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lunedì 23 marzo 2020

Bellezza e solitudine al tempo del coronavirus


In queste lunghe giornate di isolamento forzato, velate di malinconia, di paura e di pensieri, mi capita spesso di stare da solo, in silenzio, cercando di scacciare quel “tarlo” che continua in maniera ostinata a scavare nel corpo e nella mente di ognuno di noi, lasciando segni indelebili difficili da emarginare, almeno in tempi brevi. Passo lunghe ore a leggere, e poi ad osservare e curare i fiori sul balcone di casa, e poi a conversare con mio figlio, e poi a guardare qualche programma televisivo, per lo più documentari (io che guardo poca televisione), cercando di essere attento a non subire dosi eccessive di informazioni no stop sul coronavirus. Secondo lo psichiatra Raffaele Morelli dobbiamo assolutamente evitare di stare incollati al televisore e sui social, dobbiamo allontanare dalla nostra mente questi problemi angosciosi - che alla lunga diventano devastanti per il nostro equilibrio psico-fisico - ed iniziare ad immaginare e fare altro, perché la parte sognante del cervello è un farmaco, forse il farmaco più potente, che allontana le preoccupazioni sullo sfondo.

E così mi è capitato, l’altra sera, di soffermarmi a lungo – come non mi era mai capitato di fare in precedenza – su un piccolo quadro appeso ad una parete della mia camera. Che strano: sta lì da chissà quanto tempo e non aveva mai ricevuto così tanta attenzione da parte mia. Come a dire che a volte trascuriamo le cose vicine per un altrove che riteniamo migliore. Questo dipinto è stato realizzato da una brava e sconosciuta pittrice contemporanea, Cristina Mazzoni, ed ha per soggetto una donna seduta su un muretto in un giardino con accanto una bambina – nell’intenzione dell’artista, probabilmente, madre e figlia – il cui delizioso abbigliamento rococò rimanda ad un’epoca lontana, di altri tempi. 
Cristina Mazzoni - Damine

Chissà quali sentimenti avranno guidato la mano della pittrice nel fissare sulla tela quell’immagine all’aria aperta, così delicata, che infonde una piacevole serenità, soprattutto di questi tempi. Devo dire che chiunque si trovasse a guardare questo quadro – anche il più sprovveduto degli osservatori – non potrebbe non riconoscere la bellezza della rappresentazione; e nessuno, almeno così credo, potrebbe sostenere di non capire il significato dell’opera. D’altra parte, così non sarebbe se lo stesso spettatore si trovasse al cospetto di una forma d’arte assolutamente diversa, non facile da comprendere, da indurlo perfino a mettere in discussione il fatto stesso che sia arte, come il quadro astratto sotto riportato dipinto da Paul klee.
 
Paul Klee
Alla luce di queste osservazioni, io non credo che esista un modo corretto di guardare un’opera d’arte o che si possa, tanto meno, insegnare la giusta maniera per apprezzare la bellezza. Ognuno di noi, nell’osservare un quadro, è inevitabilmente influenzato da tante cose che vanno ad incidere sulla propria scelta, sulla propria reazione emotiva: la maggiore o minore sensibilità, l’educazione ricevuta, l’istruzione, l’ambiente socio familiare in cui vive. E’ come dire che spesso vediamo non tanto quello che un dipinto ci mostra, quanto ciò che siamo o ciò che conosciamo. E fino a quando tali condizioni ci consentono di trarne beneficio, non esiste alcun problema estetico: il bello che scorgiamo in un’opera d’arte ci viene incontro e ci dà piacere e conforto. Ma quando nella visione subentra un pregiudizio, quando scartiamo o consideriamo brutto un quadro che – per esempio - ha per soggetto una montagna innevata, mentre noi amiamo solo il mare, allora dobbiamo riconoscere le nostre ragioni sbagliate che, senza alcun fondamento estetico, ostacolano la ricerca del bello e ci privano di un piacere che altrimenti proveremmo.

In un quadro noi cerchiamo sempre quelle atmosfere e quelle sensazioni che più amiamo. Se uno dice di essere attratto dalla luce e dalla vita all’aria aperta, esprime un suo gusto personale che lo porta, probabilmente, a preferire la pittura degli espressionisti ed in particolare quella di Renoir. Qualcun altro potrebbe affermare che i contorni sfumati delle figure dipinte nei quadri del pittore francese, non riescono a trasmettergli quella tensione emotiva e quella bellezza che scorge, invece, nelle tele del Caravaggio, con quel suo gioco di luce e ombra dove i personaggi così ben delineati sembrano vivi, appena usciti da un contesto reale. Evidentemente sono percezioni differenti, che rimandano a sensibilità e preferenze diverse: il primo ama le situazioni delicate, un po’ sfumate, il secondo quelle intense e drammatiche. Non è pensabile, però, che colui a cui piace Caravaggio possa dichiarare che la pittura di Renoir sia brutta.

Come ci insegna il grande storico dell’arte Ernst Gombrich – autore di uno dei libri più belli che siano stati scritti sulla storia dell’arte - la bellezza di un quadro non risiede solo ed esclusivamente nella bellezza del soggetto rappresentato. Quando il pittore tedesco Albrecht Durer dipinse nel 1500 il suo famoso “autoritratto con pelliccia”, simile ad un Gesù Cristo sceso in terra, probabilmente desiderava esprimere tutto il suo narcisismo e voleva che anche noi ammirassimo la sua bellezza, quasi divina.
Durer - autoritratto

Probabilmente ci riuscì, perché quel disegno esprime fascino ed attrazione. Tuttavia la seduzione per i soggetti belli nell’arte non deve indurci a respingere opere che raffigurano soggetti meno belli. Anche il grande pittore olandese Rembrandt disegnò, negli ultimi anni della sua vita, un suo ritratto e a quest’opera dedicò tutto il suo impegno artistico, certamente lo stesso impegno che Durer aveva riservato alla sua effige.
Rembrandt - autoritratto

Il volto di Rembrandt non è bello come quello di Durer, tuttavia non si può dire che non abbia una sua forte intensità espressiva; quindi entrambi i quadri meritano il nostro interesse perché hanno la straordinaria capacità di evocare - con assoluta sincerità - la vanità dell’uomo (il primo) e la sua decadenza fisica, il secondo. Ciò che siamo ci viene raccontato dalla maestria di questi due artisti i quali sono riusciti a convertire in forme comprensibili i sentimenti umani.

Ma l’artista crea anche attraverso la propria immaginazione, rende visibile qualcosa che, forse, non riusciremmo mai ad immaginare, pur sollecitando attraverso la sua opera la nostra stessa immaginazione. Quando l’autore de “la città ideale” dipinse, nella seconda metà del 1400, questo famoso quadro che viene attribuito a tre diversi artisti (Piero della Francesca, Luciano Laurana e Francesco di Giorgio Martini), intendeva rappresentare gli ideali di perfezione, di armonia e di bellezza di un tessuto urbano rinascimentale. E non poteva immaginare altro. 
La città ideale

Ora, osservando bene questa raffigurazione, il mio pensiero non può che andare alle immagini – direi molto belle, se non avessimo quel “tarlo” nella testa che ci perseguita e deforma anche la nostra visione - delle tante, magnifiche piazze del nostro Paese, svuotate e rese quasi spettrali dal contagio che ci perseguita. E come non pensare, poi, alla pittura di Mario Sironi.
Mario Sironi - paesaggio urbano

Chiunque abbia presente la sua arte sa che l’artista sardo amava trasferire sulla tela suggestioni metafisiche e surreali, atmosfere cupe e desolate. Spesso dipingeva paesaggi urbani alienanti da cui non traspare la bellezza che si può cogliere nel dipinto precedente, ma soltanto solitudine. La solitudine dell’uomo nel suo contesto abitativo. Sembra quasi che bellezza e solitudine si rincorrano e si uniscano, nell’arte come nella vita. Oggi, forse nel momento più tragico della nostra esistenza, quando vediamo i nostri centri storici - autentici scrigni di bellezza – senza la presenza umana, ci assale un profondo e indescrivibile malessere. Eppure, prima del coronavirus, chissà quante volte, passeggiando per gli stessi luoghi sovraffollati e rumorosi ci è capitato di provare horror pleni, in contrapposizione all’horror vacui che stiamo vivendo.   
Roma - piazza del pantheon


domenica 8 marzo 2020

Il disagio esistenziale: da Camus a Bassani



Considero Giorgio Bassani uno dei nostri più grandi scrittori del Novecento. Tutti i suoi romanzi, tra cui “Il giardino dei Finzi Contini” – il più famoso - sono ambientati nella sua Ferrara, la città in cui trascorse l’infanzia e l’adolescenza, e raccontano le sorti della ricca borghesia ebraica della città estense (di cui egli stesso faceva parte) durante il regime fascista. Ho letto in questi giorni “L’airone” – il romanzo che si aggiudicò il Premio Campiello nel 1969 – e devo dire che sono rimasto particolarmente colpito dal suo disincantato protagonista - l’avvocato Edgardo Limentani – che simbolizza il profondo malessere esistenziale dell’uomo, tematica al centro della narrativa dello scrittore ferrarese. E mentre leggevo, mi sono ricordato di un altro personaggio della letteratura così somigliante all’avvocato Limentani: quel Meursault incontrato tra le pagine del romanzo di Albert Camus “Lo straniero”. Costui è un modesto e oscuro impiegato che vive ad Algeri il quale si fa arrestare e processare senza battere ciglio, dopo aver ammazzato per futili motivi un arabo che nemmeno conosce. Il personaggio di Bassani, invece, è un ricco proprietario terriero che in una nebbiosa e fredda domenica del 1947 (la storia è tutta incentrata nell’arco di questa giornata) decide di riprendere una sua antica passione abbandonata da tempo: la “caccia in botte” nelle valli della bassa ferrarese. Sebbene le vicende narrate nei due romanzi sopra menzionati siano molto diverse, entrambi i protagonisti sono accomunati dallo stesso disagio esistenziale, e vivono nella più completa apatia verso se stessi e il mondo che li circonda, trascinandosi in uno stato di indifferenza, di pigrizia, di solitudine e di estraneità. L’atmosfera che si respira nei due libri messi a confronto – raccontati attraverso il monologo interiore del protagonista – è mesta e rassegnata. Sia Meursault che Limentani, animati quasi da una tensione surreale, sembrano accettare passivamente gli eventi che accadono; sembra quasi che i fatti e le persone che hanno a che fare con loro li allontanino sempre di più dalla realtà delle cose.

Seguiamo passo dopo passo il protagonista del romanzo di Bassani – dall’istante in cui si sveglia ed esce di casa fino al suo rientro a tarda sera - nel suo lento itinerario alla guida della sua vecchia Aprilia, tra le valli nebbiose ed incerte della bassa padana. I suoi tempi, le sue azioni, i suoi movimenti sono descritti in maniera meticolosa e scanditi ossessivamente dal suo orologio. In questa lunga ed estenuante giornata l’avv. Limentani non fa altro che delirare; sembra che non ci sia più niente che non lo irriti, che non lo ferisca, che non lo disgusti: la caccia, il freddo, il pranzo in una bettola gestita da un fascista, l’incontro con un cugino che non vedeva da tempo, i paesi avvolti nella nebbia.

“Come erano tranquilli e beati gli altri, tutti gli altri – pensava – come erano bravi a godersi la vita”. Lui invece era disgustato di se stesso e e della propria esistenza. E tutto sembrava mescolarsi e confondersi, perfino il tempo, quello dei minuti e delle ore, pareva non contasse più nulla. E allora “dopo aver deciso quello che aveva deciso” di fare una volta ritornato a casa - dove lo aspettava una moglie che “sapeva recitare con compunzione la sua parte di dama della più eletta società cittadina”, mentre lui ancora non riusciva a capacitarsi di come avesse potuto sposarla – finisce per identificarsi in un airone imbalsamato, osservato al di là della vetrina di una bottega di un impagliatore di uccelli. E di fronte a quelle bestie “magnifiche tutte nella loro morte, più vive che se fossero vive”, si sente finalmente felice tanto da comprendere quanto fosse “stupida, ridicola, grottesca , la vita, la famosa vita, a guardarla dall’interno di una vetrina di imbalsamatore. E come ci si sentiva bene, immediatamente, al solo pensiero di piantarla con tutto quel monotono su e giù di mangiare e defecare, di bere e orinare, di dormire e vegliare, di andare in giro e stare, in cui la vita consisteva! Per la prima volta, forse, da quando era al mondo, gli capitava di pensare ai morti senza paura”.

A lettura ultimata, che ti lascia addosso una indicibile mestizia, viene spontaneo domandarsi: può considerarsi bello da leggere un libro che racconta un dramma esistenziale? Per me la risposta è si, quando l’autore, attraverso una narrazione struggente e malinconica - e le pagine conclusive del romanzo (che da sole valgono la lettura) ne sono la testimonianza – riesce ad esprimere sensibilità e capacità espressiva che lasciano un segno indelebile nell’animo del lettore.