“Mens sana in corpore sano” dicevano gli antichi romani. E per onorare al meglio questo detto, cerco
di non trascurare la salute della mente, leggendo qualche libro e
scribacchiando su questo blog, né quella del corpo, oliando le mie
articolazioni sempre più arrugginite con una camminata spedita di circa un’ora,
tutti i giorni. Ne ho già parlato in un vecchio post. Mi reco nel Parco
Archeologico di Centocelle, poco frequentato. E’ un luogo che si trova un po'
distante dalle abitazioni del quartiere di Roma, dove abito, e gli amanti del
footing (per non stancarsi?) si riversano quasi tutti in un parco vicino, più a
portata di mano…o meglio di piedi. L’uomo, si sa, è per sua natura un animale
sociale che ama stare nel gregge e ammassarsi nello stesso posto, anziché
cercare spazi più liberi e meno affollati. Somiglia più a una pecora che a un
lupo. Che poi, è ciò che avviene in città: attorno esistono borghi a volte spopolati
(secondo uno studio circa metà della superficie terrestre è disabitata), eppure
scegliamo sempre gli alveari metropolitani. Insomma, ce la mettiamo tutta per farci
del male.
Prima di arrivare al parco percorro una
strada molto trafficata lungo la quale c’è di tutto e di più: bottiglie di
plastica, calcinacci, miriadi di mozziconi di sigarette, lattine, mascherine
(le new entry), biglietti di gratta e vinci (auguro, a chi l’ha buttati lì, di
non vincere mai!); e non mancano, di tanto in tanto, rifiuti più corposi quali
materassi, frigoriferi e altro... Ricordo, a chi ha la memoria corta, che il
Sindaco di Roma non è più la Raggi: gli incivili che la abitano, però, sono
sempre gli stessi. Ma lasciamo perdere! Attraverso la Casilina, un’antica
strada medievale che congiungeva Roma a Casilinum, l’odierna Capua, confinante
con il Parco: a quell’ora della mattina è un lungo serpentone di macchine
strombazzanti, che procedono a passo d’uomo, con una sola persona a bordo. La
cosa surreale è che la maggior parte sono suv e fuoristrada, come
se Roma si trovasse sulle Dolomiti. Se dovessi immaginare una eventuale
estinzione della specie umana sulla terra non avrei dubbi: vedo con la mente
solo un ingorgo planetario di macchine superaccessoriate i cui occupanti,
prigionieri in quella distesa di lamiere, strillano disperatamente al
cellulare: “ma tu dove sei?”. Sette miliardi di persone che si telefonano a
vicenda, senza scampo.
Sono nel
Parco Archeologico dove sorgeva - duemila anni fa - la villa imperiale ad
duas lauros dell’imperatrice Elena, madre dell’imperatore Costantino. Per
la sua grande estensione la dimora imperiale venne chiamata Centum
Cellae, da cui deriva l’attuale toponimo. Respiro quell’aria frizzantina del
mattino a pieni polmoni e mi sento bene, lontano da quell’inferno di lamiere
che mi sono lasciato alle spalle. Sembro davvero l’unico superstite
dell’apocalisse immaginata, ma anche il custode di trenta ettari di verde
pubblico a mia completa disposizione: una vera meraviglia! Non c’è nessuno, a
quell’ora. Percorro quei sentieri lungo i quali cresce rigogliosa la rughetta
selvatica, la cicoria e la carota e poi la portulaca e il finocchietto; ammiro
dei bellissimi fiori di prato quali il verbasco, la linaiola, la vedovella, la
malva. Ho imparato a conoscerli in questo luogo. Mi imbatto in una piantina di ulivo
messa lì a dimora da una mano ignota: un gesto quasi rivoluzionario da parte di
una persona sensibile, un vero atto d’amore verso la natura e verso l’uomo. Un albero - che sia un ulivo, un limone o un
abete - non si pianta mai solo per sé ma anche per chi verrà dopo. E sappiamo
quanto siano importanti e fondamentali, oggi, gli alberi per la nostra stessa
sopravvivenza.
Osservo questa
giovane piantina e non posso non andare con la mente ai miei ulivi piantati
tanti anni fa nella mia campagna, nel Cilento. Mi vedranno morire mentre loro
sfideranno i secoli, almeno me lo auguro. Anche quest’anno, a partire dai primi
di ottobre, mi sto dedicando, con passione, a quel rito antico che si perde
nella notte dei tempi: la raccolta delle olive. Bastano le mani e un rastrello
per “pettinare” i rami, un telo su cui far cadere le olive e un seghetto per
tagliare quelle cime che svettano verso il cielo. Ma noi oggi abbiamo perso
manualità, autosufficienza, antiche conoscenze. Compriamo tutto, anche quelle
cose che un tempo si facevano in casa; non sappiamo più coltivare un orto o
raccogliere le erbe selvatiche o la legna nel bosco; per mantenerci in forma e
non perdere l’uso delle gambe e delle braccia, frequentiamo le palestre e
facciamo jogging, a volte in mezzo al traffico. Faccio queste riflessioni,
mentre mi trovo da solo nel parco di Centocelle. Cammino e sento i miei passi
che spaventano i corvi e i pappagalli verdi (chiamati anche parrocchetti) che hanno
eletto qui la loro dimora. E osservo e intrattengo me stesso con i miei
pensieri, le mie divagazioni, le mie malinconie, che spesso si materializzano nei
miei post. Così come decollano da questa vecchia pista abbandonata (si vede nella
foto) - reperto del primo aeroporto italiano, qui realizzato agli inizi del
‘900 – anche le mie illusioni che si sforzano di mantenere ancora scattante un
corpo su cui gli anni cominciano a far sentire tutto il loro peso.