Non riesco a seguire le tante
storie di omicidi di cui si occupano quotidianamente tutti i mezzi di
informazione, tantomeno sono attratto dai libri polizieschi, rientranti nella
cosiddetta “letteratura gialla” . I serial killer, i morti ammazzati, i
commissari di polizia, gli indizi per scoprire l’assassino, non mi hanno mai
appassionato. Per me la letteratura è altro.
Tuttavia, avevo trovato su un
banchetto dell’usato, tempo fa, un romanzo di George Simenon - il principe dei
giallisti - che si intitola “L’uomo che guardava passare i treni”, nella bella
edizione “la biblioteca di Repubblica”. Ricordo che mi aveva colpito innanzitutto
quel titolo che evocava il treno e - da buon ex dipendente delle Ferrovie dello
Stato - lo presi senza indugio, salvo poi abbandonarlo tra quelli che aspettano
di essere letti. Finalmente mi sono deciso, grazie anche ai consigli di un
amico blogger, lettore entusiasta e
impenitente dello scrittore belga, l’inventore del famoso Commissario Maigret. Quest’ultimo,
però, non ha nulla a che vedere con il libro di cui parlo. Simenon, ne “L’uomo
che guardava passare i treni” ha posto al centro dell’analisi un altro
protagonista della sua sterminata produzione letteraria: Kees Popinga. Costui è
un agiato quarantenne olandese che vive in una bella casa a Groninga “una cittadina casta” dove lavora come
impiegato in una ditta di forniture navali. E’ sposato ed ha due figli, conduce
una vita normalissima ed abitudinaria - praticamente casa e ufficio - non beve
alcolici, va a letto presto, si concede una partita a biliardo di tanto in
tanto e non ha mai tradito sua moglie, tranne che col pensiero. Le sue fantasie
erotiche inconfessabili, infatti, sono segretamente rivolte alla moglie del suo
datore di lavoro, oltre che a Pamela, una formosa prostituta della zona. Però
non ha mai avuto il coraggio di andare oltre. “L’umiliazione più grande, per Kees – dice la voce narrante del
libro - era di non aver mai osato”. Il
massimo della sua dissolutezza, se così si può dire, il nostro personaggio la
provava ogni qualvolta vedeva passare un treno nella notte, con i vagoni letto,
le luci abbassate e le tendine calate sul mistero dei viaggiatori: in quel
momento percepiva una sorta di furtiva emozione - di cui quasi si vergognava – fino
a turbarlo, nell’immaginare chissà quali storie licenziose si potessero nascondere
dietro quelle tendine di quel treno che sfrecciava nel buio della notte.
Questo tran tran quotidiano durava
ormai da circa quindici anni e da altrettanti, sia Kees che la moglie, “erano irrigiditi negli stessi atteggiamenti”.
Nulla pareva cambiarli e scuoterli da quell’immobilismo. Lui si compiaceva della
sua immagine dignitosa e impassibile di buon olandese e di buon padre di
famiglia sicuro di se, andava fiero della sua onorabilità e della sua virtù.
Tanto che “…avrebbe scrollato le spalle
se gli avessero detto che la sua vita sarebbe cambiata di punto in bianco, e
che quella fotografia sulla credenza, che lo ritraeva in piedi tra i familiari,
una mano distrattamente poggiata sulla spalliera di una sedia, sarebbe stata
riprodotta da tutti i giornali d’Europa”. Ma spesso l’imponderabile è dietro
l’angolo e, nella fattispecie, si manifesta, all’improvviso, con il fallimento
della ditta in cui lavora che pone il protagonista del libro di fronte alla
prospettiva di un suo inevitabile tracollo economico; pensiero, questo, che lo
sconvolge e gli fa perdere completamente la testa. Allora, Popinga abbandona la
famiglia, ammazza la prostituta Pamela perché, alla sua richiesta, lo aveva deriso e
fugge a Parigi con un treno della notte, dove inizia un lungo vagabondaggio per
le strade della città, in mezzo alla folla che gli passa accanto ignara, sfidando
la polizia e scrivendo lunghe lettere ai giornali per raccontare la sua verità
e smentire le false notizie riportate dagli stessi giornali. “Non sono né pazzo né maniaco – scrive
in una di queste lettere – solo che a
quarant’anni ho deciso di vivere come più mi garba senza curarmi delle convenzioni
né delle leggi, perché ho scoperto un po’ tardi che nessuno le osserva e che
finora sono stato gabbato”.
“L’uomo che guardava passare i
treni” si è rivelato un ottimo romanzo, scritto con una prosa chiara ed essenziale,
con tempi di attesa e di suspense molto efficaci. La cosa che sorprende è che
la narrazione si allontana dallo schema classico del giallo, dove immancabilmente
si è in presenza di un omicidio e non si conosce l’assassino. In questo libro,
invece, l’assassino lo conosciamo subito, fin dalle prime pagine, e su di lui
si concentra tutta l’attenzione dello scrittore e la sottigliezza della sua analisi
psicologica nel descrivere i mostri ed i fantasmi che lo divorano. Ne viene
fuori un personaggio memorabile, dalle molteplici sfaccettature, che si lascia
osservare e giudicare con distacco e disincanto, a volte quasi con benevolenza
e mai con orrore, nonostante abbia commesso un delitto e ne abbia tentato un
secondo. Un personaggio, quello uscito dalla penna di Simenon, che fa
riflettere sugli abissi più reconditi della psiche umana e ci accompagna in un
finale velato di struggente malinconia.