venerdì 22 luglio 2016

A Milano non fa freddo


Chi non ricorda quella scena memorabile del film “Totò, Peppino e la malafemmina” in cui i due grandi attori napoletani, nei panni di due fratelli,  arrivano nella stazione di Milano - in piena estate – entrambi intabarrati in un cappotto con il collo di pelliccia, colbacco e stivali da neve, convinti che nel capoluogo lombardo faccia sempre freddo, a prescindere dalla stagione. “Ma si può sapere che c’hanno da ridere ?”, dice Peppino osservando gli altri viaggiatori che sghignazzavano al loro passaggio. E Totò di rimando: “Ti sei mai visto in uno specchio? Tu vestito da milanese sei ridicolo”

 
 
Nel leggere il libro di Giuseppe Marotta “A Milano non fa freddo” (edizione Bompiani), non potevo non ricordarmi di quelle celebri immagini cinematografiche, capaci di ironizzare su una vecchia credenza popolare. Per gli emigranti che partivano soprattutto dal sud dell’Italia in cerca di fortuna e di lavoro, Milano era per antonomasia la città del freddo e della nebbia, dello spaesamento e dell’estraneità. Il freddo, per chi proveniva dai paesi caldi e luminosi del Mezzogiorno d'Italia, era quasi sinonimo di ostilità. E ostili dovevano apparire i suoi abitanti che parlavano una lingua a volte incomprensibile per chi conosceva solo il dialetto del paese di provenienza. Il libro di Marotta “A Milano non fa freddo” sembra sfatare  tale leggenda. E non solo nel titolo.
E’ una raccolta di brevi racconti in chiave autobiografica, velati a volte di soffusa e struggente malinconia, dedicati alla città che accolse lo scrittore partenopeo, nato a Napoli nel 1902. Egli infatti si trasferì a Milano nel 1925, all’età di 23 anni, per intraprendere la carriera di giornalista e scrittore. Aveva saputo che proprio a Milano “esisteva un professionismo giornalistico e letterario”. E questi brevi scritti, ognuno dei quali porta un titolo, non sono altro che brandelli di vita, paesaggi dell’anima; sono ricordi di avvenimenti accaduti o evocati che sembrano distendersi sulle ali della nostalgia; sono descrizioni amare e poetiche di una Milano che non esiste più.  “Gli uomini della mia specie – scrive Marotta nel suo libro – periscono in qualsiasi impresa che non sia quella di allineare parole sulla carta: tutto ciò che avrei potuto e dovuto fare nella vita io l’ho scritto o lo scriverò un giorno o l’altro; dubiterei della mia esistenza se, bene o male, non la vedessi stampata sui giornali e nei libri; nessuno sa che vorrei scrivere meglio al solo scopo di vivere meglio”. E chi poteva offrirgli la possibilità di scrivere meglio per vivere meglio se non Milano? Ecco allora che il capoluogo meneghino, nonostante le sue difficoltà e le sue contraddizioni, diventa il paese dove non fa freddo, ospitale e disponibile perché sa accogliere chi vi arriva e chi vi soggiorna.

martedì 12 luglio 2016

Il quartiere: luogo dell'anima



Avevo sentito parlare tante volte di Vasco Pratolini, ma non avevo ancora avuto l'occasione per leggere questo bravissimo autore, nato a Firenze nel 1913 e morto a Roma nel 1991. Ho colmato questa mia lacuna – diciamo così - attraverso la lettura de “Il Quartiere” che, pur non essendo il suo libro più importante, riveste tuttavia una sua rilevanza letteraria in quanto abbraccia quella tematica tanto cara allo scrittore fiorentino: i giovani e la loro difficile condizione sociale ed economica, appartenenti alle classi sociali più umili, colti nel passaggio cruciale dall’adolescenza alla giovinezza ed alle prese con i loro sentimenti ancora acerbi. E sono sentimenti semplici ed eterni come l’acqua che sgorga dalla fontana dissetandoli, senza che possano percepirne il sapore, o come il pane di cui si nutrono senza conoscerne la composizione.
La storia non è lineare e non è facile poterne riassumere la trama perché tanti sono gli episodi, gli amori, le amicizie che si intrecciano e si disfano in quel luogo corale di affetti e di esperienze comuni che è il quartiere. Eugenio Montale, all’uscita dell’opera, lo definì “un romanzo di ragazzi, e non per ragazzi”. La voce narrante del romanzo è quella di Valerio – che si definisce uno scrittore – che ama Luciana (o meglio, lui lo crede e lo spera), però gli piace anche Marisa, la quale aveva già avuto diversi fidanzati, a cui fa la corte Carlo, il più cattivo del gruppo, tant’è che irride la timidezza di Valerio. Maria, la sorella di Arrigo, che era stata per diverso tempo il pensiero peccaminoso di Valerio, si sposerà con Giorgio, il più grande del gruppo, mentre Arrigo convolerà a giuste nozze con Luciana. Poi incontriamo Gino…Olga…Berto…e tanti altri. Una comunità di ragazzi che viveva nel quartiere di Santa Croce a Firenze, negli anni in cui il Fascismo non lasciava molto spazio alla libertà e alle iniziative di nessuno. Erano figli di operai, falegnami, calzolai, maniscalchi, meccanici che abitavano in case buie, umide e fredde d’inverno, ma pulite ed in ordine. La loro vita si svolgeva nelle strade e nelle piazze del quartiere. Divisi in gruppi, secondo le amicizie, le affinità, le occasioni, sognavano una esistenza migliore, resistendo nella propria casa e nel proprio quartiere, contenti di essere amici. “Eravamo creature comuni – dice uno dei personaggi del libro - ci bastava un gesto per sollevarci collera o amore. La nostra vita scorreva su quelle strade e piazze come nell’alveo di un fiume (…) Avevamo imparato a fare un viluppo dei nostri affetti, intrecciati l’uno all’altro da privati rancori, da private dedizioni”.

Un romanzo che si legge velocemente, scritto con una prosa fluida e vivace, a volte velato di leggera malinconia. E’ l’affresco di un microcosmo che non esiste più, rappresentativo di una generazione molto diversa da quella attuale i cui componenti, tra dubbi, certezze e contraddizioni,  pur vivendo in un’epoca in cui le ristrettezze economiche, la guerra e le difficoltà costituivano pane quotidiano, tuttavia non disperavano. E visti i tempi particolarmente complicati che oggi  si ritrovano a vivere i nostri giovani – tempi forse meno bui di quelli che furono – direi che “Il quartiere” può essere letto come un inno alla speranza.

martedì 5 luglio 2016

La solitudine della città



Esiste un vecchio pregiudizio duro a morire, secondo cui  chi oggi sceglie di vivere in maniera poco “visibile”, in una condizione di solitudine – direi quasi da eremita - chi non si fa vedere in giro e sceglie il silenzio al rumore, i ritmi più lenti alla vita frenetica, sia da considerare un misantropo, uno poco portato ai rapporti interpersonali ed alle amicizie. E’ un’idea davvero bislacca pensare che una persona che si ritiri in campagna - e quindi al di fuori di un contesto urbano – abbia necessariamente un carattere introverso e poco incline alla socialità, al divertimento, al confronto con gli altri. Come se la sola presenza di una moltitudine di persone in un determinato posto possa, come per incanto, garantire felicità e conoscenze. Secondo Leopardi il vero misantropo non è colui che si isola dal mondo, ma chi invece vive tra gli uomini. Infatti così scriveva: “Chi pratica poco cogli uomini, difficilmente è misantropo. I veri misantropi non si trovano nella solitudine, si trovano nel mondo. Lodan quella, si bene; ma vivono in questo. E se un che sia tale si ritira dal mondo, perde la misantropia nella solitudine”.

Sapeste quante volte mi sono trovato a passeggiare in una qualsiasi strada superaffollata del centro di Roma e sentirmi completamente isolato ed abbandonato, attanagliato da una sorta di solitudine angosciante! E sapeste, invece, quante altre volte mi è capitato di trovarmi da solo nella mia campagna, nel Cilento, o di passeggiare lungo una stradina appartata di paese, e non sentirmi mai solo, non avvertire quello strano isolamento che percepisco girando tra la folla anonima di una città durante un pomeriggio di una qualsiasi domenica. E che dire, poi, di quei vecchietti di città che trascorrono le loro lunghe giornate seduti su una panchina all’interno di qualche prato spelacchiato di periferia, tormentati dalle macchine, dallo smog, nascosti dagli enormi cartelloni pubblicitari che tolgono loro anche la poca aria che respirano. Che pena mi fanno, quanta tristezza mi procura una simile visione! Eppure, la stessa immagine di vecchiaia, le stesse persone anziane sedute a chiacchierare sul sagrato della chiesetta del loro paese, mi trasmettono altri sentimenti, altre sensazioni. E sono sensazioni di serenità e di tranquillità.

Direi che è fondamentale il contesto in cui avvengono e maturano i rapporti umani, in cui si manifestano le relazioni sociali, gli incontri ed il confronto con gli altri. Salutare uno sconosciuto che incroci mentre percorri in bicicletta un viottolo di paese, non è come incontrare il tuo simile su un autobus affollato nell’ora di punta: nel primo caso avverti sentimenti di amicizia e di solidarietà nei suoi confronti, nel secondo, invece, scopri amaramente di detestarlo perché è attaccato a te come una sardina in scatola, non ti fa viaggiare comodo e ti dà fastidio. A volte ho l’impressione che la città mi allontani dagli uomini e che la campagna, al contrario, mi avvicini ad essi.