Albert Caraco è un delirante pensatore
francese, un tagliente provocatore, uno spietato osservatore della fragilità
dell’esistenza. Riesce a scrivere con lucida follia, come in trance, tutto ciò che probabilmente altri intellettuali,
pur approvando, non sarebbero in grado di fare: per paura, per non essere
additati come oscuri nichilisti, per non essere considerati catastrofisti. Si
definisce anarchico e nichilista “...e il
futuro dirà che saranno gli unici chiaroveggenti”.
Con questo suo breve scritto
filosofico che si intitola “Breviario del caos” - raggruppato in una serie di
aforismi dal ritmo martellante - celebra una sorta di canto funebre su ciò che
sta morendo: la civiltà occidentale così come si presenta oggi ai nostri occhi,
con tutte le sue contraddizioni, le sue ingiustizie, le sue aberrazioni, i suoi
falsi idoli. Si definisce un solitario e misconosciuto profeta della sua
generazione (è morto suicida negli anni settanta) “murato vivo nel silenzio anziché essere arso sul rogo”. Attraverso la sua prosa trasparente,
Caraco appare un degno rappresentante di quel pessimismo estremo e distruttivo
imperniato sulla tragicità della vita, quella vita vissuta dall’uomo moderno in
un mondo sempre più caotico e delirante “...in
un mondo che diventerà sempre più duro, più freddo, più cupo e più ingiusto”,
in città sempre più disordinate e invivibili diventate “il ricettacolo del frastuono e del tanfo...caos di edifici dove ci
ammassiamo a milioni, smarrendo le nostre ragioni di vita...”, il nostro
incubo quotidiano, assurde e violente, degne rappresentanti della negazione del
bello, così come veniva inteso nel passato “tutto
ciò che si edifica è di una bruttezza mostruosa e noi non sappiamo più
costruire templi, palazzi o tombe, piazze trionfanti o anfiteatri. A ogni passo
la vista è offesa, l’orecchio assordato e l’olfatto messo a dura prova”. E
per cambiarle, queste città, il filosofo francese dice che non abbiamo altra
scelta che distruggerle, insieme agli uomini che le abitano “...e verrà il giorno in cui plaudiremo a
quest’olocausto”.
Per Caraco la morte è sempre
presente nella vita degli uomini, è il principio che sovraintende le nostre
azioni e le nostre idee “è per la morte
che noi viviamo, è per la morte che amiamo ed è per lei che procreiamo e
sgobbiamo”.
L’autore di questo libro si
scaglia violentemente contro quella massa tracotante e meschina di uomini che lui
chiama “sonnambuli”; costoro si credono liberi ma sono invece legati, più di
quanto non desiderino e più di quanto non avvertano, manovrati e tiranneggiati
quotidianamente dal potere dominante - i nostri padroni - “che sono sempre stati nostri nemici”, a cui non conviene mai che
questa massa di uomini esca dal sonno letargico in cui è immersa, altrimenti
diventerebbe ingovernabile ed incontrollabile “...e per impedirci di riflettere ci propinano spettacoli insulsi, che
ottundono la nostra sensibilità e finiranno per guastarci il cervello...stiamo
tornando al circo di Bisanzio e così ci dimentichiamo dei nostri problemi,
senza però che questi problemi si dimentichino di noi, domani li ritroveremo, e
sappiamo già che quando saranno insolubili andremo alla guerra”.
Pronuncia parole di fuoco contro
il sovraffollamento della terra, contro quella “massa di perdizione” che sta
distruggendo il pianeta, dando la colpa e la responsabilità alle religioni, a
cui occorrono sempre più “fedeli” e agli industriali ai quali servono sempre
più “consumatori”. E questa massa di consumatori sta diventando sempre più
stupida “tra i nostri mezzi sempre più
intelligenti”. E, affinché sia possibile una restaurazione dell’uomo, un
nuovo umanesimo e quindi un nuovo mondo, è necessario che la folla, “tomba dell’umano” si estingua, e che il
mondo sia abitato da poche eletti, che daranno vita ad un nuovo ordine
planetario, perché “la salvezza non ha
più senso quando si è in molti miliardi a pretenderla”.