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giovedì 23 febbraio 2023

La dittatura del successo

 


E’ sempre interessante analizzare gli avvenimenti che accadono nella nostra società, soprattutto quando assumono una dimensione numericamente rilevante. Se oltre dieci milioni di persone fanno contemporaneamente la stessa cosa e cioè guardano - per una settimana di fila - il festival di Sanremo, bisognerebbe cercare di capire i motivi socio-antropologici che stanno alla base di tali comportamenti di massa. Tuttavia, pensare che il successo di pubblico – e solo quello - possa decretare automaticamente la bellezza e l’importanza di uno spettacolo, significa confondere l’analisi di un fenomeno con il giudizio di valore dello stesso. Eppure, questo modo di intendere la realtà si è ormai diffuso in tutti i settori della nostra contemporaneità. Tant’è che la mercificazione del successo di pubblico tende a soffocare qualunque tipo di critica e a sancire il valore assoluto di qualsiasi evento.

Lasciando da parte il festival, che ho visto fino a quando i cantanti - quelli veri - cantavano davvero e non esibivano sé stessi attraverso tatuaggi e travestimenti a dir poco inquietanti, vorrei soffermarmi per un momento su un fenomeno simile che si riscontra anche in letteratura. Mi riferisco alla cosiddetta “dittatura” del best seller: il libro più venduto, più letto, di cui bisogna parlare perché tutti i media ne parlano. E se una moltitudine di persone compra lo stesso libro in un determinato momento (ma non sappiamo quanti lo leggano realmente), succede che quel libro assurga inevitabilmente a caso letterario.

Prendiamo, per esempio, l’attuale opera prima del Principe Harry “Spare. Il minore” pubblicata da Mondadori (25,00 euro). E’ in testa alle classifiche di vendita di mezzo mondo, è esposto in tutte le vetrine delle librerie e viene presentato come un evento epocale. Per carità: io ho grande rispetto per i sentimenti del Principe che ripercorre, con il suo libro, i terribili momenti della morte della Principessa Diana, sua madre. Tanto più che all’epoca, insieme al fratello maggiore, era ancora un bambino dato in pasto - dal protocollo reale - al morboso voyeurismo di massa, mentre seguiva il feretro sotto gli occhi addolorati di miliardi di persone.

Non voglio entrare nel merito del libro (che non ho letto né leggerò), però se in questo frangente appassiona contemporaneamente milioni e milioni di lettori (o acquirenti?), mi domando: è destinato, per forza di cose, a diventare un capolavoro della letteratura universale? In altre parole, la fama dell’autore, la condivisione di un dramma che da personale diventa planetario attraverso la lettura, possono in qualche maniera essere garanzia di qualità e sancire l’entrata del libro nell’olimpo sacro della letteratura? Nel contempo, qualcun altro potrebbe anche domandarsi: ma siamo sicuri che dietro la critica feroce di ogni successo editoriale e di pubblico, qualunque esso sia, non si nasconda un risentimento invidioso supportato da immaginarie recriminazioni morali? Ora, dinanzi a questi interrogativi io continuo a leggere quello che più mi appassiona, e non mi lascio affatto influenzare dal mercato e dall’idolatria del best seller. Non so se questo sia un segno del mio malcelato snobismo, sono sicuro però che se la letteratura insegue la moda o il fatto del momento, ha fallito il suo compito e io non la rincorro. Chissà, forse un giorno mi ritroverò a leggere quel best seller, dopo molti anni dalla sua pubblicazione, magari scovandolo sul banchetto di un mercatino dell’usato. Posso assicurarvi che se ciò dovesse accadere, il piacere di comprarlo e leggerlo sarà davvero grande, se non altro perché quel libro – che magari sarà pure diventato un classico della letteratura - non lo leggerà più nessuno, proprio perché sarà lontano dai riflettori dello spettacolo e dall'attenzione del grande pubblico.


martedì 21 febbraio 2023

La poesia è uno stato d'animo

 


Se non dovessi tornare,
sappiate che non sono mai
partito.
Il mio viaggiare
è stato tutto un restare
qua, dove non fui mai.

 

Giorgio Caproni


sabato 18 febbraio 2023

Come è bello far la spesa

 


Volevo scrivere un post su quell’incombenza quotidiana che tocca a tutti ma piace a pochi: fare la spesa. Mi sono ricordato che l’avevo già scritto; e allora lo ripropongo per chi avrà la pazienza di leggerlo.

Lo confesso: mi piace fare la spesa. Sono un abituale e indomito frequentatore di supermercati e mercatini rionali. Devo dire che ho acquisito in tanti anni di dignitosa attività - dispensando mia moglie da questa gravosa incombenza - una certa dimestichezza con i luoghi della distribuzione, una discreta conoscenza dei prezzi ed una apprezzabile competenza tecnico-alimentare. Ho imparato per esempio a distinguere le pere coscia da quelle kaiser, il carciofo “tondo di Paestum” dalla “mammola” romanesca, la caciotta romana dal caciocavallo abruzzese.  

Dobbiamo pur mangiare e sappiamo quanto oggi sia difficile trovare cibi sani e naturali, saturi come sono di conservanti, coloranti ed altre schifezze simili. Quando si parla di cibo mi ritornano sempre in mente le parole della buon’anima di mia nonna, la quale aveva capito in anticipo rispetto ai tempi che le cose stavano per cambiare - in peggio - nel campo agroalimentare; infatti soleva ripetere: “moriremo tutti avvelenati”. Evidentemente si era resa conto, la poveretta, che stavano per sparire le buone cose fatte in casa come solo lei sapeva preparare: il pane, i biscotti, la pasta, il formaggio, la passata di pomodoro, le salsicce… E che anche la frutta e la verdura, trattati con pesticidi chimici, costituivano un pericolo per la nostra salute. Se è proprio così, se davvero dobbiamo morire avvelenati mangiando due mele annurche e un’insalata riccia, ebbene preferisco avvelenarmi con le mie mani, scegliendo i veleni che mi danno più fiducia e mi garantiscono una minore sofferenza. E allora, quando mi accorgo che il frigorifero di casa sta per svuotarsi, senza lasciarmi prendere dallo sconforto, parto alla volta del supermercato. Una volta esisteva il negozietto sotto casa: era quasi sempre una bottega a conduzione familiare. Poi qualcuno si è accorto che le massaie, in questi posti, compravano solo ciò di cui avevano bisogno e non vi trascorrevano l’intera giornata. Comportamenti, questi, che non andavano bene e allora, per far si che si consumasse sempre di più ed aumentassero a dismisura sprechi e rifiuti, hanno inventato dei luoghi immensi, dove si va a fare la spesa con dei veri e propri container. Naturalmente i piccoli negozi sotto casa hanno dovuto chiudere perché non potevano competere con le multinazionali della distribuzione. La cosa che più colpisce, quando si entra in questi mega centri del consumo, è la varietà e l’abbondanza di qualsiasi prodotto di cui sono stracolmi gli scaffali, tutti sistemati in maniera strategica, tale da farti spendere sempre di più: succede che eri entrato per comprare il pane e il sale e ne esci con una vagonata di articoli di cui spesso non avevi strettamente bisogno. Però erano “in offerta” e pazienza se poi hai dimenticato di prendere proprio il pane e il sale.

In fila alla cassa il confronto tra i carrelli è d’obbligo: sembra quasi - a guardare i volti orgogliosi di chi si porta dietro il “vagone” - che ci sia una sorta di gara spendereccia a chi ce l’ha più zeppo. Ebbene devo dire che il mio appare sempre semivuoto rispetto all’abbondanza di mercanzie che tracimano dai carrelli dei vicini. A volte resto esterrefatto ed ho come l’impressione, di fronte a quell’accaparramento selvaggio di derrate alimentari, che stia per arrivare, a mia insaputa, un lungo periodo di carestia, oppure che sia stata annunciata una guerra e la gente abbia paura di rimanere senza viveri; resto incredulo quando mi accorgo che la signora accanto a me, il cui peso è proporzionato alla sua spesa, butta dentro il carrello qualsiasi cosa le capiti a portata di mano senza il minimo discernimento. Sembra quasi che l’unica sua accortezza sia quella di arraffare tutti i prodotti ben reclamizzati e la pubblicità sia, pertanto, il suo esclusivo parametro di sicurezza, il suo unico metro di giudizio. “ Io guardo sempre la pubblicità in televisione – ha detto una volta lo scrittore Erri de Luca - altrimenti non potrei sapere quali sono le cose che non devo assolutamente comprare”. Quando mi presento alla cassa con la mia spesa striminzita da pagare, avverto un senso di imbarazzo con quel mezzo chilo di pomodorini pachino comprati al reparto del biologico, una fetta di primo sale di pecora della Ciociaria, 250 grammi di mozzarelle di bufala di Battipaglia e due pacchi di spaghetti di Gragnano. Non posso competere con quella signora di prima, che dietro di me avanza a fatica spingendo il suo tir strapieno di scatole di merendine di tutti i tipi (ripiene di coloranti, conservanti, edulcoranti…), innumerevoli pacchi di pesce surgelato al mercurio pescato nei vari oceani, diverse confezioni di affettati di mortadella e salami di dubbia provenienza, bottiglie di olio “d’oliva” prodotto non si sa dove, confezioni di enormi e oscene cosce di pollo dal colore incerto (nate in Polonia, macellate in Olanda e confezionate in Italia), barattoli alla rinfusa di sughi già pronti, buste di insalata già lavata, fagiolini già lessati, cicoria catalogna passata in padella, pacchi di piatti e posate in plastica, lattine di pomodori pelati (come natura crea), due pizze quattro stagioni surgelate…; e quella signora, sbirciando il mio carrello pressoché vuoto, sembra  guardarmi quasi con un sentimento di pietà misto a disprezzo, come se fossi un povero miserabile, un morto di fame, degno della sua commiserazione.


martedì 7 febbraio 2023

All'antica. Una maniera di esistere

 


Mi trovavo in una grande libreria del centro storico di Roma. Un luogo, questo, in cui amo spesso confondermi e perdermi per potermi, poi, ritrovare. Vi ero entrato, l’altro giorno, anche per un bisogno di quiete e per stemperare la mia temporanea malinconia, così come a volte si entra in una chiesa per cercare conforto e pregare. Fuori, la città con le sue logiche consumistiche e la perenne confusione di macchine e turisti non sembravano offrire alcun segnale di tregua; all’interno di quel luogo dello spirito, invece, regnava un silenzio ovattato, rotto soltanto dal lieve fruscio delle pagine dei libri. Mi aggiravo curiosando tra gli scaffali zeppi di volumi e, come spesso accade quando ti trovi di fronte a migliaia di pagine scritte, non sei tu a scegliere un libro ma è il libro stesso che ti viene incontro e ti corteggia, attirandoti con la sua bella copertina o con un titolo accattivante. Ed eccolo quel libro: sulla copertina un dipinto che riproduceva una donna d’altri tempi, dal contegno raffinato, così diversa dagli attuali stereotipi femminili. Venivo attratto da quella figura armoniosa che sembrava quasi volesse parlarmi. Poi il titolo, per me davvero invitante: “All’antica. Una maniera di esistere” (Raffaello Cortina Editore). L’autore, un certo Duccio Demetrio, un nome a me sconosciuto che sapeva ugualmente di antico. Dopo aver dato un’occhiata alla quarta di copertina che iniziava con le parole di Leopardi tratte dalle Operette Morali secondo cui “un uomo fatto all’antica” è un uomo “dabbene e da potersene fidare”, l’ho aperto a caso e a pagina 46, ho letto: “Qualche volta può esservi persino capitato che abbiano detto di voi, benevolmente, che eravate un po' all’antica, un po' d’altri tempi, coniando frasi di circostanza ripetitive e banali. Ebbene, se tali espressioni, tanto più esse stesse un po' fuori moda, non vi sono dispiaciute, avendole interpretate come un gratificante elogio, se vi sono sembrate anzi una insolita lusinga, non un canzonatorio rimprovero, allora – forse – questo libro parlerà anche di voi”.


Sono bastate queste parole per ritrovarmi in quel libro: una sorta di amore a prima vista. Un libro che parlava di me e di tutti quelli che non sono schiavi del subdolo e straripante dominio tecnologico, e sono riluttanti e guardinghi nel seguire le mode e le tendenze del presente; ma che sanno apprezzare sensibilità, comportamenti, oggetti, gusti estetici e letterari, modi di essere e di agire definiti – superficialmente - “fuori moda” dal comune sentire. L’ho comprato senza indugi, attratto anche dalla sua elegante edizione con copertina rigida. Direi proprio una pubblicazione all’antica.

Essere all’antica – che è una condizione esistenziale spontanea o coltivata ostinatamente dentro di noi - non vuol dire rifiuto radicale del presente, né va inteso come un tentativo di allontanarsi dalla civiltà della tecnologia, della quale ormai nessuno può più fare a meno di avvalersi. Nulla di tutto questo! Significa, invece, riconoscersi in alcuni valori fondamentali che ci permettano di non tagliare definitivamente i rapporti con il passato, “quel passato – scrive l’autore - che ha saputo migliorare le condizioni di vita e di convivenza dello stare al mondo di ciascuno di noi”. Essere all’antica, quindi, non è lanciare attacchi contro l’era digitale, sognando il ritorno alla Olivetti lettera 32, ai segnali di fumo o ai treni a vapore, ma attenuare o correggere alcune condotte aggressive della contemporaneità che sembrano minacciare o cancellare le nostre memorie più nobili, certe tradizioni, ogni bellezza e risorsa naturale. E per sostenere questo modo di essere, di pensare, di parlare, di desiderare, di guardare, l’autore del libro si affida anche alle suggestioni e al pensiero dei filosofi, dei poeti, degli scrittori- da Seneca a Epicuro, da Lalla Romano a Franco Arminio “il più antico dei poeti italiani d’oggi", da Leopardi a Guido Gozzano… - affinché possano indirizzare diversamente alcuni nostri comportamenti abituali di vita assai poco ispirati a un’esistenza virtuosa. Insomma, “evocare l’antico – sottolinea Duccio Demetrio - non è tornare indietro, è legame del presente con il passato, anche storico, che possa arricchire il primo”. E’ svelare la nostra umanità, la nostra delicatezza, le nostre buone maniere che si oppongono all’arroganza, alla volgarità, alla maleducazione, al pensiero unico e ad ogni forma di insensibilità verso il passato, rappresentato anche dagli oggetti umili fuori moda, dalle “piccole cose di una volta” tanto care ai “crepuscolari”. “Sfortunato è chi non abbia nemmeno una saliera, una tazza, un piatto, una zuccheriera…materna o paterna – scrive Duccio Demetrio - denominata antica più che altro per consuetudine domestica, da conservare ed esibire nei giorni di festa quasi fosse un amuleto”. Una eredità da salvare, da custodire, da amare affinché ciò che consideriamo antico possa rappresentare una crescita piuttosto che una regressione, possa rivelarsi un “punto di vista morale rispetto a ciò che dell’oggi non vogliamo accettare, non ci piace, si dimostra spreco intollerabile”. E se non vogliamo separarci da certi ricordi, da certe virtù, da certe cose passate di mano in mano che ci hanno aspettato e sono diventate preziose per il loro valore affettivo, significa che in noi si nasconde “l’attitudine per il sentimento verso l’antico…l’antico non come rammarico, ma come scelta di vita, come maniera di far esistere il passato purgato dei suoi errori In quel mondo possiamo ritrovare la nostra fragilità, possiamo ritrovare noi stessi e coloro che ci hanno preceduti, non “una rapida e distratta apparizione virtuale”.

L’antico – che è un “altrove” senza tempo e racchiude un modo di esistere all’insegna di valori culturali, civili e umani ereditati da un passato che non ha più età - ci invita essenzialmente a vigilare su come viviamo il presente, un presente a volte intollerabile che non sempre accettiamo e che vorremmo ben diverso, rispetto al quale ci sentiamo spesso estranei e spaesati. L’antico è un “luogo mentale” dove si sono rifugiati i nostri ricordi infantili, le nostre storie e quelle degli altri. L’antico, scrive Duccio Demetrio, “è un sentimento: l’eco di qualcosa che abbiamo perduto, ma che in verità non abbiamo mai posseduto e mai potremo rivivere non avendolo vissuto. Eppure, saperlo dentro di noi allevia ogni mancanza temporanea. La sua figura indefinita va e viene, torna e ci rincuora. Ci dona il senso di appartenenza alla vita presente e non solo, come comunemente si crede, a quella già trascorsa”.

E’ un libro, questo, che non contiene solo parole ma anche immagini: e sono dei dipinti bellissimi della prima metà del secolo scorso che fluiscono tra le pagine, a cui l’autore volutamente non ha dedicato alcun commento. Li ha cercati “in una gamma ridotta di scuole e stili novecenteschi, come aggiunge Berenson, inseguendone soprattutto l’incanto esistenziale”. Ritraggono figure delicate e armoniose scelte per il silenzio che sembra avvolgerle, per il contegno del loro aspetto e per l’eleganza e la misura dei loro gesti antichi. “Desidererei che – scrive Duccio Demetrio – sfogliando il libro con appropriata lentezza, come mi è accaduto cercandole, se ne cogliesse quasi per telepatia…tutta la bellezza taciturna, compita, solenne”. Per finire mi piace aggiungere che un libro – un buon libro - va sempre letto con “appropriata lentezza”. E poi va riletto una seconda volta a distanza di tempo: la prima volta per capire, la seconda per riflettere. Un modo di leggere all’antica.


mercoledì 1 febbraio 2023

Reminiscenze scolastiche

 


In quarta ginnasio avevamo un anziano professore di matematica (si chiamava Capo) il quale, ad ogni lezione, soleva ripeterci la consueta bonaria esortazione: “mi raccomando ragazzi, se qualcuno di voi non capisce qualcosa, alzi pure la mano…”. Ma nessuno mai si azzardava, vuoi perché la lezione appariva chiara, vuoi perché nessuno voleva fare la figura del somaro. Devo dire che la matematica non era il mio forte. E un giorno, dopo la solita lezione con esercizi e formule alla lavagna – vincendo la mia innata timidezza – alzai la fatidica mano: “Scusi professore, ma quel passaggio non l’ho capito; le sarei grato se potesse spiegarmelo di nuovo”. Mi aspettavo che il professore mettesse in pratica quel suo accorato appello, finalmente contento di poter ripetere a qualcuno quanto aveva appena detto: però mi sbagliavo. Infatti, guardandomi con un sorrisetto tra il serafico e il canzonatorio, il professor Capo esclamò: capirai…capirai! Naturalmente la risposta scatenò un coro di risate da parte di tutta la classe. Ci rimasi molto male e mi lasciai quasi cadere sul banco, rosso come un peperone e consapevole di essere stato preso in giro in una maniera così irridente. E dal quel momento diventai quello del capirai .

Ho sempre pensato che il professor Capo – che mi era pure simpatico, nonostante tutto – aspettasse qualcuno di noi al varco per poter fare quella sua battuta di spirito di patate. Altrimenti non si spiega perché – da quel giorno – non osò più ripetere a tutti noi quel suo incoraggiamento ad alzare la mano alla fine di ogni sua lezione.