Eugenio Montale |
Ha
un senso parlare di poesia, oggi, nell’attuale civiltà consumistica e super
tecnologica che vede affacciarsi per la prima volta un robot al posto dell’uomo?
Se lo chiedeva già il grande poeta Eugenio Montale oltre 40 anni fa allorquando,
insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1975, pronunciò un memorabile
discorso all’Accademia di Svezia incentrato proprio sul ruolo della poesia per
la quale veniva premiato. Fu un discorso illuminante, ancora oggi di grande
attualità, che ci fa capire molte cose su questo “prodotto” dell’ingegno umano “assolutamente
inutile – scriveva Montale - ma quasi
mai nocivo, e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà”.
Per Montale “esistono in coabitazione due poesie, una delle quali è di consumo
immediato e muore appena è espressa, mentre l'altra può dormire i suoi sonni
tranquilla. Un giorno si risveglierà, se avrà la forza di farlo. La poesia di “consumo immediato” è –
secondo me – quella che appartiene a tutti quei poeti estemporanei che
pubblicano poesie orecchiabili… sentimentali… ricche di “a capo”, però senza il
rispetto di quelle regole che stanno alla base di un componimento poetico. Nel pronunciare il suo
discorso all’Accademia di Svezia il poeta genovese affermava che “tutte le arti visuali stanno
democratizzandosi nel senso peggiore della parola. L’arte è produzione di
oggetti di consumo, da usarsi e da buttarsi via in attesa di un nuovo mondo nel
quale l’uomo sia riuscito a liberarsi di tutto, anche della propria coscienza”.
E poi si chiedeva: “Ma perché oggi
più che mai l’uomo civilizzato è giunto ad avere orrore di se stesso? […] Sotto lo sfondo così cupo
dell'attuale civiltà del benessere anche le arti tendono a
confondersi, a smarrire la loro identità.
Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato
non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di
riflessione. Il
tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano «datate» e il bisogno
che l'artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico
dell'attuale, dell'immediato. Di
qui l'arte nuova del nostro tempo che è lo spettacolo, un'esibizione non necessariamente
teatrale a cui concorrono i rudimenti di ogni arte e che opera una sorta di
massaggio psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che sia. […]
“L'arte-spettacolo, l'arte di massa,
l'arte che vuole produrre una sorta di massaggio fisico-psichico su un
ipotetico fruitore – sosteneva ancora
il poeta - ha dinanzi a sé infinite
strade perché la popolazione del mondo è in continuo aumento. Ma il suo limite
è il vuoto assoluto. Si può incorniciare ed esporre un paio di pantofole (io
stesso ho visto così ridotte le mie), ma non si può esporre sotto vetro un paesaggio, un lago
o qualsiasi grande spettacolo naturale. La poesia lirica ha certamente rotto le sue barriere. C'è poesia anche nella prosa, in
tutta la grande prosa non meramente utilitaria o didascalica: esistono poeti che scrivono in prosa
o almeno in più o meno apparente prosa; milioni di poeti scrivono versi che non hanno nessun
rapporto con la poesia. Ma questo significa poco o nulla. Il
mondo è in crescita, quale sarà il suo avvenire non può dirlo nessuno. Ma non è credibile che la cultura
di massa per il suo carattere effimero e fatiscente non produca, per necessario
contraccolpo, una cultura che sia anche argine e riflessione.
Possiamo tutti collaborare a questo futuro. Ma la vita dell'uomo è breve e la
vita del mondo può essere quasi infinitamente lunga. […]
In quel lontano 1975 il poeta si
chiedeva ancora: “quale può essere la
sorte della poesia? Le
risposte potrebbero essere molte. La
poesia è l'arte tecnicamente alla portata di tutti: basta un foglio di carta e
una matita e il gioco è fatto. Solo in un secondo momento sorgono i problemi
della stampa e della diffusione. L'incendio della Biblioteca di
Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un
incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei
nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione, cioè di manufatti soggetti
alle leggi del gusto e della moda”. […] Montale si soffermava poi sulla crisi che sembrava avvolgere tutto il
mondo artistico, “crisi che è
strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani,
alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati,
i soli che si credono padroni della loro sorte e depositari di un destino che
nessun'altra creatura vivente può vantare. Inutile dunque chiedersi quale sarà
il destino delle arti. È come chiedersi se l'uomo di domani, di un domani
magari lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si
dibatte fin dal primo giorno della Creazione (e se di un tale giorno, che può
essere un'epoca sterminata, possa ancora parlarsi).
Vorrei concludere
con una poesia di Eugenio Montale che forse più delle altre contiene l’essenza
stessa dell’arte poetica, o meglio quel “materiale” con cui viene costruita una
poesia: le parole
Le parole
se si ridestano
rifiutano la sede
più propizia, la carta
di Fabriano, l’inchiostro
di china, la cartella
di cuoio o di velluto
che le tenga in segreto;
le parole
quando si svegliano
si adagiano sul retro
delle fatture, sui margini
dei bollettini del lotto,
sulle partecipazioni
matrimoniali o di lutto;
le parole
non chiedono di meglio
che l’imbroglio dei tasti
nell’Olivetti portatile,
che il buio dei taschini
del panciotto, che il fondo
del cestino, ridottevi
in pallottole;
le parole
non sono affatto felici
di essere buttate fuori
come zambrocche e accolte
con furore di plausi e
disonore;
le parole
preferiscono il sonno
nella bottiglia al ludibrio
di essere lette, vendute,
imbalsamate, ibernate;
le parole
sono di tutti e invano
si celano nei dizionari
perché c’è sempre il marrano
che dissotterra i tartufi
più puzzolenti e più rari;
le parole
dopo un’eterna attesa
rinunziano alla speranza
di essere pronunziate
una volta per tutte
e poi morire
con chi le ha possedute.
se si ridestano
rifiutano la sede
più propizia, la carta
di Fabriano, l’inchiostro
di china, la cartella
di cuoio o di velluto
che le tenga in segreto;
le parole
quando si svegliano
si adagiano sul retro
delle fatture, sui margini
dei bollettini del lotto,
sulle partecipazioni
matrimoniali o di lutto;
le parole
non chiedono di meglio
che l’imbroglio dei tasti
nell’Olivetti portatile,
che il buio dei taschini
del panciotto, che il fondo
del cestino, ridottevi
in pallottole;
le parole
non sono affatto felici
di essere buttate fuori
come zambrocche e accolte
con furore di plausi e
disonore;
le parole
preferiscono il sonno
nella bottiglia al ludibrio
di essere lette, vendute,
imbalsamate, ibernate;
le parole
sono di tutti e invano
si celano nei dizionari
perché c’è sempre il marrano
che dissotterra i tartufi
più puzzolenti e più rari;
le parole
dopo un’eterna attesa
rinunziano alla speranza
di essere pronunziate
una volta per tutte
e poi morire
con chi le ha possedute.
Eugenio Montale