martedì 26 maggio 2015

Segnali di vecchiaia



Preferisco servirmi dei mezzi pubblici quando giro per Roma: il traffico caotico ed i parcheggi spesso introvabili scoraggiano l’uso della macchina privata. E così l’altro giorno, dovendo spostarmi per sbrigare alcune faccende, ho preso il solito autobus sotto casa che, stranamente, non era affollato come sempre. Ero appena salito, quando mi sono sentito apostrofare da una giovane donna di circa 35/40 anni, seduta davanti a me: “scusi, signore, vuole accomodarsi?”. Nel sentire queste parole (che di solito si rivolgono ad una persona anziana), ho avuto un primo immediato imbarazzo, misto a sorpresa: ero diventato, a mia insaputa, un matusalemme che non si regge più in piedi. Comunque, mi sono ripreso con un sorriso e nel declinare garbatamente l’invito, esprimendo tutta la mia gratitudine alla gentile signora per il favore accordatomi, devo confessare che ho avvertito una strana ed amara percezione, quella cioè che ti fa sentire improvvisamente il peso della vecchiaia, a cui tu non avevi mai pensato.
Si, perché era la prima volta che qualcuno – e per giunta una donna – aveva colto la necessità di cedermi il posto sull’autobus. E ciò mi aveva molto colpito, prima ancora che impensierito. E’ come quando ti succede una cosa che non ti aspetti o che vieni percosso alle spalle senza poterti difendere. Forse voi starete sorridendo, eppure il fatto contiene tutti i segni del “dramma psicologico” che si stava consumando su quella linea urbana. Posso capire se fossi salito con le stampelle, o fossi stato un portatore di handicap, indicazioni queste che in un paese civile spingono delle persone - altrettanto civili - che siedono su un autobus, ad alzarsi per cedere il posto  al malcapitato viaggiatore bisognoso di assistenza. Devo inoltre aggiungere che ero pure vestito in maniera sportiva, con scarpe da ginnastica e occhiali da sole. Insomma, credevo di essere una persona in buona salute, ancora giovane e scattante, non appesantita né dagli anni (che comunque avanzano) né dagli stravizi alimentari; possibile che apparivo così malandato agli occhi di quella viaggiatrice, da toccare le corde della sua benevolenza? Possibile che mi abbia visto come un vecchietto che ha perso la badante? Avrei voluto ribadire a quella gentilissima ed educatissima signora o signorina che, in fondo, non sono poi così vecchio da non poter stare in piedi su un autobus, peraltro mezzo vuoto, e che prima di adottare tali apprezzabili e doverosi comportamenti, sarebbe bene verificare la reale necessità del gesto, con un’osservazione più approfondita della persona cui ci si rivolge,  onde evitare spiacevoli equivoci. Ma, naturalmente, ho desistito per non passare per il solito “vecchio maleducato”. E mentre rimuginavo questi pensieri, in preda al mio sconforto, continuavo a rimirarmi nel vetro della porta dell’autobus - che per l’occasione fungeva da specchio - al fine di rintracciare sul mio volto quei segni del tempo che avevano indotto in errore la bene educata passeggera. La quale, ogni tanto mi osservava di sottecchi, convinta che alla prima frenata brusca dell’autobus sarei stramazzato per terra. Per fortuna è scesa prima di me e, nel salutarla e ringraziarla ancora una volta con un largo sorriso, mi sono finalmente seduto al suo posto. Anche se non ne avevo alcun bisogno.

Alla fermata successiva è salita – tra le altre persone - una signora che dall’aspetto appariva molto più giovane di me. Da buon cavaliere e da persona educata quale sono, le ho ceduto immediatamente il posto. E la signora, accettando di buon grado, mi ha ringraziato per la cortesia, ristabilendo così quella situazione di normalità che mi vede su un mezzo pubblico - come da sempre - cedere il mio posto alle persone anziane e alle donne, piuttosto che riceverlo.

lunedì 18 maggio 2015

La libertà di non finire un libro



Tante sono le ragioni che inducono ad abbandonare la lettura di un libro prima della fine: una storia scialba che non ci appassiona, una scrittura concepita con i piedi piuttosto che con la testa, un’assenza totale di stile oppure uno stile che si allontana dalle nostre attese. Senza contare, poi, le vicissitudini personali, lo stato d’animo di quel particolare momento che influiscono, non di poco, sulle nostre preferenze letterarie. Ebbene, in questi casi, forse è meglio lasciar perdere e, se proprio vogliamo ritentare, è bene aspettare tempi più favorevoli. Tuttavia, non si può negare che a volte tale resa generi una vaga sensazione di sconfitta. Si, perché quel libro che sto per abbandonare l’ho scelto proprio io, magari dopo averlo pure sfogliato in libreria, nessuno me lo ha imposto; avevo iniziato a leggerlo con la solita sicurezza, ma…dopo un po’ di pagine, comincio ad avvertire uno strano affaticamento che mi impedisce di andare avanti, nonostante quel continuo ritornare alle pagine precedenti per riannodare i fili del racconto. Mi accorgo che sto leggendo meccanicamente senza capire: e allora lascio perdere. Pur avendo la strana impressione che quel libro merita di essere letto e, se non riesco ad andare avanti, è solo colpa mia non dell’autore che l’ha scritto.
Avevo letto sul Corriere della Sera - qualche tempo fa – l’appassionante recensione di Pietro Citati (maestro insuperabile nel magnificare o nello stroncare libri e scrittori), del romanzo “La storia di Matilde” di Giovanni Mariotti (uno scrittore che non conoscevo), pubblicato da Adelphi nel 2003. Poco noto al grande pubblico dei lettori, questo autore, nato a Pietrasanta in provincia di Lucca, desidera essere ricordato – come lui stesso ha avuto modo di affermare in una intervista – “come una persona gentile che ha attraversato la vita senza nuocere troppo agli altri e che è stato condizionato da due influenze tiranniche: quella del bisogno e quella della timidezza”. Scriveva Citati nella sua recensione che la storia di Matilde “è il più bel romanzo italiano che sia stato scritto negli ultimi vent’anni”. Si può mai rimanere indifferenti al cospetto di una simile attestazione pronunciata da un intellettuale così autorevole? “E’ un immenso romanzo-fiume, una specie di Guerra e Pace della Lucchesia – diceva ancora Citati - Vi passano 4 generazione, dal 1850 ai giorni nostri:  vi si concentrano decine di piccoli personaggi e milioni di finissime sensazioni che coincidono con la vita umbratile e nervosa dell’universo (…) e quando chiudiamo il libro, pieni di lacrime e di sorrisi come vuole l’autore, ci accorgiamo che la nostra vita contiene un vastissimo spazio, un arioso e misterioso universo, che prima non possedeva”. Queste accattivanti parole, riferite ad un libro scritto da un autore in controtendenza, così lontano dagli stereotipi alla moda, avevano acceso la mia curiosità e la mia fantasia; e siccome non riuscivo a trovare il romanzo in nessuna libreria, ne ho fatto richiesta all’Editore, senza avere la possibilità di “saggiarlo” visivamente in anteprima. La sorpresa è arrivata quando ho iniziato a sfogliarlo: 220 pagine senza alcuna punteggiatura, un interminabile fiume di parole. Mi sono bloccato verso la ventesima pagina, con un senso di soffocamento e quasi in apnea. Ammetto la mia sconfitta. Probabilmente non era il momento adatto per proseguire una simile sperimentale lettura. Quando leggo ho bisogno di pause che solo la punteggiatura riesce a darmi.

Devo dire, però, che nonostante questa iniziale difficoltà, non ho nessuna intenzione di abbandonarlo definitivamente. Il libro è scritto molto bene e quindi merita un nuovo tentativo. L’ho riposto nella mia libreria in bella vista e prima o poi lo riprenderò. Altri libri mi resistono, come “L’uomo senza qualità” di Robert Musil o “Le onde” di Virginia Woolf, anch’essi messi da parte al primo infruttuoso tentativo di lettura.
Per concludere, mi piace qui ricordare quanto ha scritto in proposito Daniel Pennac nel suo libro "Come un romanzo": "contrariamente alle buone bottiglie di vino, i buoni libri non invecchiano. Ci aspettano sui nostri scaffali e siamo noi ad invecchiare. Quando ci riteniamo abbastanza “invecchiati” per leggerli, li affrontiamo un’altra volta. Allora possono succedere due cose: o l’incontro ha luogo o è un nuovo fiasco. Forse tenteremo ancora, forse no. Ma non è certo colpa di Thomas Mann se finora non sono riuscito a raggiungere la vetta della sua Montagna incantata”.

martedì 12 maggio 2015

Il vecchio e il mare...dalle parti di Acciaroli



E’ bello poter pensare – per un cilentano come me – che il grande scrittore americano Ernest Hemingway abbia scritto uno dei suoi libri di maggiore successo, “Il vecchio e il mare”, ispirandosi ad un luogo come Acciaroli, dove lui soggiornò per un po’ di tempo nella prima metà degli anni ‘50, attratto dalla bellezza del suo mare e conquistato dalla saggezza dei suoi pescatori.
E’ da tempo che volevo leggere questo libro per trovare, tra le sue pagine, qualche impronta che mi riconducesse – per puro spirito campanilistico - a quel magnifico borgo marinaro, che mi restituisse la prova su quanto è stato scritto intorno a questa vicenda letteraria. E’ pur vero che a volte un luogo, proprio al fine di conquistare una maggiore notorietà, provi a sfruttare in qualche maniera la fama del personaggio che vi ha soggiornato, per un positivo ritorno di immagine. Ma io credo che non sia il caso di Acciaroli in quanto la bella località della costa cilentana, grazie soprattutto al suo mare ed alle sue politiche ambientali in difesa del territorio, da oltre dieci anni si fregia della “Vela Blu”, il prestigioso riconoscimento di Legambiente. E quindi non ha bisogno di tali suggestivi sostegni per farsi riconoscere ed apprezzare. Anche se il ricordo di un ospite così illustre non si può cancellare e resta vivo nella memoria del posto.

Pare - secondo la testimonianza di chi ebbe l’occasione di conoscere Hemingway in quegli anni - che quell’eccentrico americano trascorresse le sue giornate standosene seduto di fronte al mare, con la sua immancabile bottiglia di whisky, scrivendo e chiacchierando con i pescatori del luogo. Ed è proprio un vecchio pescatore il protagonista principale del racconto “il vecchio e il mare”.
Si chiamava Santiago: un nome certamente inusuale per il Cilento; ed era “un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni ormai che non prendeva un pesce”. Questo l’incipit del libro che – ahimé – tende ad allontanarmi da Acciaroli, dal suo mare e dalla sua gente. E un po’ mi disorienta. Ma io voglio credere – nonostante tutto – che Hemingway si sia ispirato proprio ad un pescatore acciarolese quando iniziò a scrivere il suo romanzo. E’ vero che l’ambientazione narrativa mi porta in una realtà diversa, però mi rifiuto di pensare che lo scrittore americano non sia stato suggestionato dalla esperienza di vita di quegli uomini che lui incontrava tutti i giorni e con i quali si intratteneva in amichevoli ed appassionate discussioni. E’ impossibile che non abbia afferrato - durante le sue lunghe giornate trascorse in riva al mare - un gesto, uno sguardo, una espressione di qualche vecchio pescatore cilentano intento a sbrogliare dai nodi la sua rete, per forgiare poi la personalità di Santiago, il suo vecchio uomo di mare, protagonista del suo romanzo.

La storia narrata è molto semplice, in linea con lo stile letterario che presenta una scrittura scarna, essenziale, immediata come la vita stessa di un qualsiasi uomo di mare. Santiago è un pescatore che da circa tre mesi non riesce a catturare neanche un pesce. Un giorno, da solo (il giovane aiutante lo ha lasciato), si avventura in alto mare; questa sua decisione di tentare qualcosa di speciale viene premiata perché al suo amo abbocca un enorme pescespada. Tra il vecchio e la sua preda – forse entrambi uniti da uno stesso destino - inizia una dura lotta che si protrae per circa tre giorni, durante i quali il gigantesco pescespada riesce a trascinare l’imbarcazione verso il largo. Alla fine il vecchio, ferito alle mani a furia di tirare la lenza ed ormai allo stremo delle forze, riuscirà a vincere la sua personale battaglia sul mare ed a rientrare sano e salvo al porto. Ma il bottino si rivelerà molto scarso, perché di quell’enorme pesce catturato non resterà che la testa e la lisca: gli squali se l’erano completamente divorato lungo il tragitto.
Emerge dal racconto, su cui aleggia una lieve malinconia, l’eterno rapporto dell’uomo con la natura e la sua millenaria lotta per la conservazione. Una lotta che nel libro appare sempre entro i limiti della correttezza e della lealtà, che si può sintetizzare con queste parole: “non hai ucciso il pesce soltanto per vivere e per venderlo come cibo – pensò Santiago - l'hai ucciso per orgoglio e perché sei un pescatore. Gli volevi bene quand'era vivo e gli hai voluto bene dopo. Se gli si vuol bene non è un peccato ucciderlo”. Una lezione di vita da tenere sempre in mente che ci ricorda di rispettare l’animale in ogni occasione, anche quando le naturali esigenze di sopravvivenza della nostra specie impongono la sua inevitabile soppressione.

mercoledì 6 maggio 2015

Una gara per la conquista del cielo





Ve lo ricordate l’Empire State Bulding di New York ? E’ stato fino agli anni settanta il grattacielo più alto del mondo con i suoi 381 metri di altezza e 103 piani; perse il suo primato dopo 41 anni, nel 1972 (era stato inaugurato nel 1931) in favore delle Torri Gemelle, alte entrambe 417 metri con 110 piani (distrutte, come tutti sappiamo, dall’attentato terroristico dell’11 settembre 2001). Quel primo storico grattacielo è ancora adesso uno dei simboli dell’America; tuttavia al confronto con altri edifici, sempre più alti, che sono stati costruiti in questi ultimi anni nel mondo - dal Petronas Towers di Kuala Lumpur (452 m.) al Taipei 101 di Taiwan (459 m.) dal Financial Center di Shanghai (487 m.) al Abraj Al Bait di La Mecca (601 metri), l’Empire State Bulding appare come una casetta di modeste dimensioni. Oggi il guinness dei primati appartiene al Burj Khalifa di Dubai alto 828 metri e con i suoi 163 piani costituisce la più alta struttura mai costruita dall’uomo. Ma è un record, quest’ultimo, destinato a durare poco perché è in costruzione a Gedda in Arabia Saudita, sulle rive del Mar Rosso, la Kingdom Tower (la torre dell’impero) alta 1.007 metri la cui realizzazione è prevista entro il 2018. Un edificio alto un chilometro rilancia con forza questa forma di architettura come icona assoluta della modernità e del potere economico-finanziario. Evidentemente ciò che si eleva verso il cielo sembra che desti molta più meraviglia di quanta ne possa suscitare ciò che invece si allunga sulla terra. Infatti un edificio lungo un chilometro come il famoso serpentone di Corviale a Roma - una tra le opere architettoniche più controverse realizzate in questi ultimi anni nella Capitale - non può assolutamente competere, in magnificenza, con una torre di calcestruzzo+acciao+vetro alta un chilometro, in qualsiasi contesto venga immaginata: nel primo caso l’edificio allude al degrado e alla miseria, nel secondo, invece, alla potenza ed alla ricchezza.  

Oggi le megalopoli  tendono ad estendersi verso l’alto e si assiste ad una affannosa corsa, da parte degli Stati più ricchi, a costruire il grattacielo sempre più imponente di quello del vicino: una sorta di esibizione voyeuristica a chi ce l’ha più lungo. E’ la retorica muscolare delle grandi Nazioni della Terra che attraverso questo tipo di architettura in verticale ostentano la loro ricchezza e la loro potenza economica, in nome di un’astratta e feroce modernità. Per nostra fortuna l’Italia arranca in queste progettazioni e non partecipa in maniera schizofrenica a questa gara di gigantismo architettonico. La maggior parte dei nostri grattacieli sono stati costruiti a Milano e Napoli, però ci siamo fermati ad altezze più ragionevoli. Se non sbaglio l’edificio più alto d’Italia credo sia la Torre Unicredit di Milano che conta 32 piani ed è alta 231 metri (146 + 85 della guglia). Davvero una “piccola torre” se la confrontiamo con quegli immensi edifici realizzati in altre parti del mondo, sopra menzionati. D’altra parte c’è da dire che costruire grattacieli in una grande città non costituisce un’azione giustificata e non asseconda nessuna reale necessità abitativa, considerato il calo demografico che si verifica nel nostro paese; se ciò avvenisse, significherebbe solo adottare un modello “vincente” di urbanizzazione, sinonimo di modernità, adeguandosi così alle scelte architettoniche e socioculturali in vigore in altre parti del mondo.

E allora mi viene da pensare: che vadano pure sempre più in alto, questi Americani e questi sceicchi degli Emirati arabi, che ostentino in egual misura la loro ricchezza attraverso tali simboli fallici che svettano tra le nuvole. E teniamoci le nostre cupole, i nostri campanili, i nostri templi e le nostre torri medioevali che non “si elevano” verso il cielo come mostri di acciaio, ma che invece “ci elevano” con la loro perfezione al di sopra delle brutture quotidiane. Perché si può guardare il mondo dall’alto in basso non solo stando appollaiati al centesimo piano di un grattacielo, ma anche e soprattutto fermandosi di fronte a quelle cupole, a quelle torri e a quei campanili che nel passato furono scelti - con un’apposita normativa o anche solo per buon senso - come misura limite dell’altezza consentita a qualsiasi altro edificio. Così come la Torre pendente di Pisa o la torre degli Asinelli di Bologna, la guglia del Duomo di Milano o il campanile di San Marco a Venezia, la cupola di San Pietro a Roma o quella del Brunelleschi a Firenze. Ma l’elenco sarebbe lunghissimo e non basterebbe un grattacielo moderno per contenere tutti i nomi dei nostri antichi edifici. Una misura convenzionale, quella stabilita nel passato, che – come scrive Salvatore Settis “incarnava (e in piccola misura incarna ancora) un’etica del self-restraint, un’idea di città unitaria e dotata di memoria, di un’anima, di un progetto. Capace di pensare se stessa”. Simbolizzava, mi permetto di aggiungere,  una sorta di condotta morale che non lacerava affatto il territorio in cui venivano inserite tali opere ma che tendeva piuttosto ad abbellirlo ed a renderlo più umano e vivibile.