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giovedì 21 maggio 2020

Lettere cartacee e letteratura: un binomio inscindibile



Chi non è più giovanissimo – come il sottoscritto - ricorderà certamente quelle lettere cartacee di una volta, espressione di un modo di comunicare ormai superato. Erano gli anni in cui il telefono di casa (oggi uno strumento obsoleto, sostituito dal cellulare) veniva usato con vera parsimonia, solo per le telefonate necessarie e urgenti; internet era ancora fantascienza; la velocità – in tutte le sue declinazioni - non aveva soppiantato i ritmi lenti e naturali dell’esistenza e il computer - così come oggi lo conosciamo - non era stato inventato. Pertanto, tranne qualcuno che poteva permettersi una macchina da scrivere (ricordo la mia mitica “olivetti lettera 32”), si ricorreva necessariamente alla carta e alla penna per comunicare con una persona lontana. A nostra insaputa, allora, eravamo tutti scrittori che si rivolgevano ad un solo, affezionato lettore: colui che avrebbe ricevuto la lettera. La nostra lettera.

Quale originario strumento di comunicazione, la lettera scritta a mano assumeva quasi un’immagine di sacralità che si poteva toccare e annusare come una cosa cara e preziosa; si poteva accarezzare con lo sguardo per cogliervi non solo il senso profondo delle parole, ma anche  il carattere e perfino lo stato d’animo di colui che scriveva; era un oggetto unico e speciale che si conservava in un cassetto e si rileggeva a distanza di tempo, capace di rinnovare ed evocare, ogni volta, emozioni e ricordi, gioie e dolori.

Con la modernità e con l’avvento di internet siamo stati catapultati nel magico mondo – si fa per dire - della comunicazione digitale. Facebook, twitter, whatsapp - i famigerati social - sono diventati i nuovi strumenti di comunicazione di massa con cui dispensiamo, al mondo intero, messaggi sempre più incerti e sminuzzati e sgrammaticati, a cui non attribuiamo alcun valore affettivo, nessun peso emozionale o letterario, se non l’ostentazione di una conquistata visibilità in un mondo virtuale, dove esiste solo chi è parte integrante di quell’universo. Affetti da una sorta di bulimia comunicativa, scriviamo incessantemente, senza approfondire e senza pensare, con una soglia di attenzione molta bassa, adoperando un vocabolario che contiene non più di 100/200 vocaboli, nella migliore delle ipotesi. E devo dire che ce la mettiamo tutta, pur di storpiare e abbreviare le parole: per fare prima, per non occupare spazio, per non perdere tempo. E poi inviamo con un semplice click, incuranti di rileggere quello che abbiamo scritto. In una sequenza interminabile di rimandi che rasenta la follia.

Facevo queste riflessioni, l’altra sera, mentre leggevo la corrispondenza amorosa intercorsa, ai primi del ‘900, tra il poeta Guido Gozzano ed Amalia Guglielminetti, una bella e sensuale poetessa, tra l’altro molto stimata da Gabriele D’Annunzio. Il carteggio - attraverso un appassionato gioco cerebrale, crudele e dissacrante, rivela tutto il tormento interiore di Gozzano e la sua incapacità di sostenere un sentimento come l’amore, sentimento che lo attraeva e lo respingeva, nello stesso tempo. D’altra parte, il poeta, in una sua famosa poesia (Cocotte) confessava:
“…il mio sogno è nutrito d’abbandono,
di rimpianto. Non amo che le rose
che non colsi. Non amo che le cose
che potevano essere e non sono
state…”

I due protagonisti si conoscono, si apprezzano, si seducono e si raccontano attraverso le lettere, tuttavia il lettore non riuscirà mai a capire del tutto cosa sia effettivamente accaduto tra queste due anime tormentate, che riuscivano a volare in alto anche quando scrivevano una semplice lettera. Miracolo della letteratura! E pensavo, mentre leggevo questi scritti di elevato valore letterario, che un “Gozzano” – oggi – difficilmente scriverebbe una lettera alla sua amante. Sicuramente userebbe il cellulare, subisserebbe la sua malcapitata con centinaia di messaggi, tutt’al più  le invierebbe una e-mail, lo strumento che forse più si avvicina alla lettera di un tempo. Ma tutto questo non lascerebbe alcuna traccia cartacea, da tramandare ai posteri, né la mail potrebbe avere lo stesso incantesimo letterario di una lettera scritta a mano, con i suoi tempi di attesa, lenti e meditativi, e con il suo carico di emozioni.
Mi piace riportare, di seguito, alcuni frammenti di queste lettere.

 6 gennaio 1908 - “Vi sto dimenticando Amalia! Vi sto dimenticando (mi spiego) fisicamente. E’ uno strazio curioso, che dà il senso giusto della nostra grande miseria cerebrale: non riesco più, per quanto io tenti, a ricordare certi piccoli particolari del vostro volto, delle vostre mani…
Ma in questo lento dileguare la vostra immagine spirituale (nell’ultima vostra me ne chiedete) si definisce meglio, balza al mio spirito con linee precise: vi voglio un gran bene, mia cara Amalia! E voi siete per me la vera amica, la compagna di sogni e di tristezza. Gl’istanti di aberrazione giovanile che ci avvinsero l’un l’altro sono già dimenticati (ben altre cose cancella e corrode il Mare!) ed io mi sento già estraneo, immune dal vostro fascino fisico, franco da ogni schiavitù voluttuosa…”

30 marzo 1908 - “Rileggo ogni giorno la tua lettera, mia buona Amalia, con una grande malinconia. E indugio nella risposta, preso da un’indolenza dolorosa: forse perché non so bene come dirti…Da molti giorni sono in casa ed ho l’anima morbosamente assopita, incerta di tutto come in un sogno. (…) Io provo una soddisfazione speciale quando rifiuto qualche bella felicità che m’offre il Destino. (…)
Amalia, mio buon amico, quante di queste cose t’avrei detto e ti vorrei dire se tu non fossi giovine e bella! Ma hai degli occhi luminosi e una bocca tentatrice ed è impossibile starti vicino senza diventare irriverenti con te come con una crestaia od una cortigiana qualunque.
Ho rilette queste sei pagine, amica mia: oimè! Parlo, parlo e, sopra tutto, ragiono: quanto devo farti soffrire! E anche sdegnare. Perdonami!
Perdonami. Ragiono, perché non amo: questa è la grande verità. Io non t’ho amata mai (…) Già altre volte t’ho confessata la mia grande miseria: nessuna donna mai mi fece soffrire; non ho amato mai; con tutte non ho avuto che l’avidità del desiderio, prima, ed una mortale malinconia, dopo…
Ora con te, che sei il più eletto spirito femminile ch’io abbia mai incontrato mai, e con te che dici di amarmi, sono stato sempre e voglio essere ancora sincero: non ti amo. E la risoluzione più leale da parte mia è il distacco. Partirei pur non dovendo partire”

13 aprile 1907 – Cortese Avvocato, ieri sera ho ritrovato fra le pagine del suo libro un poco di quella fraternità spirituale che la sua offerta mi rivela. Il rimpianto di ciò che fu, e l’ansia di ciò che non è ancora, e il sottile tormento del dubbio, e l’ebbrezza folle del sogno, tulle le cose belle e perfide di cui noi poeti si vive e ci s’avvelena.
Non ho ancora assaporato le squisitezze dell’arte, solo ho sfiorato l’essenza, l’anima della sua poesia: un’anima un poco amara, un poco inferma. Spero che la sua fraternità non sarà più tanto silenziosa, ch’essa vorrà esprimersi in modo più diretto. Cordialmente. Amalia Guglielminetti

Novembre 1909 – Guido molto amato (…) Fatti vivo, buon fratello cattivo e oblioso; dicono che sei a Torino, ma saresti così perverso da non farti vedere da me? Non mi vuoi più bene, lo sento! Vedi, mi lamento come una modistina abbandonata dall’amante e siamo tu celebre ed io quasi, senza contare che ci amiamo di un amore puro. Scrivimi se sei a Torino o altrove, anzi vieni a trovarmi: voglio dirti tante cose, tante care cose sciocche, di quelle che si dicono fra persone intelligenti. Se non ti fai vivo m’offendo, te lo giuro, e rinnego la nostra fraternità. Ti bacio su una tempia: dev’essere un po’ cavata la tua tempia, credo. Addio Amalia

sabato 16 maggio 2020

Lunga vita alla stupidità e all'ignoranza


“…Come sistema, l’istruzione obbligatoria ha un merito: dà a tutte le persone educabili con profitto la possibilità di apprendere nozioni da cui trarre giovamento e con cui giovare magari all’intera società. Nel contempo, però, essa aumenta a dismisura il numero di persone che non sanno ricavare molti vantaggi dalla cultura, ma che nondimeno ricevono un’istruzione più o meno raffinata.

Quando era riservata a pochi, la cultura appariva preziosa come le perle o il caviale. L’età dell’oro dello snobismo culturale fu l’età buia dell’educazione. Quando infine l’istruzione, che all’epoca in cui era riservata ai Pochi era sembrata così preziosa e magicamente efficace, fu data ai Molti, questi scoprirono presto che il dono non valeva quanto avevano creduto, e anzi era praticamente inutile. E in effetti, alla stragrande maggioranza degli uomini e delle donne, la cultura non dà ovviamente un bel nulla. Proprio nulla: né soddisfazioni spirituali né ricompense sociali. Non dà soddisfazioni spirituali perché la maggior parte della gente (e forse è una fortuna) non possiede la curiosità intellettuale di chi trae piacere dalle astrazioni e dalle teorizzazioni di un’educazione liberale. E non dà ricompense sociali perché, in un mondo in cui tutti sono istruiti, il mero fatto di essere andati a scuola cessa automaticamente di rappresentare la chiave del successo. Nel sistema dell’istruzione obbligatoria, i vantaggi sociali tendono ad andare a chi possiede sia talento sia cultura. I Molti istruiti ma privi di talento si ritrovano, proprio come prima, fortemente emarginati.

I democratici militanti continuano a prescrivere studio e sempre più studio come ricetta per tutti i mali personali e sociali. A quanto sembra, ritengono l’istruzione qualcosa di più di una semplice medicina: una sorta di magico elisir. Basta che se ne beva in buona quantità per trasformarsi in superuomini. (…) Se per un miracolo si realizzassero i sogni dei pedagogisti e la maggioranza degli esseri umani cominciasse a interessarsi solo di argomenti culturali, l’intero sistema industriale collasserebbe all’istante. Considerata la struttura dei macchinari moderni, non può esservi prosperità industriale senza produzione di massa. Posto che tutti gli altri fattori restino immutati, il consumo varia in misura inversamente proporzionale alla ricchezza della vita intellettuale. Un uomo interessato esclusivamente ad argomenti culturali sarà felicissimo (secondo le parole di Pascal) di starsene seduto tranquillo in una stanza. Un uomo che non nutre alcun interesse per gli argomenti culturali si annoierà a morte se lo si costringerà a star seduto tranquillo in una stanza. Poiché non ha pensieri con cui distrarsi, deve acquistare cose che sostituiscano i pensieri; poiché non è in grado di compiere viaggi mentali, dovrà muoversi fisicamente. Un simile uomo è, in poche parole, il consumatore ideale, il consumatore di massa di oggetti e mezzi di trasporto.

Ebbene, gli industriali hanno chiaramente interesse a incoraggiare il buon consumatore e scoraggiare il cattivo. Ed effettuano quest’operazione per mezzo della pubblicità, nonché dell’immensa propaganda che la stampa, grata, conduce a rinforzo della pubblicità. Chi se ne sta seduto tranquillo in una stanza senz’altra compagnia che i suoi pensieri e magari un libro da cui trarre diletto, viene dipinto come un derelitto, un poveraccio ridicolo e perfino un po’ immorale. La felicità è data dal rumore, dallo stare in compagnia, dal movimento e dal possesso di oggetti. Più rumore si ascolta, più gente si ha intorno, più rapidamente ci si sposta e più oggetti si possiedono, più felicità ci sarà: e non solo più felici, ma anche più normali e virtuosi. Nel moderno stato industriale gli intellettuali, in quanto scarsi consumatori, sono cattivi cittadini. Lunga vita alla stupidità e all’ignoranza!

Incoraggiati dalla propaganda dell’industrialismo, i frutti dell’istruzione di massa sono maturati e divenuti sempre più rigogliosi, come cavoli nella perenne luce dell’estate artica. Oggi i nuovi snobismi della stupidità e dell’ignoranza sono abbastanza forti da muover guerra almeno ad armi pari all’antico snobismo della cultura. Perché, pur nel suo assurdo anacronismo, il caro, vecchio snobismo culturale sopravvive ancora, con coraggio. Sarà sconfitto dai suoi nemici? E, particolare assai più importante, sarà sconfitta anche la cultura che esso difende con così eroico, patetico sforzo? Spero, e quasi oso confidare, che così non sia. Ci sarà sempre qualcuno per il quale le realtà interiori resteranno così importanti, così vitali da non permettergli, da non potergli assolutamente permettere di lasciarle scomparire.
<< Ma esisteranno davvero sempre persone del genere? >>, domanda un ironico demone. <<E l’aumento di ritardati mentali che si registra ogni anno? E le prove addotte da R.A. Fisher per dimostrare che una società abituata a misurare il successo in termini economici deve fatalmente e inevitabilmente eliminare tutte le facoltà intellettive superiori ereditabili alla nascita?>> Ignoriamo il demone; o meglio speriamo ardentemente che si possa far qualcosa per tacitarlo prima che sia troppo tardi. Nel frattempo la battaglia tra snobismi rivali infuria grottescamente…”

Aldous Huxley
Riflessioni sulla luna (Oscar Mondadori)



lunedì 11 maggio 2020

Quando un algoritmo ti viene a cercare



E’ in atto una rivoluzione tecnologica a livello planetario che sta esercitando una pressione senza precedenti sui comportamenti umani e sull’etica individuale. Naturalmente, chi guida siffatto cambiamento epocale tende ad esaltare qualsiasi ritrovato della scienza e della tecnica, anche il più invasivo. Per fortuna c’è ancora qualcuno che prova a suonare l’allarme, al fine di contrastare questa vera e propria tirannia digitale. Yuval Noah Harari, professore e scrittore israeliano che insegna all’università di Gerusalemme - attraverso il suo ultimo libro “21 lezioni per il XXI secolo” -affronta alcune delle questioni più urgenti legate all’avanzata tecnologica. Il libro non intende dare risposte ma proporre riflessioni e domande sia sul comportamento degli individui che sulla condotta di intere società. L’analisi dello scrittore israeliano prende le mosse dalla cosiddetta “intelligenza artificiale” che ormai comincia a superare le prestazioni degli uomini in molte competenze e mansioni. Il rischio è che, investendo troppo sul suo sviluppo e troppo poco sulla coscienza e sulla mente umana, finiremo per regredire come esseri pensanti.

Quando le tecnologie biologiche si uniranno a quelle informatiche – afferma l’autore del libro - produrranno degli “algoritmi” che potranno capire e controllare i nostri sentimenti meglio di noi stessi. Di conseguenza, l’autorità decisionale passerà, in maniera molto veloce, dagli esseri umani ai computer. La libera volontà – sostiene il prof. Harari - sarà solo un’illusione, dal momento che le aziende, le agenzie governative e il potere economico-finanziario potranno comprendere e manipolare quello che finora è stato il nostro impenetrabile mondo interiore. Delegando agli algoritmi ogni decisione, perderemo gradualmente la capacità di pensare in autonomia. Basti considerare che già oggi, miliardi di persone si affidano all’algoritmo di ricerca di Google per trovare qualsiasi informazione su internet. E tale ricerca è definita quasi sempre dal primo risultato che appare su Google.

La tecnologia può aiutarci moltissimo ma se questa guadagna troppo potere sulla nostra vita, diventeremo inevitabilmente ostaggio dei suoi programmi. Scrive Harari nel suo saggio:
“Quando la tecnologia sarà in grado di comprendere meglio gli esseri umani, sarà sempre più facile trovarsi nella condizione di servirla, invece di essere serviti. Avete visto quegli zombi che vagano per le strade con le facce incollate ai loro smartphone? Pensate che siano loro a controllare la tecnologia o che sia invece quella a controllarli? (…) Per migliaia di anni i filosofi e i profeti hanno stimolato gli uomini a conoscere se stessi. Ma questo consiglio non è mai diventato così pressante come nel XXI secolo, poiché a differenza dei tempi di Lao-Tze o di Socrate, adesso la concorrenza è dura. (…) Gli algoritmi vi guardano anche in questo momento. Osservano dove andate, cosa comprate, chi incontrate. Presto saranno in grado di controllare tutti i vostri passi, ogni vostro respiro, tutti i battiti del vostro cuore. Usano i Big Data e l’apprendimento automatico per conoscervi sempre meglio. E una volta che questi algoritmi vi conosceranno meglio di voi stessi, potranno controllarvi e manipolarvi, e non potrete fare granché per contrastarli. (…) Certo si può essere felici di lasciare tutta l’autorità agli algoritmi e affidarsi a loro per quello che riguarda noi e il resto del mondo. Se è così rilassatevi e godetevi il viaggio. Non dovete pensare a nulla. Gli algoritmi si occuperanno di tutto. Se invece volete avere un minimo di controllo sulla vostra esistenza individuale e sul futuro della vita, dovrete correre più velocemente degli algoritmi, più velocemente di Amazon e del governo, e cercare di conoscere voi stessi prima di loro”



venerdì 8 maggio 2020

Palingenesi



Da oltre due mesi tutto ancora ruota intorno al coronavirus. E' la triste realtà! Fatti, parole, immagini, proposte, suggerimenti: ogni avvenimento, ogni cosa che leggiamo o scriviamo o guardiamo o ascoltiamo rimanda, implacabilmente, a quel “tarlo” invisibile che ha sconvolto la nostra esistenza e continua a scavare dentro di noi. E nessuno sa fino a quando. E nessuno sa come ne usciremo. Sarà possibile una rinascita, dopo la distruzione?
Mi sono imbattuto in questa profonda e dolente poesia di Giorgio Caproni. Affidiamoci, per qualche attimo, a questi versi, che mi sembrano molto attuali.

Palingenesi
Resteremo in pochi.
Raccatteremo le pietre
e ricominceremo.
A voi,
portare ora a finimento
distruzione e abominio.
 Saremo nuovi.
Non saremo noi.
Saremo altri, e punto
per punto riedificheremo
il guasto che ora imputiamo a voi.

Giorgio Caproni