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sabato 25 marzo 2023

Confessioni di un telefono fisso

 


Sono un telefono fisso con rotella e cornetta ancora collegato a un cavo, il mio cordone ombelicale. Da un po' di tempo a questa parte mi sento sordo e muto: ricevo pochissime telefonate e ne faccio ancora di meno. Mi considerano superato, da quando ha fatto irruzione sul mercato un mio fratellastro che non mi somiglia affatto: lo smartphone. Infatti non ha numeri e non ha tasti. E non è mai lo stesso, perché il modello cambia di continuo. E poi non sta mai fermo e fisso in un posto, ma sempre in movimento in mano al suo padrone devoto. Basta toccarlo o solo sfiorarlo con un dito e lui parte e fa di tutto e di più. Raramente squilla come faccio ancora io, però può vibrare o mettersi a cantare o suonare la marcia di Radetzky o la sinfonia n. 9 di Beethoven. Quel trillo tradizionale non piace più a nessuno: ricorda troppo il passato. E il passato, nell’immaginario collettivo, fa schifo.

Sono destinato a sparire come un dinosauro - così dicono - insieme a quei quattro utenti che si ostinano ancora ad usarmi nel chiuso dei loro appartamenti, intolleranti alla dittatura della telefonia mobile. E pensare che fino a qualche anno fa ero il protagonista assoluto, bene in vista sul tavolino di legno massello all’ingresso di ogni casa, con accanto l’immancabile guida telefonica, la mia memoria storica. Ero l’unico addetto nei rapporti comunicazionali. Per strada ero pure disponibile all’interno di un’apposita cabina, che mi proteggeva da orecchie e occhi indiscreti. Se ne vede ancora qualcuna in giro, risparmiata dai soliti atti vandalici. In casa, poi, appartenevo indistintamente a tutta la famiglia; passavo da una mano all’altra, da un orecchio all’altro: custodivo i pensieri segreti e quelli svelati di ogni componente familiare. Avevo una mia riservatezza da tutelare, una mia dignità: sempre equilibrato, educato, non squillavo mai a sproposito, nessuno mi usava in orari impossibili. E se proprio qualcuno chiamava per telefonate urgenti (oggi tutto è diventato urgente) si scusava con l’interlocutore per il disturbo arrecato. Nessuno si sognava di fare telefonate inutili. Tutto l’opposto di questo mio invadente fratellastro, che ama mettersi in mostra in ogni occasione e farsi osservare e sentire e maledire (soprattutto da chi non lo sopporta) nei luoghi pubblici e affollati. Lui crede di essere sempre autorizzato a rompere le scatole in qualsiasi ora del giorno e della notte. Vuole sapere dove ti trovi; e che stai facendo? e con chi stai? e dove vai?; e se malauguratamente non rispondi o lo spegni, devi pure giustificarti con scuse ridicole, tipo “non c’era campo”…”ero in galleria”…”avevo la batteria scarica”. Lui ama pedinare, spiare, fotografare e ti costringe a guardare quel suo piccolo schermo che è un pozzo senza fondo, da cui nessuno sa più distogliere lo sguardo. Quel “pronto chi parla?” di antica memoria si è trasformato in uno sfacciato “dove sei?”. E’ un impiccione, il mio sostituto, incurante di qualsiasi riserbo.

Sto per sparire, questo lo so. E quando mi taglieranno definitivamente quel filo che ancora mi tiene in vita, sarò costretto a lasciare, senza contatti, quelle persone all’antica che mi sono rimaste legate e mal sopportano l’idea di telefonare per strada, sui mezzi pubblici, nei locali superaffollati, come i tanti invasati che si vedono in giro. Mi troverete abbandonato nei mercatini dell’usato, dove già è massiccia la mia presenza. Non ho nulla da rimproverarmi: sono stato, da sempre, un valido e utile strumento della tecnica al servizio dell’uomo. Sto per lasciarvi, miei cari affezionati utenti, nelle mani di questo mio invadente sostituto, ultimo ritrovato della tecnica, che ha preso il sopravvento e da mezzo al servizio dell’uomo è diventato fine supremo dell’uomo. Dominandolo e imprigionandolo. E non è un caso che si chiami “cellulare”, come il furgone ad uso della polizia penitenziaria per il trasporto dei detenuti.


martedì 14 marzo 2023

Lo sguardo del poeta

 


Per nostra fortuna c’è ancora qualcuno che sa parlare alla luna, che guarda con stupore le nuvole, sa cogliere la malinconia, sa ascoltare il vento, si commuove aspettando l’alba: è il poeta. Che sia un premio Nobel o il vicino di casa o di blog, non ha importanza.

“Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento” ci ricorda uno dei poeti più amati dei nostri tempi: Franco Arminio. Abbiamo bisogno di qualcuno che faccia parlare – attraverso la sua poesia - le emozioni, il silenzio, i profumi, i ricordi, i lievi tormenti dell’anima, le metafore, la buona solitudine. Qualcuno che sappia guardare con occhi incantati il mondo, che sappia osservare un gabbiano in volo come fa il poeta Vincenzo Cardarelli

"Non so dove i gabbiani abbiano il nido,

ove trovino pace.

Io son come loro,

in perpetuo volo.

La vita la sfioro

com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.

E come forse anch’essi amo la quiete,

la gran quiete marina,

ma il mio destino è vivere

balenando in burrasca"

Ed è per questo che – ogni tanto – è bene fermarsi e non lasciarsi condizionare dalla fretta e dalla velocità, buttare via lo smartphone (o spegnerlo momentaneamente, per evitare crisi di astinenza) e prendere in mano un libro di poesie e leggerne una e poi rileggerla ancora magari ad alta voce, come si faceva a scuola: è un gesto salvifico che costa poco e fa bene allo spirito. “Un tempo di notte cantavo a voce alta per farmi coraggio – scrive Franco Marcoaldi in una sua poesia – abitudine persa da quando mi è chiaro che sono qui di passaggio”.

Nei versi di una poesia trovi tutto ciò che hai smarrito. Rincorrere sempre la moda del momento, seguire comportamenti codificati o modelli imposti dal mercato, percorrere la strada che non è la tua, stare sempre connessi, significa insoddisfazione perenne. E allora, quando ti senti assediato e schiacciato e circondato e deluso dal presente, abbraccia pure un poeta e lasciati cullare dai suoi versi, perché la felicità – come ci ricorda Trilussa – risiede nelle piccole cose:

“C’è un’ape che se posa

su un bottone de rosa:

lo succhia e se ne va…

tutto sommato, la felicità

è una piccola cosa”.


giovedì 9 marzo 2023

Del non leggere

 


In libreria con l'opera di Proust
non ti danno un telecomando,
non puoi cambiare
sulla partita di calcio
o sul telequiz con in premio una Volvo.

Viviamo più a lungo,
ma con minor esattezza
e con frasi più brevi.

Viaggiamo più veloci, più spesso, più lontano
e torniamo con foto invece di ricordi.
Qui sono io con uno.
Là, credo, è il mio ex.
Qui sono tutti nudi,
quindi di certo in spiaggia.

Sette volumi - pietà.
Non si potrebbe riassumerli, abbreviarli
o meglio ancora mostrarli in immagini?
Una volta hanno trasmesso un serial, La bambola,
ma per mia cognata è di un altro che inizia con la P.

E poi tra parentesi, chi mai era costui.
Scriveva, dicono, a letto, per interi anni.
Un foglio dopo l'altro,
a velocità ridotta.
Noi invece andiamo in quinta
e - toccando ferro - stiamo bene.

Wislawa Szymborska



sabato 4 marzo 2023

Come Proust può cambiarvi la vita

 


Il valore di un grande romanzo non sta tanto nel raccontare storie, sentimenti e personaggi simili a quelli che incontriamo tutti i giorni nella nostra vita reale, ma nella capacità di descriverli molto meglio di quanto saremmo in grado di fare noi, e di aiutarci a scoprire certe relazioni che ci appartengono, ma che tuttavia non avremmo saputo cogliere da soli. E allora l’incontro ravvicinato e prolungato con un grande autore della letteratura - che avviene durante la lettura di un suo libro - è un percorso che ci permette di innalzarci verso una dimensione spirituale, dove “mondi che ci erano sembrati minacciosamente estranei si scoprono invece fondamentalmente vicini al nostro mondo, ampliando così la gamma dei luoghi in cui ci sentiamo come a casa”.

Alain de Botton - un brillante scrittore e filosofo britannico di origine svizzera - con il libro “Come Proust può cambiarvi la vita” pubblicato nel 1997, ci invita a non avere timore reverenziale per il grande scrittore francese, autore della monumentale opera “Alla ricerca del tempo perduto”, forse tra i testi più idolatrati e meno letti della letteratura di tutti i tempi. Anzi, ci consiglia fortemente di leggerlo e di trarre profitto dalla sua sofferta esperienza di vita, perché, come scrive lo stesso Proust, leggendo le parole “di un uomo di genio, vi troviamo con piacere tutte le nostre riflessioni che avevamo disprezzate, le allegrie, le tristezze che avevamo contenute, tutto un mondo di sentimenti da noi disdegnati e di cui il libro dove le ravvisiamo ci rivela istantaneamente il valore”. E, naturalmente, non possiamo che riceverne giovamento. D’altra parte, il legame tra la nostra vita e i romanzi che leggiamo – scrive de Botton – è davvero molto stretto. E’ difficile, infatti, non collegare la descrizione di certi personaggi che incontriamo tra le righe di un libro a persone reali di nostra conoscenza. O addirittura non rivedere noi stessi, là dove non ce lo saremmo mai aspettato. E Proust ce lo conferma quando dice “…ogni lettore quando legge, è il lettore di se stesso. L’opera è solo una sorta di strumento ottico che lo scrittore offre al lettore per consentirgli di scoprire ciò che forse, senza il libro, non avrebbe visto in se stesso”.

Certo è che la vita, per Proust, fu una continua e difficile lotta con se stesso e l’ambiente borghese in cui viveva, aggravata ancor di più dai suoi problemi psico-fisici assai complessi. La madre, nei cui confronti Marcel provava un amore smisurato, contribuì drammaticamente a rendere sempre più debole e insicuro il suo carattere. Lo considerava un eterno bambino da curare e proteggere in ogni occasione; e ciò che più l’angosciava era che il figlio riuscisse a sopravvivere nel mondo, una volta che lei se ne fosse andata. I suoi quotidiani attacchi asmatici lo costringevano a dormire di giorno (dalle sette del mattino alle cinque del pomeriggio) e a scrivere di notte, sempre a letto, che usava come scrivania. Aveva una pelle ipersensibile e soffriva sempre il freddo, tant’è che anche in estate indossava il cappotto. E poi era ossessionato dai rumori e per potersi meglio isolare e proteggere, fece foderare di sughero la stanza da letto in cui trascorreva la maggior parte del tempo a leggere e a scrivere, senza mai uscire, con le finestre perennemente chiuse. Nonostante tutto, quel ragazzo malinconico e fragile che ben si camuffava dietro l’apparenza dello snob pallido e sognante, condusse una vita da privilegiato negli anni giovanili, frequentando i salotti più ricercati della Parigi aristocratica, organizzando cene e ricevimenti mondani, sperperando il denaro che non gli mancava e sperimentando, disperatamente, l’impossibilità di trovare la felicità nell’appagamento amoroso. Ma aveva capito quanto amaro lasciasse in bocca quell’esistenza effimera, quanta vanità e miseria ci fosse nella società raffinata ed elegante che frequentava e quanto fugaci fossero i piaceri che provava. E allora gli restava aperta soltanto la via della fuga in un altro mondo possibile, quello interiore, il mondo della scrittura e della creazione artistica, con i suoi sogni e con i suoi ricordi, per difendersi dalle sirene del mondo esterno ma, forse, anche per poterlo meglio comprendere, quel mondo. Chiuso per dodici anni in quella stanza foderata di sughero - dal 1910 fino al momento della sua morte avvenuta nel 1922 - Proust visse l’ultimo periodo della sua vita in una massacrante dolorosa solitudine, interamente orientato alla creazione della Recherche, il suo romanzo capolavoro di 3.724 pagine. Un libro che non ti lascia indifferente, che ti sovrasta per la sua perfezione, per la sua grandezza e impone il silenzio, un libro che ti fa capire quanto Proust sia grande e quanto piccoli siano tutti gli altri autori che hanno scritto dopo di lui. Leggere certi libri, come la Recherche, serve a scoprire – scrive De Botton – cosa proviamo noi, a sviluppare i nostri stessi pensieri, anche se sono i pensieri di uno scrittore che ci aiuta a farlo. Tuttavia, ci sarà sempre un momento in cui capiremo che in ogni libro – fosse anche il più grande - c’è qualcosa che non ci convince, di ignorato o di limitato che ci darà il permesso di abbandonarlo e continuare, da soli, il nostro percorso esistenziale e spirituale. “Tale è il valore della lettura – diceva Proust – e tale è anche la sua insufficienza. Farne una disciplina significa attribuire una funzione troppo importante a quel che ne è solo un’iniziazione. La lettura si arresta alle soglie della vita spirituale; può introdurci in essa, ma non la costituisce”. E’ come dire che anche i grandi capolavori della letteratura “meritano di essere messi da parte”.