Il complesso del Vittoriano a Roma ospita, fino al 12 febbraio 2017, una bella
mostra dedicata a Edward Hopper, uno
dei più importanti e celebri pittori americani del Novecento. Non potevo,
quindi, lasciarmela sfuggire, considerata la stima che nutro da anni nei
confronti di questo straordinario artista. L’esposizione pittorica - che percorre
tutte le tecniche della sua vasta produzione, dalle tele ad olio agli
acquerelli ed ai disegni con matita e carboncino, si snoda attraverso una sessantina di dipinti – tra paesaggi e scorci cittadini - alcuni dei quali sono
ormai entrati a far parte dell’immaginario collettivo, vere e proprie icone
universali. Per l’occasione, mi piace riproporre un mio post sul pittore americano, rivisto e
aggiornato, scritto qualche tempo fa.
Io penso che nessun artista, prima di Edward Hopper, abbia avuto la
spregiudicatezza di innalzare a dignità artistica la realtà urbana delle grandi
città americane e dei suoi sobborghi. L’ha fatto per la prima volta questo
pittore, nato in una piccola cittadina sul fiume Hudson nel 1882, appartenente
ad una ricca e colta famiglia borghese dell’America di fine Ottocento. Attraverso la
pittura, Hopper si spinse ad osservare, direi quasi a “spiare, l’interno di un
appartamento o di un ufficio o di uno scompartimento ferroviario, cogliendo gli
ignari occupanti immersi nelle proprie faccende private o pubbliche. La scelta
di utilizzare in pittura soggetti artistici non in linea con gli ideali imposti
dall’arte moderna e, soprattutto, dalle richieste del mercato dell’arte,
provocò, almeno inizialmente, una reazione molto dura nei suoi confronti, sia
da parte della critica americana che dell’opinione pubblica. Questa sua
vocazione al realismo metropolitano, questa sua totale fermezza nel perseguire
una propria linea pittorica lontana dalle mode, lo condannarono in principio
all’indifferenza generale, tanto è vero che Hopper presentò a New York la sua
prima mostra personale solo all’età di 38 anni, esponendo una quindicina di
quadri ad olio, senza venderne nessuno. L’apprezzamento, di critica e di pubblico,
sarebbe arrivato in seguito.
Hopper era attratto
dalle periferie urbane e dalle stanze dei motel, dalle stazioni ferroviarie e dalle
case solitarie in mezzo al bosco, dalle strade quasi sempre deserte e dai
distributori di benzina isolati. E poi erano i fari, lungo le coste atlantiche,
a scatenare la sua immaginazione: ne dipinse davvero tanti. Amava
rappresentare la solitudine della condizione umana e gli spazi vuoti e assolati.
I rari protagonisti nei suoi quadri appaiono sempre soli e, se dipinti in
coppia o in gruppo, sembrano estranei gli uni agli altri e non comunicano
mai tra di loro. Nemmeno Hopper sapeva spiegare il perché di questa sua strana ossessione,
tant’è che scriveva: “Se potessi dirlo a
parole, non ci sarebbe alcun motivo per dipingere…Perché io, poi, scelga
determinati oggetti piuttosto che altri, non lo so neanche io con precisione,
ma credo che sia perché rappresentano il miglior modo per arrivare a una
sintesi della mia esperienza interiore”. E la sintesi della sua esperienza
interiore era essenzialmente la solitudine. Hopper era un uomo riservato e
timido, incapace di sentirsi a proprio agio tra la gente: amava nascondersi
piuttosto che apparire. Se fosse vissuto ai giorni nostri - considerata la
sua indole solitaria - credo che si sarebbe negato a qualsiasi intervista e non
sarebbe stato mai ospite di programmi televisivi, così appetibili dai vip di nostra conoscenza. Probabilmente queste sue peculiarità caratteriali influenzarono anche
la sua pittura che ci parla, appunto, dell’isolamento urbano e della solitudine
celata dietro le cortine delle finestre o lungo una strada assolata di
periferia. I suoi dipinti ci svelano quelle estreme condizioni di alienazione e
di difficoltà di comunicazione vissute dagli individui che vivono nelle grandi
città. Sembra quasi che Hopper, nei suoi quadri, voglia rappresentare il tempo,
o meglio la sospensione del tempo, attraverso luci e ombre che si stagliano
sulle cose, in assenza di persone e di sentimenti. Una volta disse: “io non voglio dipingere la gente che
gesticola e che esprime emozioni. Quello che voglio fare è dipingere la luce su
di un lato di una casa”.
Molti sono i critici che vedono nella pittura di Hopper la riproduzione
dello squallore e della desolazione di una certa America. Ma io credo che il
pittore americano fosse innanzitutto un attento osservatore della realtà da cui
era circondato e, attraverso la visibile
solitudine che traspare dai suoi dipinti, egli intendesse rappresentare la
universale fragilità della condizione esistenziale. Il suo messaggio, umano e
artistico, è quello di farci riflettere sulla vera essenza delle cose e sugli
aspetti più banali della quotidianità. Con le sue opere, l’artista americano ci
rivela che la “poesia” si può trovare anche in una sperduta stazione di
servizio, lungo una strada che attraversa un bosco e che la felicità si può
percepire anche in un motel o in una sala d’attesa semivuota di una stazione
ferroviaria di periferia. Perché a volte sono proprio quei luoghi, che
apparentemente appaiono i più tristi e malinconici, frequentati da avventori
smarriti e in rotta di collisione con la società e con la vita, a consolarci
della nostra tristezza. Le hall degli alberghi, i vagoni dei treni poco
frequentati, le caffetterie aperte fino a tarda notte ai lati della strada –
dipinti da Hopper – diventano, così, un rifugio accogliente per quanti si
sentono abbandonati e traditi dalla vita, luoghi ideali dove poter
tranquillamente stemperare la propria solitudine e la propria sofferenza.
Riesco, inoltre, a scorgere nella
pittura di Hopper due aspetti che per me sono fin troppo evidenti e che
traspaiono in tutte le sue raffigurazioni: da un lato, il silenzio, e credo che
nessuno meglio di Hopper abbia saputo raffigurare questa astratta dimensione,
irrimediabilmente perduta nell’epoca in cui viviamo, contrassegnata da rumori
che non lasciano spazio alla riflessione a all’ascolto. E dall’altro lato,
l’attesa, come se quei personaggi, il più delle volte dipinti da soli,
aspettassero qualcuno o qualcosa, o come se in quelle case isolate, rappresentate
ai margini del bosco, stesse per accadere un evento a noi sconosciuto.