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lunedì 24 gennaio 2022

Nei mari estremi

 


“E’ un libro che tratta “della nostra vita, della sua morte”. Così Lalla Romano – una delle figure più significative del nostro Novecento letterario - parlava del suo libro “Nei mari estremi”, forse la sua opera più intensa, quella che tocca il suo vertice narrativo. Già la conoscevo, questa scrittrice piemontese, per aver letto “Le parole tra noi leggere” con cui vinse il premio Strega nel 1969, romanzo che parla del suo rapporto con un figlio “difficile”. Con “nei mari estremi” Lalla Romano (amica di Mario Soldati e Cesare Pavese), ripercorre i “quattro anni” dell’innamoramento per Innocenzo Monti (che diventerà Presidente della Banca Commerciale Italiana e che sposa nel 1932), e poi i “quattro mesi” della malattia di lui che lo porterà alla morte. Il libro - che si sviluppa attraverso concisi flash di memoria e di immagini - è un singolare romanzo/diario, una sorta di intima confessione disperata e intensa, un’ “avventura spirituale” nei punti più estremi dell’amore e della morte, che ne fanno un unicum di tutta la nostra letteratura.

“Per me scrivere – dice Lalla Romano – è stato sempre cogliere, dal tessuto fitto e complesso della vita qualche immagine, dal rumore del mondo qualche nota, e circondarle di silenzio”. E queste sue concise strofe in prosa, questi suoi istanti di vita circondati dal bianco della pagina – come avrebbe detto lei - sono brandelli di sofferenza interiore di fronte alla fugacità della condizione umana, ma anche brevi momenti di felicità. “C’era malinconia nella gioia, come è giusto; e non era follia, era saggezza”. Sicché il libro risulta come spezzato in due parti: c’è un “prima”, fatto di dolcezze, di piccoli piaceri, di serenità familiare, che Lalla Romano sembra quasi proteggerlo dal “dopo” che è in agguato e che sfocia nel dramma, “nei mari estremi” della malattia. E poi della morte. Ma la scrittrice non è nella malattia che temeva di perdere la sua storia d’amore con Innocenzo “ma nelle assenze, nella lontananza. Morire è allontanarsi: l’ho saputo poi”. Così scrive. Nei mari estremi è un testo duro e struggente - ma nello stesso tempo – di grande tenerezza; è uno di quei rari libri che, grazie al pathos che riesce a trasmettere, non può essere raccontato: va soltanto letto.


martedì 18 gennaio 2022

Paestum

 


Ci sono dei luoghi che sanno di eterno e nessuna riproduzione, fotografica o descrittiva, può mai rendere l’idea della loro bellezza che solo la presenza sul posto può trasmettere. Sono luoghi come sospesi nel tempo, che in qualche maniera ci riportano alle nostre origini, di fronte ai quali si rimane incantati, soggiogati dalla grandiosità delle immagini e dalle sensazioni che suscitano. Uno di questi luoghi è certamente Paestum, patrimonio dell’umanità. Dicevo che nessuna descrizione può mai sostituirsi allo sguardo, eppure resto sempre affascinato dalle parole dei grandi personaggi della cultura (poeti, scrittori, artisti…) che - trovandosi al cospetto dei templi di Paestum – hanno saputo celebrarli con parole che posseggono una straordinaria capacità evocativa, prima ancora che godere della loro maestosità architettonica. Un atto d’amore nei confronti della bellezza, un invito ad osservare con occhi estasiati la magnificenza del passato. E a volte queste belle descrizioni le trovi dove meno te le aspetti, come nelle pagine di un romanzo di Michele Prisco “Lo specchio cieco” di cui ho parlato nel post precedente:

“A Paestum ogni volta ritrovo, e rinnovo, un coagulo di emozioni, il rigurgito come di ancestrali allarmi: per quanto anche lì intorno la speculazione edilizia abbia cercato di deturpare il paesaggio, resta ancora uno dei pochi luoghi in cui il Sud mi parla più che con la sua storia o la sua civiltà con la forza oscura e inalterabile dei suoi richiami. Già ci si arriva intimiditi, attraversando una campagna bassa e squadrata (le bufale che vi si attardano impigrite sono grasse, lucide, sazie), e quando si è di fronte ai templi s’entra come in un sortilegio di cui non si riesce mai a spiegare la natura e forse il loro fascino sul visitatore consiste proprio in questa silenziosa arcana impenetrabilità. Perché qui siamo soli, noi uomini d’oggi più o meno malati di nevrosi, e i blocchi di pietra millenari, ma ci separa più che la distanza temporale l’ineffabilità del mistero, del rito, del recinto sacro, che si respira in tutta la sua chiusa solennità e che niente può aiutarci a sciogliere in un incontro più diretto o in una più umana misura: la pietra resta muta e gelosa, lo stesso mare che traluce di là dai colonnati (e quel giorno era livido, fermo e senza confini) diventa un altro elemento di questa suggestione così intensa e struggente”.


sabato 15 gennaio 2022

Scrittori dimenticati: Michele Prisco

 


Un libro deve avere la capacità di aprire la mente e lasciare una traccia del suo passaggio. In questa orgia di pubblicazioni noi oggi sembriamo rincorrere solo le novità, le mode letterarie, l’immediata fruibilità di un prodotto, come se il libro fosse equiparabile all’ultimo modello di telefonino e non fosse, invece, un luogo di metafore, di incontri, uno strumento di autoanalisi. Mi piacerebbe che ogni tanto la televisione, anziché pubblicizzare l’ennesimo libro di Carofiglio, di Vespa e di Vattelapesca, riproponesse qualcuno dei tanti ottimi scrittori italiani del Novecento che – pur non avendo mai frequentato i salotti televisivi – hanno fatto la storia della nostra letteratura scrivendo opere che non muoiono mai. Sono autori del tutto dimenticati e che oggi nessuno più legge. Eppure hanno scritto libri importanti e hanno vinto premi significativi. Tra questi, c’è sicuramente Michele Prisco, scrittore partenopeo (era nato a Torre Annunziata) di grande spessore culturale, morto circa venti anni fa. Egli sa rendere bella anche “la vita del condominio” - come chiamava le storie del presente e dell’ordinario Sebastiano Vassalli – sa dare dignità letteraria anche alla banalità del vivere quotidiano: e non è da tutti. E questo, grazie ad uno stile corposo ed elegante che non può non incantare chi ama la bella scrittura. Prisco – da acuto osservatore del suo tempo – concentra la sua attenzione quasi sempre su pochi personaggi, per lo più appartenenti alla ricca borghesia partenopea, a quella “provincia addormentata” (che è anche il titolo di un suo libro di racconti), adagiata sulle falde del Vesuvio. E intorno a questi soggetti, sempre tormentati da dilemmi etici e morali, costruisce la trama psicologica dei suoi romanzi che toccano debolezze e fragilità dell’animo umano, vizi e virtù. Ne escono degli affreschi esistenziali sempre attuali. Sempre piacevoli da leggere e su cui riflettere. Mi piacerebbe che una mattina, passando davanti ad una libreria qui a Roma, scorgessi in vetrina accanto all’ultimo libro di Carofiglio e della Lambertucci, anche la nuova edizione di un vecchio romanzo di Michele Prisco: non dovrei più cercarlo sulle bancarelle dei mercatini dell’usato.

“Lo specchio cieco” è uno di questi suoi romanzi, uscito nel 1984. Il protagonista, e voce narrante, è un noto scrittore, che vive con la moglie a Roma (forse lo stesso Prisco, il suo alter ego) il quale, arrivato alla soglia dei cinquant’anni - dopo aver pubblicato diversi libri di successo - si ritrova come svuotato e impoverito dentro, tanto da non riuscire a scrivere più niente. A questo indebolimento della sua fantasia narrativa, si unisce pure un sentimento di sfiducia o disillusione sulla reale necessità del suo lavoro intellettuale, tant’è che spesso si domanda se non sia arrivato il momento di deporre definitivamente la penna. Complice anche quel “processo d’involgarimento sempre più pervasivo” innescato dai mezzi di informazione di massa, in primis la televisione, attraverso l’intrusione dentro le nostre case della realtà esterna, così “violentemente prevaricante e preponderante”. Ma, come per incanto, l’incontro casuale con una donna conosciuta molti anni addietro e che aveva perso di vista (era stata la seconda moglie del padre di un suo caro amico d’infanzia), ha la capacità di interrompere quel suo stato di inerzia. Un incontro, questo, che lo riporta con la mente indietro nel tempo, agli anni della sua tranquilla vita a San Severino, un piccolo paese in provincia di Salerno, che aveva custodito i suoi sogni adolescenziali di diventare scrittore. L’immagine di questa donna, così diversa da come l’aveva conosciuta, e poi i luoghi della giovinezza, i ricordi e gli amici di quel tempo sembrano favorire il recupero del suo equilibrio interiore, da cui dipende il suo futuro di narratore. E per ritrovare fiducia nella scrittura, decide di raccontarne la storia, di romanzarla o addirittura camuffarla con la fantasia, facendo riaffiorare dal passato episodi e figure e volti e paesaggi della sua vita di provincia, là dove solo poteva rintracciare la sorgente vera delle sue radici. “In quel mondo unico e irriducibile – dice il protagonista – che poi avrebbe trasformato il tempo in memoria e che non era propriamente il tempo della mia adolescenza ma era come l’adolescenza del tempo, di quella insostituibile età, voglio dire, che rappresenta per tutti noi, in accezione individuale o collettiva, il solo possibile punto di riferimento per un disegno del nostro destino”.


domenica 9 gennaio 2022

Al cimitero

 


Passeggiare lentamente in un cimitero non è una cosa sconfortante, da evitare: è, invece, l’occasione per rintracciare nomi e volti di amici, conoscenti, persone care che non ci sono più e di cui si conserva la memoria, anche solo attraverso storie lontane che ci sono state raccontate. E’ un modo per ritrovare ricordi e significati profondi, per lasciarsi coinvolgere da quella dolce malinconia che, in certi momenti della vita, fa proprio bene all’anima. “Venite vivi a visitare i morti – si legge, non ricordo in quale cimitero – prima che morte a visitar vi venga”. Questa visita al cimitero io la faccio ogni qualvolta ritorno al paese d'origine, nel Cilento. Ma non il 2 di novembre: quel giorno vi si aggirano troppi vivi e io mal sopporto la folla da mercato, tanto più nel posto dove regnano i morti e la pace eterna.

Il piccolo camposanto del mio paese - che si erge su una lieve collina - gode di una posizione davvero invidiabile, oserei dire amena: da una parte guarda verso il mare e la Costiera Amalfitana e, dall’altra, verso la vallata della diga dell’Alento, circondata da una catena di monti a delimitarne l’orizzonte. Certo, è sempre un camposanto, però pensare di essere seppelliti in un luogo così dolce, forse rende più lieve il pensiero della morte. Un posto per l’eternità, con vista sulla bellezza anche questa eterna. Ci sono stato l’ultimo giorno dell’anno appena passato: non sono il tipo che si lascia influenzare dalle superstizioni. Le stupidaggini proprio non le sopporto. Sono i vivi che a volte fanno paura, non i morti. Tantomeno i cimiteri. Diceva Giovanni Papini che “i teatri di marionette e i camposanti sono gli unici luoghi dove l’uomo possa prendere acuta coscienza di sé. Nei primi vede cos’è prima della morte, nei secondi quel che sarà dopo la vita”.

Non c’era nessuno a quell’ora, nel cimitero, solo un signore del paese che io conosco, raccolto nei suoi pensieri sulla tomba del figlio, morto qualche anno fa. Scambio qualche parola con lui: mi dice che viene qui a fargli visita due volte al giorno, la mattina e la sera. Io credo che la morte di un figlio sia, per un genitore, una delle prove più dure e difficili da sopportare, il dolore più straziante e insanabile che possa colpire una persona. Raggiungo il loculo marmoreo dove è sepolto mio padre: guardo quella sua foto, in alto, che lo ritrae sorridente, e gli mando un bacio con la mano. Ho come l’impressione che mi stia aspettando e sia felice di rivedermi. Chiudo gli occhi in muta preghiera, e bastano quei pochi istanti per ripercorrere tutta la sua esistenza: la guerra, che da giovane lo aveva visto prigioniero in Germania (spesso me ne parlava), le difficoltà del vivere, il duro lavoro, i sacrifici per assicurarmi un avvenire migliore, la sua malattia. Un padre vive sempre se non lo lasciamo morire dentro di noi. Ricordo la sua infinita, contagiosa serenità: era capace di stare delle ore seduto davanti l’uscio di casa – durante gli ultimi anni della sua vita - senza mai annoiarsi. E senza mai lamentarsi. Non aveva bisogno di molto per essere contento, questo mi ha insegnato. Avrei voluto stare di più con lui, apprezzarne quell’umanità che ho perduto per sempre. E goderne. Saluto, poi, i miei nonni che “abitano” lì vicino. Quanta tenerezza, quanta nostalgia ancora mi suscitano! Su quei volti in bianco e nero, che sanno di antico, si compie ogni volta il riassunto più rapido della mia adolescenza. Spensieratezza, gioie, sensazioni indelebili di quando ero ragazzo e stavo con loro. “Tutto viene dalla terra” – diceva mio nonno Nicola, contadino – e terra diventeremo”…e come è vivo in me il ricordo di nonna Giovannina: da piccolo mi proteggeva con raccomandazioni e preghiere e ogni giorno aspettava trepidante il mio ritorno dalla scuola, per il pranzo!.. e poi quelle lunghe partite a briscola con nonno Peppo: cercavo sempre di imbrogliarlo per suscitare la sua indignata reazione, che tanto mi divertiva! Questi pensieri, per un attimo, mi commuovono. Passo poi a salutare mio suocero; era di una bontà rara! Faceva il fabbro, un mestiere che, nel paese, è morto con lui. Quanti manufatti in ferro battuto ha realizzato per noi! Giro l’angolo per lasciare un saluto, una preghiera e un fiore a Nicola, mio cognato, che riposa in pace nella cappella della sua famiglia: un drammatico e crudele destino l’ha strappato alla vita e ai suoi cari (moglie e due figlie), quando aveva solo 33 anni, gli anni di Cristo. Sembra quasi che Nostro Signore morto in croce chiami a sé prima i più buoni.

Mi aggiro tra le lapidi, fila dopo fila, tutte guarnite di foto, ed ho come l’impressione che gli occhi di quei defunti prendano vita e mi seguano benevolmente ovunque io vada. Osservo i mazzi di fiori allineati, alcuni freschi altri appassiti, i lumini accesi, le piccole immagini sacre, le tante epigrafi a ricordare chi non c’è più. Forse sono proprio le epigrafi il lato stonato di questo luogo: sembrano tutte uguali, vergate dalla stessa mano, le solite scritte generiche, banali e dolciastre. “A leggerle – diceva Andreotti – uno si chiede: scusate ma se sono tutti buoni, dov’è il cimitero dei cattivi?”. La frase celebrativa incisa sulla lapide dovrebbe forse regalare, come una Spoon River, l’ultimo sorriso o far riflettere sulla fragilità della condizione umana. “Ero ciò che non sono”, si legge sulla tomba di Pessoa; “Allegria” su quella di Mike Bongiorno; “Amici non piangete, è soltanto sonno arretrato” ci ammonisce Walter Chiari.

Quanti morti ci sono in un cimitero! Mentre guardo di qua e di là, rivolgo loro un cenno di saluto con la mano o con la testa. Conosco più le persone che sono qui sepolte che non quelle che vivono nel paese. Contadini, muratori, artigiani…molti di loro li avevo conosciuti anziani, o li vedevo semplicemente girare nel paese, quando io ero ancora ragazzo. E ora li ritrovo qui. E qui, ogni volta, scorgo qualcuno che prima non c’era. E questo mi rattrista e mi ricorda che il tempo passa inesorabilmente. Mi soffermo in raccoglimento davanti alla tomba di Gaetano, di Tony…due amici: se ne sono andati per sempre anzitempo. La morte non sfoglia solo il libro dei vecchi, mi viene da pensare. Ogni volto mi riporta alla mente ricordi e immagini del passato, frammenti di vita vissuta nel paese in cui sono nato.

Esco dal cimitero avvinto da un sentimento d’intensa e profonda compassione per tutte quelle persone assenti. Ma non sono triste! Come dice Franco Arminio “il luogo diventa più dolce se ognuno porta la sua ferita, il suo segreto”. In una delle tante “Cartoline dai morti” (un suo libriccino) sempre Franco Arminio - immaginando un morto che dà dei consigli ai vivi – così scrive“Ora che sono morto io vi dico: fate attenzione quando salutate un vecchio, quando salutate un bambino, sentitevi contenti di avvitare una lampadina, di allacciarvi le scarpe, ma più di tutto godetevi la bellezza di tornare a casa, non importa se da un lungo viaggio o da un funerale”.


lunedì 3 gennaio 2022

L'amicizia

 


L’amicizia è un sentimento raro, molto raro. Da qui il suo lato prezioso. Da qui nasce quell’antico proverbio che recita: “chi trova un amico trova un tesoro”. E non è facile trovare un tesoro. Dubito, pertanto, delle dichiarazioni troppo entusiastiche in favore dell’amicizia. Diffido di quelle persone che si beano, allegramente, di avere “tantissimi amici”. Se mi guardo intorno, con un occhio rivolto anche al mio passato, io vedo solo compagni di scuola e di giochi (che non si dimenticano mai), vedo simpatici conoscenti, vedo parenti, vedo ex colleghi di lavoro (la cui compagnia è sempre piacevole): ma non vedo amici, nell’accezione più vera e profonda del termine.

Quante volte abbiamo sentito dire da chi ama la lettura: “i libri sono i miei migliori amici”…oppure, da chi ama gli animali, “il cane è il mio amico più fedele”. Se questo è vero, perché i libri così come i cani ti danno tanto senza chiedere nulla, diventa plausibile anche essere amico di uno strumento musicale, di un albero che l’hai visto crescere, di un oggetto a cui sei affezionato, di una bottiglia di vino. D’altra parte Proust affermava che “avrebbe potuto fare ugualmente amicizia con un divano”. E poi quante volte un genitore si pone nei confronti del figlio come un amico! e alzi la mano chi non ha mai sentito dire: “non esiste migliore amico di me stesso”. Tutto ciò, a riprova di quanto possa essere ampio o limitato il valore che si attribuisce alle amicizie. Insomma, tra malintesi, confusioni e interpretazioni sbagliate, tra appropriazioni indebite di un sentimento e differenze di punti di vista: l’amicizia è una delle parole più abusate, che sta in bocca a tutti e da tutti viene maltrattata. Diciamo di avere tanti amici, quando invece ci troviamo di fronte a persone che troviamo solo simpatiche, e con le quali ci piace trascorrere una serata in pizzeria. Certo, può essere una forma di amicizia anche questa – se proprio non vogliamo chiamarla compagnia - ma dobbiamo riconoscere che nella maggior parte dei casi si parla di amicizia laddove non ci sono che relazioni legate da interessi reciproci, superficiali, poco profonde, senza conseguenze emotive. E che dire, poi, dell’amicizia virtuale che nasce sui social! Si “chiede l’amicizia” su facebook, e il bello è che ti può essere concessa ma anche revocata, come se questo sentimento fosse un adempimento burocratico, o si potesse comprare. Una vera aberrazione.

Ci sono stati, nel corso dei secoli, coppie di amici che hanno lasciato un’impronta indelebile nella storia della letteratura, e non solo, legate da una profonda amicizia fondata sulla lealtà e sulla generosità: mi vengono in mente Eurialo e Niso, Patroclo e Achille, Narciso e Boccadoro, fino ad arrivare ai giorni nostri con Falcone e Borsellino. Sono esempi di amicizia, questi, che ci offrono interessanti spunti di riflessione su un sentimento ormai svalutato e banalizzato. A questi esempi vorrei ora aggiungere una bella e reale storia di amicizia raccontata dallo scrittore e psichiatra viareggino Mario Tobino - “medico dei matti” come amava definirsi - nel suo romanzo autobiografico “Tre amici”

Tobino è stato uno scrittore atipico della letteratura del ‘900, la cui scrittura si muove sempre tra vicende di guerra e di follia, toccando aspetti autobiografici, attraverso uno scavo psicologico molto profondo. Qualche sera fa Rai 5, uno dei pochi canali che si occupa davvero di cultura, gli ha dedicato - a trent’anni dalla sua morte - una interessante trasmissione proponendo il suo percorso di vita attraverso le sue opere e la sua attività di medico nell’ospedale psichiatrico di Maggiano (LU). E tra le sue opere, “Tre amici” occupa un posto di rilievo perché narra le vicende umane e professionali dell’autore e dei suoi due amici fraterni Mario Pasi e Aldo Cucchi (nel libro assumono i nomi di Campi e Turri), i quali si incontrano all’Università di Bologna dove studiano medicina. Li unisce lo studio, la passione politica, il desiderio di costruire un mondo migliore. Lo sfondo è quello degli anni ’30: la guerra, il Fascismo, la militanza nella Resistenza. I tre protagonisti non hanno bisogno di sbandierare ai quattro venti la loro fraterna amicizia e il libro inizia proprio con queste parole: “Non ci dicemmo mai che eravamo amici. Figuriamoci il Campi se pronunciava la parola amicizia! Vi avrebbe potuto scorgere una svenevolezza…Anch’io e Turri mai pronunciammo: siamo amici. Ci chiamavamo con i nostri nomi, ecco tutto. Quel che era infisso nel cuore non doveva trasparire”. Erano legati da un rapporto di amicizia fraterno e inscindibile che andava oltre il semplice affetto, più forte delle avversità della vita e degli anni della guerra. Più forte della morte. 

La voce narrante è quella di Alfeo Ottaviani, l’alter ego di Tobino: “Ora, mentre scrivo, trascorsi più di quaranta anni, mi pare eccezionale la nostra amicizia, incapace io a descriverla, noi tre, che non ci siamo comunicati mai nessun sentimento, mai un’effusione…Ora sono rimasto solo. Non mi rimane che ricordarli, tentare qualche loro tratto, inseguire a lampi, affacciarmi sopra le loro ombre, sperando che la storia risorga…Era la nostra amicizia così profonda, talmente insieme avevamo collaborato ai nostri sogni che, se anche non ci si vedeva, non ci si frequentava, il nostro colloquio procedeva, sapevamo tutto quel che ci passava nel cuore e nella mente…”.

Un libro dal sapore dolce amaro, delicato, a tratti malinconico e poetico. “…quel che ci univa, il tizzone che bruciava Turri, Campi e me, era la politica, questa la nostra croce, infissa nel cuore, Il nostro segreto era quello, tre croci uguali, quasi per noi tempo di catacombe, avessimo frequentato Gesù…Io sono qui a tentare di tradurli con le parole…”