Chi non è più giovanissimo –
come il sottoscritto - ricorderà certamente quelle lettere cartacee di una
volta, espressione di un modo di comunicare ormai superato. Erano gli anni in
cui il telefono di casa (oggi uno strumento obsoleto, sostituito dal cellulare) veniva usato con vera parsimonia, solo per le telefonate necessarie e urgenti;
internet era ancora fantascienza; la velocità – in tutte le sue declinazioni -
non aveva soppiantato i ritmi lenti e naturali dell’esistenza e il computer -
così come oggi lo conosciamo - non era stato inventato. Pertanto, tranne qualcuno
che poteva permettersi una macchina da scrivere (ricordo la mia mitica
“olivetti lettera 32”), si ricorreva necessariamente alla carta e alla penna
per comunicare con una persona lontana. A nostra insaputa, allora, eravamo
tutti scrittori che si rivolgevano ad un solo, affezionato lettore: colui che
avrebbe ricevuto la lettera. La nostra lettera.
Quale originario strumento di
comunicazione, la lettera scritta a mano assumeva quasi un’immagine di
sacralità che si poteva toccare e annusare come una cosa cara e preziosa; si
poteva accarezzare con lo sguardo per cogliervi non solo il senso profondo
delle parole, ma anche il carattere e perfino lo stato d’animo di colui
che scriveva; era un oggetto unico e speciale che si conservava in un cassetto
e si rileggeva a distanza di tempo, capace di rinnovare ed evocare, ogni volta,
emozioni e ricordi, gioie e dolori.
Con la
modernità e con l’avvento di internet siamo stati catapultati nel magico mondo
– si fa per dire - della comunicazione digitale. Facebook, twitter, whatsapp - i
famigerati social - sono diventati i nuovi strumenti di comunicazione di massa
con cui dispensiamo, al mondo intero, messaggi sempre più incerti e sminuzzati
e sgrammaticati, a cui non attribuiamo alcun valore affettivo, nessun peso
emozionale o letterario, se non l’ostentazione di una conquistata visibilità in
un mondo virtuale, dove esiste solo chi è parte integrante di quell’universo. Affetti
da una sorta di bulimia comunicativa, scriviamo incessantemente, senza approfondire
e senza pensare, con una soglia di attenzione molta bassa, adoperando un
vocabolario che contiene non più di 100/200 vocaboli, nella migliore delle
ipotesi. E devo dire che ce la mettiamo tutta, pur di storpiare e abbreviare le
parole: per fare prima, per non occupare spazio, per non perdere tempo. E poi
inviamo con un semplice click, incuranti di rileggere quello che abbiamo
scritto. In una sequenza interminabile di rimandi che rasenta la follia.
Facevo queste riflessioni, l’altra sera, mentre leggevo la corrispondenza amorosa intercorsa,
ai primi del ‘900, tra il poeta Guido Gozzano ed Amalia Guglielminetti, una
bella e sensuale poetessa, tra l’altro molto stimata da Gabriele D’Annunzio. Il
carteggio - attraverso un appassionato gioco cerebrale, crudele e dissacrante,
rivela tutto il tormento interiore di Gozzano e la sua incapacità di sostenere
un sentimento come l’amore, sentimento che lo attraeva e lo respingeva, nello
stesso tempo. D’altra parte, il poeta, in una sua famosa poesia (Cocotte) confessava:
“…il mio
sogno è nutrito d’abbandono,
di rimpianto.
Non amo che le rose
che non colsi.
Non amo che le cose
che potevano
essere e non sono
state…”
I due protagonisti si conoscono, si
apprezzano, si seducono e si raccontano attraverso le lettere, tuttavia il lettore
non riuscirà mai a capire del tutto cosa sia effettivamente accaduto tra queste
due anime tormentate, che riuscivano a volare in alto anche quando scrivevano
una semplice lettera. Miracolo della letteratura! E pensavo, mentre leggevo questi scritti di elevato
valore letterario, che un “Gozzano” – oggi – difficilmente scriverebbe una
lettera alla sua amante. Sicuramente userebbe il cellulare, subisserebbe la sua
malcapitata con centinaia di messaggi, tutt’al più le invierebbe una e-mail, lo strumento che
forse più si avvicina alla lettera di un tempo. Ma tutto questo non lascerebbe
alcuna traccia cartacea, da tramandare ai posteri, né la mail potrebbe avere lo
stesso incantesimo letterario di una lettera scritta a mano, con i suoi tempi
di attesa, lenti e meditativi, e con il suo carico di emozioni.
Mi piace riportare, di seguito, alcuni
frammenti di queste lettere.
6 gennaio 1908 - “Vi sto
dimenticando Amalia! Vi sto dimenticando (mi spiego) fisicamente. E’ uno
strazio curioso, che dà il senso giusto della nostra grande miseria cerebrale:
non riesco più, per quanto io tenti, a ricordare certi piccoli particolari del
vostro volto, delle vostre mani…
Ma in questo lento dileguare la vostra immagine spirituale (nell’ultima
vostra me ne chiedete) si definisce meglio, balza al mio spirito con linee
precise: vi voglio un gran bene, mia cara Amalia! E voi siete per me la vera
amica, la compagna di sogni e di tristezza. Gl’istanti di aberrazione giovanile
che ci avvinsero l’un l’altro sono già dimenticati (ben altre cose cancella e
corrode il Mare!) ed io mi sento già estraneo, immune dal vostro fascino
fisico, franco da ogni schiavitù voluttuosa…”
30 marzo 1908 - “Rileggo ogni giorno la tua lettera, mia buona Amalia, con
una grande malinconia. E indugio nella risposta, preso da un’indolenza
dolorosa: forse perché non so bene come dirti…Da molti giorni sono in casa ed
ho l’anima morbosamente assopita, incerta di tutto come in un sogno. (…) Io
provo una soddisfazione speciale quando rifiuto qualche bella felicità che
m’offre il Destino. (…)
Amalia, mio buon amico, quante di queste cose t’avrei detto e ti vorrei
dire se tu non fossi giovine e bella! Ma hai degli occhi luminosi e una bocca
tentatrice ed è impossibile starti vicino senza diventare irriverenti con te
come con una crestaia od una cortigiana qualunque.
Ho rilette queste sei pagine, amica mia: oimè! Parlo, parlo e, sopra tutto,
ragiono: quanto devo farti soffrire! E anche sdegnare. Perdonami!
Perdonami. Ragiono, perché non amo: questa è la grande verità. Io non t’ho
amata mai (…) Già altre volte t’ho confessata la mia grande miseria: nessuna
donna mai mi fece soffrire; non ho amato mai; con tutte non ho avuto che l’avidità
del desiderio, prima, ed una mortale malinconia, dopo…
Ora con te, che sei il più eletto spirito femminile ch’io abbia mai
incontrato mai, e con te che dici di amarmi, sono stato sempre e voglio essere
ancora sincero: non ti amo. E la risoluzione più leale da parte mia è il
distacco. Partirei pur non dovendo partire”
13 aprile 1907 – Cortese
Avvocato, ieri sera ho ritrovato fra le pagine del suo libro un poco di quella
fraternità spirituale che la sua offerta mi rivela. Il rimpianto di ciò che fu,
e l’ansia di ciò che non è ancora, e il sottile tormento del dubbio, e l’ebbrezza
folle del sogno, tulle le cose belle e perfide di cui noi poeti si vive e ci s’avvelena.
Non ho ancora
assaporato le squisitezze dell’arte, solo ho sfiorato l’essenza, l’anima della
sua poesia: un’anima un poco amara, un poco inferma. Spero che la sua
fraternità non sarà più tanto silenziosa, ch’essa vorrà esprimersi in modo più
diretto. Cordialmente. Amalia Guglielminetti
Novembre 1909 – Guido molto
amato (…) Fatti vivo, buon fratello cattivo e oblioso; dicono che sei a Torino,
ma saresti così perverso da non farti vedere da me? Non mi vuoi più bene, lo
sento! Vedi, mi lamento come una modistina abbandonata dall’amante e siamo tu
celebre ed io quasi, senza contare che ci amiamo di un amore puro. Scrivimi se
sei a Torino o altrove, anzi vieni a trovarmi: voglio dirti tante cose, tante
care cose sciocche, di quelle che si dicono fra persone intelligenti. Se non ti
fai vivo m’offendo, te lo giuro, e rinnego la nostra fraternità. Ti bacio su
una tempia: dev’essere un po’ cavata la tua tempia, credo. Addio Amalia