Con la stessa testardaggine, con la stessa stoica volontà delle Langhe, farò il mio viaggio nel regno dei morti”. Nella notte tra il 27 e 28 agosto 1950, Pavese si uccide in una camera d’albergo di Torino inghiottendo numerose bustine di sonnifero. Il suo ultimo messaggio sul frontespizio de “I dialoghi con Leucò”: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate molti pettegolezzi”


giovedì 13 aprile 2023

Quei libri che aspettano di essere letti

 


Io credo che tutti coloro che amano i libri ne posseggano più di quanti ne abbiano già letti. E io sono tra questi: ne avrò letti un migliaio (o forse meno) ma altri sono pazientemente in attesa e altri ancora ne arriveranno sulla mia libreria. Sono pochi? Sono tanti? Sinceramente non lo so. Pare che Sant’Agostino avesse letto solo trecento libri: ma erano altri tempi e i libri allora erano cosa rara.

Raccontava Umberto Eco che quando i suoi ospiti andavano a trovarlo, rimanevano sempre sbalorditi dai suoi 30mila volumi che tappezzavano le pareti di casa. E ogni volta gli chiedevano se li avesse letti tutti. E lui, irritandosi un pò, rispondeva di no. E non poteva essere diversamente, visto che è umanamente impossibile - anche per un lettore insaziabile - poter leggere un numero così esorbitante di libri, seppure nel corso di un’intera esistenza. E allora – mi domando - perché Umberto Eco continuava a riempire la sua casa di libri, cosa che facciamo anche noi nel nostro piccolo, pur sapendo che non avremo la possibilità di leggerli tutti? Perché non ci accontentiamo di quelli che abbiamo, provando magari a rileggerli una seconda volta, anziché affollare inutilmente i nostri scaffali di altri volumi che non sfoglieremo mai?

Mi piace pensare che, forse, amiamo collezionarli, come si fa con altri oggetti; ci danno comunque degli stimoli intellettuali, anche solo a guardarli in fila sugli scaffali; e chissà, forse ci spingono a osare, a leggere sempre di più, ad andare oltre le nostre conoscenze e i nostri limiti; senza dimenticare che certi libri li abbiamo comprati solo perché attratti dalla copertina o dal titolo; e poi, diciamocelo, ci piacciono quei ripiani che traboccano di libri letti e non letti, alti e bassi, appena comprati e vecchie edizioni introvabili, parcheggiati in doppia fila e accatastati gli uni sopra gli altri, libri belli che si fanno rileggere e libri brutti che si fanno apprezzare solamente per il colore della copertina.


lunedì 3 aprile 2023

Pavese non si legge: si può soltanto rileggere

 


Tra i pochi privilegi che riserva la “vecchiaia” c’è sicuramente quello di poter rileggere certi libri ricordi di gioventù, dopo aver avuto tutto il tempo per dimenticarli, seppure solo parzialmente per non sentirsi completamente smemorati. Nabokov sosteneva che non si può leggere un libro, lo si può soltanto rileggere perché leggerlo una volta sola è quasi come non aver letto affatto. Solo a una terza o quarta lettura riusciamo a possederlo mentalmente nella sua interezza. Io, per esempio, con “Prima che il gallo canti” di Cesare Pavese sono già alla terza. E non è detto che sia l’ultima! Lo lessi la prima volta durante gli anni del liceo, quando leggere Pavese era quasi un obbligo: e mi piacque. Però la giovane età non mi consentì di cogliere certe essenziali sfumature per comprenderlo al meglio. Se in seguito lo ripresi, è perché mi aveva lasciato dentro qualcosa di profondo, su cui mi piaceva ritornare. Ed ora eccomi al terzo giro che nasce da una curiosa coincidenza: sfogliando, giorni fa, la mia vecchia e ingiallita e sottolineata e sbrindellata edizione del 1969 (Oscar Mondadori Lire 750), mi sono accorto che mancavano all’appello le ultime pagine dell’ultimo capitolo. Chissà dove saranno andate a finire! Potevo mai rimanere indifferente di fronte a questa mancanza, visto che non ricordavo neanche come andasse a finire? E allora mi sono recato in libreria a comprarlo, scegliendo una bella edizione pubblicata da Garzanti e riccamente commentata dal critico letterario Gabriele Pedullà. Ora, sarà stata la nuova veste grafica, sarà stata pure l’occasione di avere tra le mani un romanzo letto in età giovanile – e si sa quanto gli amori giovanili durino poco ed abbiano una scadenza breve, come il latte - fatto sta che ho avuto come l’impressione di leggere Prima che il gallo canti per la prima volta. E devo dire che è stata una gradita e piacevole sorpresa. Qualche lettore un po' malizioso direbbe che si tratta proprio di uno scherzo della vecchiaia che, fiaccando in profondità la memoria, ti fa dimenticare pure ciò che hai mangiato a pranzo. Figuriamoci un libro letto tanti anni prima. Certo, l’entusiasmo provato la prima volta è senz’altro diverso da quello di oggi, perché il trascorrere del tempo cambia anche le nostre percezioni. E questo mi fa pensare che se formuliamo un giudizio definitivo su un libro non possiamo, poi, appassionarci su ciò che ha da offrirci nel momento in cui andiamo a rileggerlo.

Comunque sia, io credo che i libri che più amiamo (a contarli non sono poi molti), che teniamo sempre a portata di mano e che si fanno prendere soprattutto in certi particolari momenti della nostra vita, non si scordano mai. Si fanno leggere e rileggere anche a distanza di tempo e ogni volta rinnovano emozioni, ricordi, sentimenti.  Sono come quelle vecchie canzoni senza tempo che non ti stanchi mai di ascoltare. Prima che il gallo canti è un libro che non ti fa sentire mai solo nonostante parli della solitudine dell’uomo, dei tormenti della sua coscienza, della sua inadeguatezza esistenziale. Anzi, ha proprio la capacità di sortire l’effetto contrario sul lettore perché sa conquistare la sua complicità. E il lettore arriva anche a riconoscersi nel malessere del protagonista del libro fino a scoprire che quel malessere, quella condizione di solitudine, quei nodi conflittuali e tormentati dell’esistenza sono anche i suoi.

Prima che il gallo canti comprende due racconti scritti da Pavese a distanza di quasi dieci anni l’uno dall’altro: Il carcere, che trasfigura l’esperienza del suo confino in un paesino della Calabria (Brancaleone Calabro); e La casa in collina che affronta la sua mancata partecipazione alla Resistenza, il tradimento cui allude il titolo del romanzo, tratto dal famoso brano del Vangelo. Il carcere, per Pavese, più che un luogo fisico è uno stato d’animo, un modo di sentire e di stare al mondo; simboleggia un sentimento di estraneità che lo isola dalla realtà e lo accompagna come un’ombra per tutta la vita. E questa consapevolezza emerge dalle parole del protagonista del romanzo - Stefano, alias Pavese - quando dice: “Le nuvole, i tetti, le finestre chiuse, tutto in quell’attimo era dolce e prezioso, tutto era come uscire dal carcere. Ma poi? Meglio restarci per sognare di uscirne, che non uscirne davvero”. Il carcere si identifica, quindi, con la vita stessa. Ed è una condizione esistenziale che forse non risparmia nessuno. Ma solo pochi la riconoscono, questa condizione - e tra questi gli scrittori che la sublimano -  mentre i più la vivono, ignari. Anche La casa in collina ha un suo significato metaforico che va oltre il racconto dei bombardamenti su Torino durante l’ultima guerra: è il luogo dell’anima dove Corrado - l’altro Pavese – si rifugia per scappare dalle sue responsabilità, dai suoi rimorsi, dalle sue paure. E’ il luogo che lo protegge, al riparo dai pericoli della vita ma anche dai legami umani. E chi, almeno una volta nella vita, non ha sentito quel bisogno di fuggire dal mondo? E, forse, di fuggire da sé stessi?