lunedì 28 aprile 2014

"La vita ingenua" di Vittorio Gorresio (1910-1982)


 
Non so se “la vita ingenua” sia il libro migliore di Vittorio Gorresio, con cui lo scrittore piemontese vinse nel 1980 il premio Strega. Credo, comunque, che sia quello a cui lui si senta più legato, perché attraverso una prosa dai toni lievi e delicati, soffusa di bonaria ironia, ci racconta in prima persona la sua storia personale, le vicende della sua famiglia; ripercorre con la memoria i luoghi della sua infanzia e della sua giovinezza; si apre agli altri e svela frammenti di vita, anche i più intimi; rende noti i suoi affetti personali attraverso una galleria di ritratti familiari. In primo piano la figura del padre, un uomo all’antica che credeva molto nei valori militari, patriota sincero “ma non deformato dal militarismo”. E poi i due fratelli, anch’essi militari, che moriranno durante la campagna di guerra in Russia. Senza dimenticare altre figure importanti della sua vita come le due nonne che lui chiamava Nonnina e Nounou, politicamente distanti l’una dall’altra.

Il libro si può dividere in due parti distinte: la prima abbraccia gli anni della sua fanciullezza, la seconda invece rievoca i fatti delle due grandi guerre. Ritengo molto più interessanti le pagine della prima parte del libro, durante gli anni della prima guerra mondiale, sullo sfondo della Cuneo  del primo Novecento, come peraltro scrive anche il suo amico A. Galante Garrone nella sua bella prefazione. Lo scrittore, attraverso le vicende della sua famiglia, ci racconta il mondo della piccola borghesia di provincia, un mondo oramai scomparso, con i suoi difetti ma anche con i suoi innumerevoli pregi. Da piccolo, lo scrittore piemontese era convinto che la sua città natale – Cuneo – unitamente alla sua famiglia, fossero il motore della patria, in virtù di tutti i militari di casa sua: il padre era un generale dell’esercito, i suoi due fratelli ufficiali degli alpini, i nonni, sia quello materno che paterno, avevano entrambi rivestito il grado di colonnello, mentre i suoi bisnonni erano stati generali savoiardi o piemontesi. Era cresciuto respirando in famiglia il convincimento della superiorità della condizione del militare rispetto a quella chiamata comunemente borghese. E pensare che solo lui aveva scelto una professione borghese, quella appunto di giornalista.

Educato al rispetto del culto e della dottrina cristiana nonché alle buone maniere, sempre il primo della classe durante lo svolgimento dei suoi studi, era persuaso che la guerra fosse la cosa più normale di questo mondo “la guerra era per me una componente necessaria dell’esistenza, alla stregua della pioggia e del sole, del giorno e della notte”. Pertanto il tempo, per Gorresio, scorreva scandito in capitoli: prima della guerra, durante la guerra e dopo la guerra; trovarsi quindi immerso in un conflitto mondiale non gli faceva alcuna impressione. Però cominciava a “temere la vita” e si chiedeva cosa avrebbe saputo fare per guadagnarsela. La carriera militare non lo attirava; aveva intrapreso gli studi giuridici ma quelle materie lo interessavano poco e soprattutto non aveva nessuna intenzione di fare l’avvocato perché “difendere assassini e discolpare ladri” non gli sembrava “una funzione missionaria ma un tentativo di ribaltare la verità”. Le sue aspirazioni erano altre, seppure vaghe e confuse. Voleva diventare un grande scrittore, per esempio, o uno storico o un poeta. Qualche volta pensava al giornalismo che gli avrebbe permesso di viaggiare e conoscere popoli e paesi.

Seguono i trasferimenti del padre ufficiale da una città all’altra, da Napoli a Caserta e quindi l’approdo a Roma, dove Gorresio visse il resto della sua vita. Un ricordo speciale nel libro è rivolto, poi, ai rapporti che i suoi familiari ebbero con la famiglia reale proprio a Roma, dove il padre, quale comandante del collegio militare, ebbe tra i suoi allievi il principe ereditario Umberto di Savoia. Ma Roma non era una città molto amata dalla sua famiglia, nei cui confronti nutriva un sottile disprezzo per la sua arretratezza. Senza contare che “il complesso di superiorità dei piemontesi era in quegli anni ancora forte nelle nostre famiglie di immigrati, e noi bambini ne subivamo facilmente il contagio”, così scrive l’autore.

giovedì 24 aprile 2014

Ci vediamo in piazza




A volte è davvero difficile riuscire a cogliere la vera natura di un luogo e ciò che esso può rappresentare e comunicare emotivamente ad ognuno di noi, a prescindere dalla sua funzione e dal contesto in cui si trova quel luogo. Mi riferisco alla “piazza”, quel microcosmo racchiuso, il più delle volte, nel centro storico del paese o della città, dove si consumano incontri, ma anche scontri, dove si tengono spettacoli e raduni.
Mi chiedo se esista ancora quel salotto buono della nostra infanzia, custode geloso dei nostri appuntamenti quotidiani, dove nascevano e maturavano amori ed amicizie. Nell’immaginario collettivo la piazza era ( lo è ancora? ) il luogo dove ci si riuniva, dove ci si confrontava con gli altri. E’ stata sempre immaginata come spazio di socializzazione e di aggregazione dove poter vivere momenti di vita comunitaria, dove poter scambiare idee ed opinioni; un luogo pubblico dove potersi divertire, ma nel contempo un luogo privato, intimo, dove ritrovare se stessi, l’essenza della propria appartenenza.
Chissà quante volte ci siamo detti: ci vediamo in piazza! E per noi, ragazzi di paese, non ci si poteva sbagliare perché la piazza era una sola, rispetto alle tante piazze delle città, quasi sempre incastonata tra antichi palazzi, al centro del borgo, magari con una bella fontanella zampillante, con il bar o la pasticceria per le ore più dolci, con la sua bella chiesa per i momenti della preghiera. E con l’immancabile “muretto”, che fungeva da panchina su cui si trascorrevano ore liete e spensierate, tra giochi e schiamazzi. La piazza era il buen retiro, il salotto per le chiacchiere e per il divertimento. Era un luogo di arrivo e di permanenza, dove si bighellonava per ore, ma era anche un luogo di appuntamento temporaneo, da dove si partiva per altre scorribande, per altre mete. Se si desiderava incontrare qualcuno, bastava andare in piazza e aspettare: prima o poi sarebbe arrivato. Se si voleva sapere qualcosa, bisognava andare in piazza, perché la piazza era il giornale del paese. Era lo specchio e il simbolo del paese.
Nell’antica Grecia rappresentava il centro pulsante della polis: era l’agorà, contemporaneamente il luogo del mercato e il centro economico, politico e religioso, vi sorgevano gli edifici pubblici e commerciali nonché quelli adibiti al culto delle divinità. Un’autentica invenzione architettonica, la cui funzione e fruizione è andata cambiando sempre di più nel corso dei secoli.  Durante il periodo fascista, per esempio, la piazza ricopriva un ruolo fortemente politico: era il luogo dove il popolo di radunava per ascoltare i discorsi del Duce e per fare propaganda. Negli anni 50/60, con i suoi caffè letterari (che sorgevano soprattutto nelle grandi città come Napoli, Roma o Milano) era il luogo privilegiato del dibattito culturale; vi si incontravano scrittori e artisti, sceneggiatori e cineasti. E’ diventata, in seguito, sede delle grandi manifestazioni politiche e sindacali, centro di raccolta per spettacoli e concerti. Insomma la vita che scorreva e si fermava in questo spazio della memoria collettiva, vera fucina di idee, di discussioni, di emozioni, di contestazioni.

Oggi mi chiedo se questa antica maniera di vivere la piazza appartenga ancora alla società contemporanea; mi domando se la piazza venga ancora percepita come luogo di interazione sociale e di incontro o non sia diventata, invece, un luogo-non-luogo o meglio un luogo di passaggio, come tutti gli altri esistenti in un paese o in una città.
La migliore risposta a questo interrogativo credo che mi sia arrivata l’altro giorno da un ragazzo, il quale parlando al telefonino con un suo amico, diceva: ci vediamo su facebook. Quel “ci vediamo in piazza” di antica memoria è stato, ormai, soppiantato dal moderno “ci vediamo su facebook”. Oppure in “chat” o su “twitter”. Quindi la piazza tradizionale sembra essere stata superata da quella virtuale: internet e la televisione, dove la gente si ritrova accomunata dalle stesse idee e dagli stessi interessi. Non è un caso se oggi i politici, per propagandare le proprie idee (si fa per dire!) preferiscano il salotto televisivo, piuttosto che il contatto con la piazza, scelgano il talk show anziché il comizio in piazza. Preferiamo incontrare i nostri amici su internet, anziché conoscerli dal vivo nelle piazze e approfondire quella amicizia attraverso una frequentazione fisica e diretta.

E annullando il luogo fisico con il luogo virtuale, affidandosi sistematicamente alle moderne piazze multimediali, il pericolo maggiore che si corre è quello di un effettivo impoverimento culturale della nostra società, sempre più massificata e succube di un pensiero unico, imposto dai moderni strumenti tecnologici. Si ha l’impressione che quei rapporti interpersonali, che si nutrivano di opinioni e modi diversi di fare, di esperienze differenti di vita, finalizzati al raggiungimento di una vera crescita personale, siano di fatto sostituiti da relazioni virtuali, snaturate dal contesto in cui si vive. Questo produce un modo di esprimersi sempre più disarticolato e sintetico che si affida al pollice in su o al pollice verso per indicare che quella cosa “mi piace” o “non mi piace” oppure ad un messaggino di pochi caratteri, al posto di un pensiero più elaborato ed esplicito.

martedì 22 aprile 2014

Dissipatio H. G. di Guido Morselli (1912-1973)


 


Scritto da Guido Morselli pochi mesi prima della sua tragica scomparsa (si suicidò nel luglio del 1973 a seguito dell’ennesimo rifiuto editoriale), Dissipatio H.G. - dove HG sta per humanis generis – rappresenta, forse, il libro che meglio dipinge la contraddittoria figura dello scrittore bolognese. Va detto che è un libro di difficile collocazione, che si presta a diverse interpretazioni e che presenta una trama scarna e debole, non sempre sorretta da una prosa lucida e lineare.

Scritto sotto forma di monologo interiore, la vicenda ruota intorno ad uno strano e complicato personaggio il quale, così come il suo autore, ha deciso di porre fine alla sua esistenza. Sennonché, mentre sta per compiere l’insano gesto all’interno di una caverna, il suo istinto di conservazione gli fa cambiare idea. Esce dal luogo che doveva essere la sua tomba e scopre che è successo qualcosa di misterioso: tutto il genere umano sembra sparito, volatilizzato, non c’è più alcuna traccia di uomini sulla terra. Solo le macchine, le case e tutte le altre cose materiali sono al loro posto, intatte, che continuano a funzionare e di cui lui può servirsi a suo piacimento. Comincia a girovagare in lungo e in largo, ossessionato dai suoi dubbi e dalle sue angosce. Ma ossessionato soprattutto dal silenzio dovuto all’ assenza umana, che è un “silenzio che non scorre. Si accumula”.

L’anonimo protagonista, l’aspirante suicida, che da sempre coltivava il vizio del solipsismo, si ritrova così ad essere l’unico superstite in un mondo senza uomini, padrone assoluto dell’universo in cui monarchia e anarchia sembrano coincidere e coesistere nella stessa persona. Proprio lui, che aveva deciso di sparire da quel mondo che avversava e disprezzava e di allontanarsi per sempre dall’umanità intera attraverso il suicidio, si ritrovava, per uno strano ed inspiegabile gioco del destino, catapultato in un mondo surreale, abitato solo dagli animali e dalle cose, senza via di scampo.

Un eletto o un dannato? Alla luce di quanto era successo, doveva considerarsi un prescelto o piuttosto un escluso? Questo nella finzione letteraria. Nella realtà il Morselli/sopravvissuto non aveva avuto dubbi: si considerava inevitabilmente un escluso, che doveva pagare con la vita.

(febbraio 2013)

sabato 12 aprile 2014

L'etica del lavoro è l'etica degli schiavi?



Bertrand Russel è stato uno dei più grandi intellettuali del ‘900: il suo pensiero ha influenzato notevolmente la cultura del mondo occidentale. In un suo libro affermava che “l’etica del lavoro è l’etica degli schiavi, e il mondo moderno non ha bisogno di schiavi”. Partendo da questo principio, proponeva di lavorare solo 4 ore al giorno: sarebbero bastate, non solo per assicurare una produzione di beni e di servizi sufficienti per tutti, ma anche per garantire ad ognuno il necessario per vivere dignitosamente. Ma la cosa più importante, secondo lui, è che una siffatta organizzazione del lavoro avrebbe finalmente sconfitto la disoccupazione.
In un sistema sociale di questo genere, Russel riteneva essenziale l’istruzione, che doveva essere molto più completa dell’attuale e che mirasse, in parte, ad educare e raffinare il gusto in modo che un uomo potesse sfruttare con intelligenza il proprio tempo libero. Il lavoro richiesto a ciascuno, affermava il filosofo inglese, sarebbe sufficiente per farci apprezzare il tempo libero; e non essendo stanchi per il troppo lavoro, non ci limiteremmo a svaghi passivi e vacui ma potremmo dedicare parte del tempo non impegnato nel lavoro professionale anche a ricerche di utilità pubblica. Egli, insomma, immaginava una società in cui lavorassero tutti  - ma poco - dando così grande spazio al “saggio uso dell’ozio, che è un prodotto della civiltà e dell’educazione”. Sognava un mondo in cui al centro ci fosse l’uomo affrancato dal troppo lavoro e non l’uomo schiavo del lavoro. Auspicava una società in cui tutti avessero il necessario per vivere - lavorando il meno possibile - per poter dedicare il resto del tempo alle cose più belle della vita. Un progetto apparentemente molto interessante che, però, non è stato mai preso in seria considerazione dagli economisti e dal potere dominante. E’ stato visto come un disegno puramente accademico e utopistico. Tuttavia, nella nostra società caratterizzata da una massa di super impegnati a fronte di un’altra massa di senza lavoro, poter dividere gli incarichi e le attività lavorative secondo un principio di equità non sarebbe una cosa del tutto sconveniente.
A volte mi capita di ascoltare persone che si annoiano se all’improvviso, magari per qualche giorno, a causa di un malanno, sono costrette a stare a casa senza poter lavorare. Sono le stesse persone che dopo aver lavorato per tutta una vita e per tantissime ore al giorno, non sanno più che fare quando vanno in pensione. E  probabilmente non saprebbero come riempire le loro giornate se dovessero lavorare soltanto quattro ore su ventiquattro. La nostra è una società che spinge gli individui a lavorare sempre di più (quelli che già hanno un lavoro) e si dimentica di coloro che un lavoro non ce l’hanno.
Il giornalista Massimo Fini scriveva giorni fa su un quotidiano che non ha senso aver inventato strumenti che velocizzano al massimo il tempo se poi siamo costretti a impiegare il tempo così guadagnato in altro lavoro (magari investito nella creazione di strumenti ancor più veloci in un circuito vizioso che non ha mai fine). Abbiamo usato malissimo la tecnologia che avrebbe potuto liberarci dalla schiavitù del lavoro e invece l’abbiamo utilizzata per renderlo ancor più alienante, o assente proprio mentre lo abbiamo reso necessario.

E allora sarebbe essenziale ripensare il lavoro, magari ripartendo da quegli antichi mestieri di una volta che oggi sembrano essere scomparsi dal mondo lavorativo (il falegname, il sarto, il fabbro, l’idraulico ecc.) sostituiti da professioni dai nomi improbabili che non si sa bene cosa facciano ( il curatore d’immagine, il webmaster, il consulente di marketing, l’ideatore di videogame, l’allocatore di risorse). Ve lo immaginate un bambino alle scuole elementari, che alla domanda del maestro cosa fa tuo padre, debba rispondere il project manager? Gli altri compagni di classe non capirebbero e forse neanche il maestro sarebbe capace di spiegare ai suoi alunni la vera attività di quel genitore.
Dobbiamo ripartire – senza per questo ritornare nel medioevo – dalle arti manuali, dalle piccole imprese agricole, dalle botteghe di artigianato, dai negozi a conduzione familiare, affinché si possa lavorare unicamente per produrre ciò di cui abbiamo bisogno, anziché consumare sempre di più per poter continuare a produrre all’infinito cose di cui non sappiamo che farcene.
 

venerdì 11 aprile 2014

"Bel-ami" di Guy de Maupassant (1850-1893)


Questo bel romanzo - scritto da Guy de Maupassant nel 1884 - può senz’altro considerarsi come uno dei grandi capolavori della letteratura europea, un libro di estrema modernità ed attualità, sia per la tematica trattata (il potere e la corruzione, con tutte le nefande conseguenze sul piano etico-sociale) che per lo stile letterario caratterizzato da una straordinaria eleganza e linearità.
 
Sappiamo bene che tutti i grandi libri della letteratura hanno elevato a “protagonisti” del racconto, sostanzialmente, due categorie di persone, ossia gli inetti, da una parte, ed i vincenti, gli arrampicatori sociali, dall’altra. Se nei libri di Italo Svevo i personaggi, per lo più sconfitti dalla vita, subiscono passivamente questa loro penosa condizione ( mi riferisco ai vari Zeno Cosini o Alfonso Nitti), nel romanzo dello scrittore francese, invece, il protagonista Georges Duroy - che inizialmente è un oscuro impiegato delle Ferrovie (prima ancora si era arruolato nell’esercito per diventare ufficiale, ma si era immediatamente dimesso perché disgustato dalla vita militare) - mostra tutta la sua volontà per emergere e raggiungere le vette più alte della società.

Il personaggio - che esce dalla penna di Maupassant - nelle prime pagine del libro appare esasperato per la miserevole condizione di vita in cui si dibatte. Egli manifesta un vero e proprio senso di ribellione contro la sua povertà; desidera porre fine a quell’esistenza meschina; avverte che per elevarsi socialmente bisogna sapersi destreggiare, schivare le difficoltà della vita, aggirare gli ostacoli che si incontrano lungo il cammino, costi quel che costi. Peraltro si sente umiliato dal vedersi precluse le porte della buona società, dal non avere conoscenze altolocate, dal non essere ammesso nell’intimità delle signore che contano.
D’altra parte, sa di avere la parola facile e un certo fascino nella voce, e di possedere “molta grazia nello sguardo e un’irresistibile forza di seduzione nei baffi”; inoltre egli è consapevole del fatto che le donne provino per lui una particolare predilezione, un’immediata simpatia, e il non aver modo di conoscere quelle da cui far dipendere il suo avvenire, lo rende impaziente.

Ma la sua vita cambia improvvisamente, quando incontra un suo compagno d’armi che lo introduce nel giornale in cui lavora, “La vie francaise”, una testata giornalistica nota per i suoi legami con il potere, temuta e rispettata, che si presta ad operazioni di borsa ed a intrallazzi di ogni genere, una vera fabbrica di soldi, il cui padrone è un affarista ebreo cui la stampa e il suo mandato parlamentare gli servono solo da leva.
Questa occasione rappresenta, per il nostro personaggio, il trampolino di lancio verso una immediata scalata sociale, che lo porta ad essere introdotto tra la gente che conta. E’ un uomo scaltro e senza scrupoli, Duroy, che piace alle donne e che passa da un’amante all’altra, da un’avventura sentimentale con la moglie del padrone del giornale, al matrimonio con la moglie del suo migliore amico, morto prematuramente. Queste figure femminili – che lui utilizza oltre che per ricevere piacere, anche e soprattutto per accumulare privilegi di ogni sorta – sono esse stesse manipolatrici o vittime dei suoi disegni di potere e di successo.

Ambientato nella Parigi di fine Ottocento, lo scrittore francese, attraverso la descrizione psicologica dei suoi innumerevoli personaggi,  intende fare una critica - a volte feroce e canzonatoria ed a volte bonaria - della società borghese del suo tempo, mettendone in luce tutte le ipocrisie, le falsità e la corruzione di cui si nutre, per mantenere privilegi ed interessi personali.
C’è da dire inoltre che il romanzo presenta anche alcuni aspetti autobiografici, riscontrabili nelle caratteristiche della figura principale del romanzo (l’arrampicatore sociale Duroy), un impenitente e cinico donnaiolo, che peraltro somiglia anche fisicamente allo scrittore francese.

Il testo si presta, infine, attraverso alcune belle descrizioni che esulano dagli intrecci della storia, a riflessioni più ampie e profonde sui grandi temi dell’esistenza (la vita e la morte, l’amore e il potere, la miseria e il successo) come solo i grandi libri riescono a produrre.

(letto nel marzo 2013)

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 






 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

lunedì 7 aprile 2014

Il rumore assordante delle parole


Da piccolo mi arrampicavo sugli alberi e mi piaceva volare di ramo in ramo; era il gioco che più mi entusiasmava. Ricordo che preferivo un albero di gelso, perché aveva dei rami molto lisci che mi permettevano di fare delle acrobazie senza rovinarmi le mani. Mi arrampicavo e saltavo su e giù; c’era un attimo in cui la mano destra si fidava della sinistra ed io volavo, sentivo i muscoli elastici, la presa forte, ed era come camminare sulle mani e potevo guardare gli altri sotto di me e sentirmi più forte di loro.
Ero una sorta di “barone  rampante”. Ero come quel bambino descritto da Italo Calvino nel suo libro che vedeva negli alberi l’unico modo per affrancarsi dal condizionamento familiare.

Ancora oggi mi arrampico su quell’albero. Però solo simbolicamente. Lo faccio per legittima difesa. Per liberarmi dai condizionamenti imperanti, perché sono un po’ insofferente alle mode....ai volgari gossip quotidiani presenti su tutti i mezzi di informazione.....alle notizie insignificanti presentate come fatti importanti... all’enfasi con cui i mass media costruiscono i fatti per darli in pasto alla gente. Spesso sono costretto a risalire su quell’albero, non per chiudere gli occhi e non vedere,  ma per guardare meglio e per combattere la tirannia dell’informazione e del conformismo.

D’altra parte i giornalisti fanno il loro mestiere, devono vendere e poi conoscono molto bene la curiosità morbosa di chi legge e di chi guarda. Se uno squilibrato ammazza i propri familiari e poi si suicida, io posso anche leggere la notizia come fatto di cronaca, ma non potrei mai seguire le mille puntate successive costruite ad arte su una tragedia umana e familiare che si ripete, purtroppo, da quando esiste l’uomo sulla terra.
In queste occasioni mi “arrampico” su quell’albero ideale, in attesa di tempi e notizie migliori. In attesa che cessi il rumore. Si, perché nella nostra società  esiste un rumore che nel passato non esisteva: il rumore assordante delle parole. Troppe. Una tempesta di parole ci assale non appena mettiamo in moto i mezzi di informazione. Si parla di politica? le parole sono sempre le stesse, da anni, pronunciate dai soliti noti che zompano come cavallette da una trasmissione all’altra. E parlano…parlano.

L’effetto di questo baccano assordante si riflette negativamente sulle persone, che ormai vivono con questo chiacchiericcio di fondo, assuefatte al rumore e sempre meno disposte a cogliere e distinguere la vera comunicazione meditata e quindi realizzata con intelligenza, dalla spazzatura. Televisione, giornali, internet e quant’altro sono diventati tutti contenitori di parole roboanti, in continua guerra tra di loro per accaparrarsi il maggior numero di clienti disposti a farsi fagocitare. Sembriamo ipnotizzati soprattutto dalle parole poco autorevoli, quelle vuote di senso; siamo attratti dalle notizie-gossip e dal frastuono, che ci stordiscono e ci impediscono di pensare. Un profluvio di parole senza alcun contenuto. I fatti che accadono, se non vengono enfatizzati, sono poco appetibili; un avvenimento, quindi, deve essere sempre presentato come straordinario…eccezionale. Anche le notizie meteorologiche subiscono questo speciale trattamento. Se in una normale giornata invernale fa freddo – come succede da millenni – per chi si occupa di informazione è sempre in arrivo “ un’ondata di gelo”; se in agosto fa caldo (sarebbe straordinaria la notizia se facesse freddo), tutto il Paese è serrato “nella morsa del caldo”. Sembra quasi che l’informazione debba  fare ammuina per scuotere le persone dal torpore. Rumore come contrario di una corretta informazione e quindi confusione di ogni messaggio, notizie irrilevanti al fine di nascondere – sempre più spesso - quelle più scomode.

Le nostre capacità percettive, seppure rilevanti, hanno dei limiti oltre i quali sono destinate ad ottundersi per l’eccesso di stimolazioni visive ed uditive cui vengono quotidianamente sottoposte. Per non soccombere, io credo che dobbiamo cercare sempre, durante la giornata, un momento di “digiuno”. E’ difficile che questa limitazione possa arrivare dagli stessi mezzi che vivono di parole e di immagini. E allora spetta a noi ritrovare quell’intervallo perduto, quella pausa immaginifica che ci consenta di liberarci dal “troppo pieno”, dalle troppe parole.

venerdì 4 aprile 2014

Libri per sempre



Ci sono libri che restano scolpiti per sempre nella memoria. Sono quei libri che non finiscono mai di sorprendere e ogni qual volta vengono sfogliati, hanno sempre la capacità di attrarre l’attenzione come la prima volta. Sono quelli destinati a durare nei pensieri, oltreché sugli scaffali della libreria, rispetto ad altri che invece vengono consumati velocemente e poi si dimenticano. Libri che vanno letti e riletti, a distanza di tempo, per coglierne la vera essenza, per trovare in essi ciò che la prima volta non abbiamo afferrato o ci è sfuggito.

E’ chiaro che ognuno di noi ha i suoi preferiti, tra quelli letti fino ad ora, naturalmente. Escludendo volutamente alcuni grandi libri scolastici (la scuola, a volte, te li fa odiare), se io dovessi sceglierne solo 25 da portare, come si suol dire, su un’isola deserta, questi sarebbero i miei eletti (l’ordine è puramente casuale):

 
Henry Thoreau - Wallden, la vita nei boschi - per abbracciare la natura e vivere l’esperienza della solitudine gioiosa

Ernst Gombrich - La storia dell’arte - per conoscere la bellezza

Carlo Collodi - Le avventure di Pinocchio - per ritornare bambino

Miguel de Cervantes - Don Chisciotte della Mancia - per viaggiare in un mondo fantastico e visionario

Michel de Montaigne - Saggi  - per esplorare i recessi più reconditi dell’animo umano

Federico de Roberto    I Vicerè - per toccare con mano l’avidità, la sete di potere, la meschinità e gli odi che a volte si annidano tra i componenti di una famiglia

F. Dostoevskij - Delitto e castigo per poter immaginare un delitto e vivere il tormento e l’angoscia

Sandor Marai   - Le braci - per tenere accesa una passione

E. da Rotterdam - Elogio della follia - per conoscere le virtù della pazzia, a volte condizione essenziale per essere felici

Anna Frank -   Diario - per piangere

W. Goethe - Viaggio in Italia - per viaggiare senza partire

Ivan Goncarov – Oblomov -  per non avere fretta e alimentare l’ozio

Antonio Gramsci - Lettere dal carcere - per onorare la scrittura come forma di sopravvivenza e di libertà

Kazuo Ishiguro - Quel che resta del giorno - per non avere rimpianti

Primo Levi - Se questo è un uomo - per non dimenticare la cattiveria insita nell’uomo

Alberto Moravia - Gli indifferenti - per riflettere sulla meschinità e l’ipocrisia delle persone

Fernando Pessoa - Il libro dell’inquietudine - per cercare l’equilibrio perduto

Luigi Pirandello - Il fu Mattia Pascal - per quell’oscuro desiderio di vivere due esistenze

J. D. Salinger - Il giovane Holden - per cavalcare le ribellioni adolescenziali

Melville - Bartleby lo scrivano - per dire no all’iperattivismo del mondo del lavoro

Seneca - Lettere a Lucilio - per allontanarmi dalle miserie umane

Italo Svevo - La coscienza di Zeno - per scrutare quel senso di inadeguatezza che a volte mi assale

Alberto Vigevani - Estate al lago - per osservare l’adolescenza, età in cui subentrano sentimenti mai sperimentati prima

Antonio Tabucchi - Sostiene Pereira - per rafforzare la libertà di pensiero

Tomasi di Lampedusa  - Il Gattopardo - per comprendere come in questa nostra società tutto cambia affinché nulla cambi

 

martedì 1 aprile 2014

"Paese d'ombre" di Giuseppe Dessì (1909-1977)


 
Giuseppe Dessì è stato uno dei grandi narratori della nostra letteratura. In questo suo romanzo, vincitore del Premio Strega 1972, lo scrittore sardo descrive la sua terra, quella Sardegna della sua infanzia (era nato a Villacidro, in provincia di Cagliari), a cui era rimasto legato tutta la vita e che fa da sfondo a tutte le sue opere narrative.

La Sardegna che egli ci racconta in questo libro è quella dei primi anni del ‘900: una regione antica e rurale, abbandonata dalle autorità locali e dalle istituzioni che - nonostante l’unificazione dell’Italia avvenuta nel 1861 - non aveva nulla a che fare con il Continente, dal momento che il suo mondo, anche per le differenti condizioni geografiche e culturali, contrastava con quell’astratta e retorica idea nazionalistica uscita dalle mani di Mazzini e Garibaldi. Era ancora una terra che continuava ad essere tenuta nel conto di una colonia da sfruttare, ed i suoi abitanti erano considerati alla stregua dei briganti calabresi, rozzi e ignoranti, incapaci di darsi un futuro migliore. I sardi, scrive l’autore, “si convincevano di essere sudditi e non concittadini degli italiani, e sempre più si abbandonavano alla loro secolare apatia e alla totale sfiducia nello Stato.

In questo contesto socio-politico si snoda la vicenda del romanzo, che è ambientata in un immaginario paesino della Sardegna, Norbio (potrebbe essere Villacidro, il borgo natio dello scrittore) e ruota intorno all’ascesa sociale di un povero ed umile ragazzo, orfano di padre (Angelo Uras), il quale, anche grazie all’aiuto della ricca e nobile famiglia Fulgheri (il defunto avvocato Don Francesco Fulgheri lo aveva nominato suo erede universale) diventa padrone di uno dei più grossi patrimoni terrieri del circondario, fino ad essere eletto sindaco del proprio paese. Assistiamo, così, al lento passaggio del nostro personaggio dalla condizione contadina a quella borghese, dalla condizione di uomo libero a quella di uomo pubblico, osservato e criticato. Egli, però, senza mai ingannare i suoi elettori, durante il suo lungo mandato riesce a cambiare il volto del suo paese attraverso importanti riforme; in particolare, il giovane sindaco si batte strenuamente per impedire il taglio sistematico di migliaia di ettari di bosco – su cui gli abitanti di Norbio esercitavano i loro antichi diritti di pascolo e di legnatico – da parte di una Società Mineraria per alimentare e sostenere le fornaci delle Regie Fonderie della zona.

Lo scrittore, per mezzo del protagonista del suo libro – che assurge a paladino dell’ambiente e sostenitore della messa in sicurezza del patrimonio boschivo della sua terra - svela tutta la sua attenzione e la sua sensibilità verso una problematica così delicata come la salvaguardia della natura e dei boschi. E’ molto bella la descrizione del paesaggio sardo che ne fa l’autore, con le sue foreste, antiche quanto la stessa isola, margini naturali alle alluvioni e alle frane, con i suoi monti che chiudevano le vallate, con i suoi olivi secolari, così simili ad enormi pachidermi “di cui si percepiva il silenzio, non come si percepisce il silenzio delle cose, ma come si percepisce il silenzio di persone che stanno zitte e pensano”. Il fascino di quella natura selvaggia e arcaica “che faceva pensare a ere geologiche scomparse” è sempre presente tra le righe del romanzo, così come sono presenti, con le loro vicende umane, gli innumerevoli personaggi che nell’insieme contribuiscono a fare del libro un romanzo corale, un affresco storico di tutto un popolo, di straordinaria intensità.
Colto e armonico appare lo stile narrativo, che non delude mai il lettore amante della bella scrittura.

(maggio 2013)