Tra gli scrittori italiani che, più
di tutti, hanno lasciato dentro di me un segno profondo c’è sicuramente Italo
Svevo, uno dei maggiori narratori che il nostro paese abbia avuto. I suoi tre
romanzi più noti, “Una vita”, “Senilità” e “La coscienza di Zeno” - una sorta
di trilogia narrativa con cui l’autore triestino ha scrutato l’animo umano
attraverso un approccio introspettivo - mi accompagnano da sempre ed in
particolare da quando, giovanissimo – era il 1976 – arrivai per motivi di
lavoro nella sua Trieste che fa da sfondo alla sua narrazione. Mitteleuropea e
plurietnica, crocevia di commerci e di culture, famosa ai più per la bora, le
grandi assicurazioni e i caffè storici, ricordo che, prima ancora di innamorarmi
di questa città, così diversa dalle altre e così lontana - per usi, cultura e
costumi - dal mondo agreste e contadino che avevo lasciato al Sud, mi lasciai
sedurre dai libri del suo illustre cittadino. Libri che ancora oggi, a distanza
di tempo, continuo a rileggere perché, tra quelle pagine, io ritrovo i miei
stati d’animo, le mie malinconie. Le mie inadeguatezze.
I suoi tre romanzi più
importanti, dicevo, con i suoi tre principali protagonisti incardinati in storie
apparentemente diverse, in verità sembrano raccontare sempre lo stesso personaggio,
vero stereotipo sveviano: l’inetto, l’incapace che si sente inadatto a vivere e
relazionarsi con gli altri e, pertanto, si lascia vivere in maniera abulica e
oziosa. E’ stato detto che Italo Svevo ha scritto tre volte il medesimo libro e
basta leggerne uno per scoprire anche gli altri. E’ come se avesse percorso tre
tappe narrative diverse scrutando sempre lo stesso uomo: irresoluto,
rinunciatario, malato immaginario, insicuro, tormentato, instabile. Ognuno
incarna qualcosa che appartiene agli altri; le loro vite sembrano intersecarsi
ed amalgamarsi a vicenda, fondersi in un unico soggetto. Sembra quasi che l’Alfonso
Nitti di “Una vita” si trasformi, con il passare del tempo nell’Emilio
Brentani di “Senilità” per diventare, a sua volta, Zeno Cosini nel
terzo e ultimo romanzo “La coscienza di Zeno”, libro, quest’ultimo, che
rappresenta il coronamento di un percorso interiore, umano e psicologico, uno
scavo introspettivo che ci conduce senza ombra di dubbio al suo alter ego:
Ettore Schmitz in arte Italo Svevo.
Eugenio Montale, nella sua bella
prefazione a “La coscienza di Zeno” – libro che ho riletto con rinnovato
piacere in questi giorni, nella storica edizione Dall’Oglio del 1976 - ha
scritto che “non esiste uno scrittore più italiano di questo triestino che
si è formato in Germania ed ha trascurato i nostri classici. E non esiste
moderno narratore nostro che più di lui abbia allargato la conoscenza
dell’anima umana. Tanto importante è stato il suo scandaglio che i suoi
immediati successori ne hanno subìto il contagio, e non solo tra i triestini…”
Zeno non sembra estraniarsi
dalla vita, come fanno gli altri personaggi sveviani, ma vi si immerge con tutte
le sue manchevolezze. Ma chi è questa figura letteraria attraverso la quale
possiamo, noi lettori, fare autoanalisi senza accomodarci sul lettino di uno
psicanalista? Egli appartiene a una buona e ricca famiglia della borghesia
triestina, è un uomo abbastanza intelligente, vive in una bella villa con
servitù, ha un segretario tuttofare che gestisce i suoi affari e non avverte nessun
desiderio di lavorare. E’ ipocondriaco. “La malattia – dice – è una
convinzione” e lui nacque “con quella convinzione”. E, giunto alle
soglie dei cinquant’anni, su consiglio del suo medico psicanalista, inizia la
stesura di un diario retrospettivo, una sorta di confessione a scopo
terapeutico, cercando nel contempo di smettere di fumare, un vizio che lo
assilla da sempre. All’inizio di questa sua avventura ha un solo e urgente desiderio:
sposarsi. Non per un bisogno di amore, o di affetto o di compagnia, ma per “stanchezza”.
Forse stanchezza della vita monotona che conduce. E per questa ragione inizia a
frequentare assiduamente una famiglia della sua cerchia sociale dove sono
disponibili tre ragazze da marito. Rifiutato dalla più giovane (Alberta), che
lui vorrebbe educare al matrimonio, si invaghisce della più bella (Ada), la
quale non sembra avere nessun interesse per lui. E una sera, durante una seduta
spiritica intorno ad un tavolo, pur di conquistarla, azzarda un “piedino”, ma
il buio lo inganna e anziché sfiorare il piede desiderato, preme ripetutamente
il piede di legno del tavolo e forse anche quello della sorella (Augusta),
strabica e brutta. Respinto anche dalla bella Ada, il nostro personaggio, in
poco tempo, si ritrova sposato, senza grande entusiasmo proprio con Augusta, con
“quell’occhio sbilenco che a torto faceva credere che anche il resto non
fosse al suo vero posto”. Lei lo ama, sa conquistare con garbo il suo
rispetto e la sua stima e si rivelerà un’ottima moglie. Lui, invece - combattuto
tra la fedeltà e la correttezza della moglie e la sua relazione extraconiugale con
una giovane amante, che gli procura continui rimorsi e lo fa sentire “colpevole
e malato” - sarà accompagnato da un solo dubbio: “l’amo o non l’amo?”.
Tanto da arrivare a pensare - forse per auto-consolarsi - che il vero amore è
proprio quello “accompagnato da tanto dubbio”.
Ora, come si fa a non sorridere
di fronte all’episodio del piedino, uno dei tanti passaggi comici del libro che
mirano a sollecitare l’umorismo del lettore? Come si può non guardare con occhi
benevoli questo impacciato antieroe della nostra letteratura che voleva essere
commiserato, che aveva paura di invecchiare e soprattutto di morire, che
invidiava agli altri la disinvoltura e che, per soddisfare il suo “desiderio
di salute”, aveva deciso di studiare il corpo umano? E come si fa a non
volergli bene, visto che sapeva ridere di se stesso e delle cose più serie
della vita, proprio per rendere la vita più sopportabile? La vita, per Zeno,
non è un dramma, come forse lo era per gli altri personaggi nati dalla penna di
Svevo, ma una strana e curiosa rappresentazione scenica che non andava presa
troppo sul serio. "La vita - per lui - non è né brutta né bella, ma è originale...E non occorreva mica venire dal di fuori per vederla messa insieme in un modo tanto bizzarro. Bastava ricordare tutto quello che noi uomini dalla vita si è aspettato, per vederla tanto strana da arrivare alla conclusione che forse l'uomo vi è stato messo dentro per errore e che non vi appartiene". Con il suo spirito indolente
ma allegro, descritto con arguzia dallo scrittore triestino, il protagonista del romanzo racchiude molte
di quelle ambiguità esistenziali presenti nell’inconscio di ognuno di noi. In
lui ritroviamo le nostre leggerezze, le nostre ingenuità, i nostri timori, le
nostre colpe, i nostri difetti di cui spesso ci vergogniamo. Eppure, questi
lati incerti dell’esistenza lui riesce, in qualche maniera, a nobilitarli, a
conferire loro una sorta di accettabilità, raffigurazione di una commedia umano-psicologica
che sulla pagina scritta acquista un sapore particolare e va oltre ogni
possibile giudizio morale. Alla fine della lettura vorremmo abbracciarlo, il
nostro Zeno, e dirgli grazie per averci fatto compagnia con quel suo lungo monologo
interiore, con i suoi vizi e con la sua goffaggine, con la sua ironia e con il
suo candore; e dirgli grazie per averci fatto riflettere e sorridere amaramente
sulla nostra umana fragilità e per averci fatto capire che a volte un libro può
rendere felice chi lo legge, anche quando racconta l’inettitudine e
l’infelicità.