Sono un telefono fisso con rotella e cornetta ancora collegato
a un cavo, il mio cordone ombelicale. Da un po' di tempo a questa parte mi
sento sordo e muto: ricevo pochissime telefonate e ne faccio ancora di meno. Mi
considerano superato, da quando ha fatto irruzione sul mercato un mio
fratellastro che non mi somiglia affatto: lo smartphone. Infatti non ha numeri
e non ha tasti. E non è mai lo stesso, perché il modello cambia di continuo. E
poi non sta mai fermo e fisso in un posto, ma sempre in movimento in mano al
suo padrone devoto. Basta toccarlo o solo sfiorarlo con un dito e lui parte e
fa di tutto e di più. Raramente squilla come faccio ancora io, però può vibrare
o mettersi a cantare o suonare la marcia di Radetzky o la sinfonia n. 9 di
Beethoven. Quel trillo tradizionale non piace più a nessuno: ricorda troppo il
passato. E il passato, nell’immaginario collettivo, fa schifo.
Sono destinato a sparire come un
dinosauro - così dicono - insieme a quei quattro utenti che si ostinano ancora
ad usarmi nel chiuso dei loro appartamenti, intolleranti alla dittatura della
telefonia mobile. E pensare che fino a qualche anno fa ero il protagonista
assoluto, bene in vista sul tavolino di legno massello all’ingresso di ogni
casa, con accanto l’immancabile guida telefonica, la mia memoria storica. Ero
l’unico addetto nei rapporti comunicazionali. Per strada ero pure disponibile all’interno
di un’apposita cabina, che mi proteggeva da orecchie e occhi indiscreti. Se ne
vede ancora qualcuna in giro, risparmiata dai soliti atti vandalici. In casa,
poi, appartenevo indistintamente a tutta la famiglia; passavo da una mano
all’altra, da un orecchio all’altro: custodivo i pensieri segreti e quelli svelati
di ogni componente familiare. Avevo una mia riservatezza da tutelare, una mia
dignità: sempre equilibrato, educato, non squillavo mai a sproposito, nessuno
mi usava in orari impossibili. E se proprio qualcuno chiamava per telefonate
urgenti (oggi tutto è diventato urgente) si scusava con l’interlocutore per il
disturbo arrecato. Nessuno si sognava di fare telefonate inutili. Tutto
l’opposto di questo mio invadente fratellastro, che ama mettersi in mostra in
ogni occasione e farsi osservare e sentire e maledire (soprattutto da chi non
lo sopporta) nei luoghi pubblici e affollati. Lui crede di essere sempre
autorizzato a rompere le scatole in qualsiasi ora del giorno e della notte.
Vuole sapere dove ti trovi; e che stai facendo? e con chi stai? e dove vai?; e
se malauguratamente non rispondi o lo spegni, devi pure giustificarti con scuse
ridicole, tipo “non c’era campo”…”ero in galleria”…”avevo la batteria scarica”.
Lui ama pedinare, spiare, fotografare e ti costringe a guardare quel suo
piccolo schermo che è un pozzo senza fondo, da cui nessuno sa più distogliere
lo sguardo. Quel “pronto chi parla?” di antica memoria si è trasformato in uno sfacciato
“dove sei?”. E’ un impiccione, il mio sostituto, incurante di qualsiasi riserbo.
Sto per sparire, questo lo so. E
quando mi taglieranno definitivamente quel filo che ancora mi tiene in vita,
sarò costretto a lasciare, senza contatti, quelle persone all’antica che mi
sono rimaste legate e mal sopportano l’idea di telefonare per strada, sui mezzi
pubblici, nei locali superaffollati, come i tanti invasati che si vedono in
giro. Mi troverete abbandonato nei mercatini dell’usato, dove già è massiccia
la mia presenza. Non ho nulla da rimproverarmi: sono stato, da sempre, un
valido e utile strumento della tecnica al servizio dell’uomo. Sto per lasciarvi, miei
cari affezionati utenti, nelle mani di questo mio invadente sostituto, ultimo
ritrovato della tecnica, che ha preso il sopravvento e da mezzo al servizio
dell’uomo è diventato fine supremo dell’uomo. Dominandolo e imprigionandolo. E
non è un caso che si chiami “cellulare”, come il furgone ad uso della polizia
penitenziaria per il trasporto dei detenuti.