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lunedì 18 marzo 2024

Leggere Mastro Don Gesualdo

 


E così, ci sono riuscito anch’io a leggere “Mastro Don Gesualdo” di Giovanni Verga, un libro che mi trascinavo dietro, come una zavorra, da oltre mezzo secolo. Un libro che tutti conoscono – almeno per sentito dire - ma pochi l’hanno davvero letto; un libro su cui siamo stati interrogati da studenti, il cui protagonista è da considerare, forse, tra i maggiori della nostra letteratura.

Gesualdo Motta è un muratore di umili origini della Sicilia rurale della prima metà dell’ Ottocento; è un “mastro”, come suol dirsi, il quale - dopo essersi arricchito – convola a nozze con una giovane donna appartenente ad una nobile famiglia decaduta e conquista il “Don”, quale appellativo di riguardo riservato ai notabili. Per tutti è Mastro Don Gesualdo: un uomo gretto, astuto, che non dà nessun valore ai sentimenti, attaccato ossessivamente alla sua “roba”, detestato e invidiato, per la rapida ascesa sociale, tanto dal basso ceto da cui proviene, quanto dalla nobiltà del paese che lo annovera tra i propri ranghi.

Un libro che mette in risalto due opposte visioni del mondo, due diverse realtà che si confrontano e si sfidano, senza mai trovare un punto d’incontro: da una parte la logica mercantile di un povero contadino che, diventato un ricchissimo proprietario terriero, tenta di emanciparsi socialmente, terrorizzato dalla paura di perdere la “roba” conquistata con tanta fatica e, dall’altra, l’ipocrisia e la superbia di una nobiltà di paese in declino, alla fine della sua parabola ascendente, corrosa da debiti e ipoteche.

Che dire: appare quasi anacronistica, oggi, la lettura di questo libro;  eppure, per comprendere meglio l’epoca in cui viviamo, a volte sarebbe necessario prendere le mosse proprio da certi testi letterari e dai fatti che raccontano, quei fatti scanditi in modo lento e ripetitivo dai tempi ciclici della natura, tanto che nell’arco di un’intera esistenza poteva capitare di non assistere a nessun tipo di cambiamento. Oggi, invece, i cambiamenti sono diventati inarrestabili grazie ai mezzi tecnologici che hanno determinato una compressione del tempo e dello spazio, imprigionando l’uomo moderno in un eterno presente che lo rende incapace, tanto di trarre insegnamento dagli errori e dalle virtù del passato, quanto di immaginare un futuro migliore. E allora, mi piace pensare che nel leggere Mastro Don Gesualdo – visto che è ancora presente nei programmi scolastici – gli studenti sappiano cogliere dalla tragedia umana ed esistenziale di questo antieroe della nostra letteratura che aveva affidato il suo riscatto sociale alla ricchezza, quel messaggio non scritto che però aleggia tra le pagine del libro, ossia: la felicità di un uomo non si può acquistare e la bramosia di possesso (l’accumulo di “roba” per Mastro Don Gesualdo) è sempre fonte di tensioni perché suggerisce una visione del mondo e della società distorta.


venerdì 8 marzo 2024

Un eremo non è un guscio di lumaca

 


Quando si pensa all’eremita, inevitabilmente affiorano alcuni pregiudizi duri a morire: si ritiene che il soggetto sia un asociale, che abbia paura della vita e allora non fa che chiudersi nel suo guscio, al riparo dalle difficoltà e dal mondo. Ma non è così. Scrive Adriana Zarri – teologa e scrittrice morta alcuni anni fa – in un suo libro che si intitola “Un eremo non è un guscio di lumaca” che un eremita “non è un misantropo inavvicinabile, non è nemmeno necessariamente un recluso che non possa, di tanto in tanto, muoversi e incontrarsi con la gente, che non possa soprattutto ricevere chi venga a condividere qualche ora della sua solitudine e a fargli dono della sua amicizia. L’eremita è semplicemente uno che sceglie di vivere da solo perché nella solitudine ha il suo momento privilegiato d’incontro”. Ecco, l’incontro si può avere solo in solitudine: l’incontro con gli uomini, l’incontro con sé stessi, l’incontro con Dio e con la preghiera (per chi crede) e l’incontro con la scrittura. Si, perché quando si scrive, e di conseguenza quando si legge, si sta in solitudine e, quindi, tanto la scrittura quanto la lettura sono attività eremitiche. 

Adriana Zarri era una donna libera che non aveva paura di esporsi a difesa delle sue idee e dei suoi principi. Non aveva mai praticato l’arrendevolezza: preferiva legare l’asino dove meglio credeva, anziché legarlo dove voleva il padrone. E, ad un certo punto della sua vita, decise di trasferirsi in una cascina sulle colline attorno ad Ivrea e di vivere da eremita, raccontando questa sua esperienza esistenziale in questo libro molto intenso. Il suo intento era quello di contestare, in qualche maniera, il nostro mondo che si fonda essenzialmente sull’ arrivismo e sul carrierismo, che predilige gli arrampicamenti sociali, calpestando magari i diritti delle classi più deboli. Ma desiderava anche sottolineare che, oggigiorno, alcuni valori sociali sembrano completamente dimenticati come il silenzio, il rispetto della natura e la preghiera, intesa - per un non credente – quale momento di ascolto interiore. Per la Zarri un eremo non è un guscio di lumaca: e lei non vi si era rinchiusa, ma aveva solo scelto di vivere in piena libertà, lontana dal clamore, lottando contro quella falsa retorica dello “stare insieme”, che vede i solitari come persone individualiste, nemici del vivere sociale. Ma il singolo, affinché possa acquistare una sua autonomia di pensiero e di giudizio che gli consenta di inserirsi nella comunità senza “affogarvi dentro”, ha bisogno di uno spazio di silenzio che gli permetta di non essere plagiato dal gruppo e da quei persuasori occulti che oggi si annidano nei mass media. “Silenzio e solitudine sono valori ineludibili” affermava la teologa; ma la cosa più interessante è che in ciascuno di noi “c’è una valenza monastica che attende d’essere tratta in superficie e sviluppata secondo le varie vocazioni”. 

Consiglio vivamente questo libro a chi oggi va sempre di fretta; a chi è convinto che i soldi siano l’unico valore in cui credere; a chi pensa che la solitudine sia un isolamento e un tagliarsi fuori e non, invece, un vivere dentro, percorsa da voci e animata di presenze. Lo consiglio a chi si fa possedere dalla tecnologia e dalle cose, anziché possederle; a chi si lascia stordire dalla folla e dal rumore, dimenticando che il silenzio “contiene ogni possibile parola”. Lo consiglio a chi non ha mai coltivato l’ “otium”, come l’ha coltivato per tutta la vita questa grande testimone dei nostri tempi.




sabato 2 marzo 2024

Il realismo magico di Antonio Donghi

 


Qualcuno ha detto che è impossibile, se non irriverente, commentare e descrivere un’opera d’arte. Davanti a un dipinto o ad una scultura possiamo solo guardare e lasciarci guidare, prima ancora che dal nostro stato d’animo, dalle emozioni che proviamo. E le emozioni non si possono raccontare, vanno semplicemente vissute. La parola scritta appare incompleta, insufficiente, e rischia di sovrapporsi a quanto il dipinto o la scultura vogliono trasmetterci. A questo pensavo mentre mi aggiravo per le sale di Palazzo Merulana a Roma, dove è stata allestita una mostra dedicata ad Antonio Donghi, uno dei maggiori esponenti del cosiddetto “realismo magico”, uno stile pittorico tra fantasia e realtà.



Questo artista mi affascina molto per le sue immagini inafferrabili e a volte indecifrabili, per le sue figure avvolte nel silenzio, sospese nell’attesa e nel mistero che sembrano inseguire una sorta di “incanto esistenziale”, per dirla con le parole dello storico dell’arte Bernard Berenson. Icone morbide e aggraziate, comunicano con la loro postura quasi ieratica, una bellezza taciturna e solenne. E ci osservano, chiuse nel loro mondo fuori dal tempo.

Il realismo magico di Antonio Donghi – scrive il curatore della mostra Fabio Benzi – è “intriso di una dimensione tutta romana, per la luce immobile di pomeriggi tiepidi, per la rilassatezza di pose e scene, per l’aria scanzonata di alcuni personaggi, che non sai se ti fissano severi o stanno scherzando, per l’ambiguità di fondo”.