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mercoledì 22 novembre 2023

TG e Talk, l'indotto del dolore

 


Siamo inondati di cattive notizie, sempre più drammatiche e angosciose. In particolare, i media danno grande risalto ai fatti di sangue e continuano a proporre giorno dopo giorno – con dovizia di particolari a volte scabrosi – storie di dolori e di tragedie familiari. E’ un modo di fare informazione, questo, che non mi piace. Sottoscrivo, qui di seguito, l’articolo di Nanni Delbecchi apparso oggi su “Il fatto quotidiano”:

“Oltre ad aggiungersi alla terribile serie di donne uccise dai loro stalker, l’omicidio di Giulia Cecchettin passerà alla storia della TV, in particolare dell’informazione televisiva. Mai era accaduto che un singolo delitto diventasse la prima notizia del giorno, quasi l’unica, d’un tratto tutte le testate mutate in un coro di prefiche. Dal Pensiero Unico all’Epicedio Unico. Lunedì sera si è occupato dell’omicidio Cecchettin più di un terzo dell’intero del Tg1, oltre 12 minuti; ancora più lunga la durata del Tg5, circa la metà del notiziario. Pare che al mondo accada anche altro, ma sono quisquilie: le trattative sugli ostaggi a Gaza valgono una manciata di secondi, ancora meno quelli dedicati al conflitto ucraino (Zelensky chi?). In compenso su Giulia nulla è trascurato dai potenti mezzi del tg. Nugoli di microfoni assediano il procuratore di Venezia: si vuol sapere in diretta quali capi d’imputazione, quanti giorni, minuti e secondi ci vorranno per l’estradizione di Filippo (fermate le rotative). Un inviato del Tg1 è spedito nottetempo davanti al carcere di Halle: “Vedete, Turetta ha passato qui la sua seconda notte” (rifermate le rotative). Il Tg5 raduna alcuni psicologi da salotto che ci spiegano tutto dell’assassino: “Non é un raptus, questi gesti si premeditano”; “Filippo voleva tornare con Giulia, ma era anche invidioso dei suoi studi” (Bloccate definitivamente le rotative). Poi, i volti rigati di lacrime, le ispezioni cadaveriche, il censimento delle coltellate…il trionfo della cronaca nera sull’informazione, grande classico di ogni regime, con i suoi manti funebri a coprire ogni accadimento. E la tv del dolore spacciata per notizia, la merce più ghiotta per lo share che per la prima volta esonda da ballatoi pomeridiani e presidia i tg. E vai con l’indotto del dolore: politici e opinionisti pronti a offrire il loro profilo migliore per aprire il dibattito sul patriarcato, sul satanismo, sulla cultura dello stupro. La morte sarà di destra o di sinistra? Ci siamo dimenticati di domandarlo a Gaber, ma l’impressione è che tenda al campo largo”.

Nanni Delbecchi


venerdì 10 novembre 2023

Non si resta e non si parte mai del tutto

 


Ho letto molti libri di Vito Teti, un antropologo calabrese che si occupa di letteratura dei luoghi, argomento di cui sono estremamente appassionato. E’ diventato il mio punto di riferimento e sebbene i suoi testi raccontino, in modo particolare, i paesi della Calabria, trovo che gli stessi siano un valido punto di osservazione e di aiuto per conoscere e capire fenomeni di portata universale.

In questo suo ultimo saggio che si intitola “La restanza” (Einaudi), Teti ritorna su quelle tematiche a lui care come la ricerca d’identità attraverso il luogo nativo, l’emigrazione, l’antropologia dei paesi. Egli dice che noi siamo il luogo in cui siamo nati e cresciuti e siamo il luogo che abitiamo e da cui a volte fuggiamo, per necessità. E siamo il luogo che percorriamo e raccontiamo. Restare o partire non è mai una decisione che si prende a cuor leggero, senza incertezze e lacerazioni, perché un luogo è un insieme di relazioni umane, di affetti, di legami talvolta incerti e mutevoli, seppure fondamentali. Il luogo, oltre ad occupare una posizione geografica, è innanzitutto una costruzione culturale e antropologica di immagini, di vita e di racconti che abbiamo ereditato, è condivisione e partecipazione con chi ci vive e con chi ci torna saltuariamente, ma anche con chi lo ha abbandonato per sempre, a causa di migrazioni e di eventi naturali funesti come terremoti, frane, alluvioni.

Ognuno vive e resta in un luogo - paese o città che sia – eppure “restare in paese”, oggi, è percepito come un modo antiquato di stare al mondo, seppure complementare a quella visione neoromantica che celebra, invece, la retorica di un mondo salvifico da cercare proprio nel paese. Ci vorrebbe una più accorta antropologia dei luoghi, sostiene Vito Teti nel suo libro, capace di immaginare e decidere un diverso modello di sviluppo, “un nuovo patto sociale e valoriale tra quelli che restano e quelli che partono, tra quelli che tornano e quelli che arrivano”.

Bisogna capire – ribadisce Teti – che i piccoli borghi non migliorano e non si rilanciano con gli slogan, non si rivitalizzano con espedienti pubblicitari come l’arrivo di qualche personaggio famoso, o con proposte occasionali come la ristrutturazione di qualche casa con piscina, ma creando condizioni essenziali per consentire a chi vuole restare di rimanere nel suo paese, per favorire il ritorno a chi è andato via e per ospitare chi ha maturato la scelta di vivere in un paese, lontano dai rumori e dallo smog. Far vivere un paese significa ricostruire dei veri legami comunitari, ma questo non si ottiene attraverso la vendita “a un euro” delle case abbandonate dai proprietari. Per Vito Teti è una scelta devastante, questa, perché restituisce l’idea che quella casa non ha nessun valore, e significa quindi svalutare il prezzo delle case dei residenti che hanno continuato a vivere nel paese. Insomma, è come svendere la memoria di una comunità.

Come tutti i libri di Vito Teti, anche questo ripercorre, con una scrittura intima e poetica, alcuni suoi momenti autobiografici costringendo il lettore ad interrogarsi sul proprio modo di vivere il tempo e di abitare uno spazio, che sia un paese o una città. Così scrive: “Vivo nella casa in cui sono nato…e dove sono sempre tornato. Da fuori arrivavano le voci dei bambini che giocavano e i passi, i rumori, delle donne, degli uomini, degli asini, delle caprette che tornavano dalla campagna. Oggi arriva il silenzio senza colore. Il balcone si affaccia sulla ruga, dentro il paese, sul pieno di un tempo e sul vuoto di oggi. Anche se tutto è cambiato, tutto è riconoscibile ed in questa persistenza si consumano il paradosso e lo stigma del disfacimento. (…) Nel mondo da cui provengo e a cui sono rimasto fedele, magari a costo di qualche tradimento, ho imparato il valore della fatica, della solidarietà, delle piccole cose che più tardi ho scoperto, sui libri, essere il valore della polis, della comunità. Sono uno dei restanti più tenaci e resistenti tra quelli a me noti, anomalo, perché sono inquieto, amo viaggiare e cambiare spesso luoghi e contesti. Sono cresciuto a cavallo di tre generazioni e, contemporaneamente, nel crinale di due età, di due epoche, di due civiltà. In poco più di un trentennio ho vissuto diecimila anni, dalla nascita delle società agropastorali al loro inesorabile sparire. Incerto, irrequieto, sospeso, un tempo immaginavo che sarei vissuto in un mondo nuovo, nella modernità; nella frenesia di un tempo dinamico. Lo studio appassionato, il vortice delle letture e i viaggi mi hanno insegnato che il mondo antico dei padri non veniva davvero sostituito dal mondo nuovo dei figli, anche se tutto quel che resta del passato, dei ricordi, della vita è sempre più essenziale per orientarmi in questo universo fragile, insicuro, attraversato da un’idea di futuro sempre meno definita con l’aumentare delle mie consapevolezze”.



mercoledì 1 novembre 2023

Dieci anni di blog

 


445 post, oltre 3200 commenti, poco più di 157.000 visualizzazioni: questi sono gli attuali numeri del mio blog nato nel novembre del 2013, dieci anni fa. Non sono numeri straordinari se paragonati ad altri siti web, però ne sono ugualmente soddisfatto. Come scrissi nella mia presentazione, volevo “fermare il tempo” e non disperdere ciò che mi appartiene, condividendo pensieri, riflessioni, letture, divagazioni. E per soddisfare, forse, quell’intimo desiderio insito in ogni uomo che scrive: essere letto da qualcuno. Diceva Pavese che “è bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla”.

Mi domando, però, se abbia ancora un senso scrivere su un blog, consapevole del fatto che nella storia dell’umanità non si è mai scritto così tanto come nell’epoca che stiamo vivendo. Siamo letteralmente sommersi dalle parole, non sempre eccelse, e a volte mi chiedo quale importanza possano avere le mie.

Nel blog ho cercato di parlare dei libri che man mano andavo leggendo soffermandomi, in particolare, su quegli autori quasi dimenticati, prima ancora che dai lettori, dagli stessi editori: Giuseppe Berto, Lalla Romano, Ercole Patti, Michele Prisco, Giovanni Arpino, A.M. Ortese, Luciano Bianciardi, tanto per fare alcuni nomi. Ho insistito con quegli scrittori che più amo e che leggo e rileggo: Pavese, Pessoa, Proust, Svevo, Seneca…Mi sono addentrato, e continuo a farlo, nel meraviglioso mondo dell’arte e della poesia alla ricerca di bellezza e di sensazioni. Ho esplorato con passione la mia terra – il Cilento – con i suoi paesi arroccati sulle colline e ho descritto le bellezze e le brutture di una delle città più affascinanti del mondo, Roma, dove vivo da tanti anni. Ho osservato fatti e misfatti di questa nostra società, sempre più omologata e globalizzata,  cercando di capire il mondo tecnologico con i suoi derivati, che tutto forgia a sua immagine e somiglianza. Un mondo  lontano anni luce dalla mia filosofia di vita, che non prevede urgenze da smartphone. Ho solo sfiorato la politica, che mi ha deluso e mi ha tradito, e non vado più a votare. Ho cercato di guardare, più da vicino, i mezzi di comunicazione di massa che veicolano e manipolano informazioni e individui. Ho raccontato le mie malinconie, la mia solitudine, i miei rimpianti, le mie nostalgie. Mi sono fermato a riflettere sul tempo che scorre e lascia i suoi segni indelebili sulle cose e sugli uomini. E mi sono confrontato piacevolmente con persone squisite che – da dieci anni - hanno ancora la pazienza di leggermi.