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lunedì 26 ottobre 2020

Se ti comparisse davanti Cesare Pavese...

 


“Siamo sinceri. Se ti comparisse davanti Cesare Pavese e parlasse e cercasse di fare amicizia, sei sicuro che non ti sarebbe odioso? Ti fideresti di lui? Vorresti uscire con lui la sera a chiacchierare?” Lo scriveva, il 6 maggio del 1938, lo stesso Cesare Pavese in quel suo diario che si intitola “Il mestiere di vivere”, nel quale lo scrittore piemontese registra avvenimenti, riflessioni, le sue più intime sensazioni. Una sorta di confessione esistenziale, spietata e compiaciuta. Ebbene, se avessi potuto rispondere a quella sua provocatoria domanda, non avrei avuto dubbi: mi sarei fidato di lui e sarebbe stato un vero piacere trascorrere una serata in sua compagnia per poter ascoltare le sue parole, così come oggi leggo e rileggo i suoi libri. Ho estrapolato da quel diario – riletto in questi giorni - alcuni suoi pensieri, rivelatori del suo modo di essere uomo e scrittore alle prese con quella multiforme occupazione che è “il mestiere di vivere”.

La vita senza fumo è come il fumo senza l’arrosto.

Ho sempre seguito impulsi sentimentali, edonistici. Su questo non c’è dubbio. Persino il mio misoginismo (1930 – 1934) era un principio voluttuario: non volevo seccature e mi compiacevo della posa.

Non ho mai lavorato davvero e infatti non so nessun mestiere.

Soltanto così si spiega la mia vita attuale da suicida. E so che per sempre sono condannato a pensare al suicidio davanti a ogni imbarazzo o dolore. E’ questo che mi atterrisce: il mio principio è il suicidio, mai consumato, che non consumerò mai, ma che mi carezza la sensibilità.

Esprimere in forma d’arte, a scopo catartico, una tragedia interiore, può farlo soltanto l’artista.

Tra i segni che mi avvertono esser finita la giovinezza, massimo è l’accorgermi che la letteratura non mi interessa più veramente. Voglio dire che non apro più libri con quella viva e animosa speranza di cose spirituali che, malgrado tutto, un tempo sentivo. Leggo e vorrei leggere sempre più, ma non ricevo ormai come un tempo le varie esperienze con entusiasmo, non le fondo più in un sereno tumulto pre-poetico. La stessa cosa mi accade passeggiando per Torino; non sento più la città come un pungolo sentimentale e simbolico alla creazione. Già fatto, mi viene da rispondere ogni volta.

In amore conta soltanto aver la donna in letto e in casa: tutto il resto sono balle, luride balle.

Eppure non riesco a pensare una volta alla morte senza tremare a quest’idea: verrà la morte necessariamente, per cause ordinarie, preparata da tutta una vita, infallibile, tant’è vero che sarà avvenuta. Sarà un fatto naturale come il cadere di una pioggia. E a questo non mi rassegno: perché non si cerca la morte volontaria, che sia affermazione di libera scelta, che esprima qualcosa? Invece di lasciarsi morire? Perché? Per questo. Si rimanda sempre la decisione sapendo – sperando – che un altro giorno, un’altra ora di vita potrebbero essere affermazione, espressione di un ulteriore volontà che, scegliendo la morte, escluderemmo. Perché insomma – parlo di me – si pensa che ci sarà sempre tempo. E verrà il giorno della morte naturale. E avremo perso la grande occasione di fare per una ragione l’atto più importante di tutta la vita.

Pensiero d’amore: ti voglio tanto bene che desidero esser nato tuo fratello, o averti messo al mondo io stesso.

C’è qualcosa di più triste che invecchiare, ed è rimanere bambini

Amare un’altra persona è come dire: d’or innanzi quest’altra persona penserà alla mia felicità più che alla sua. C’è qualcosa di più imprudente.

Per disprezzare il denaro bisogna appunto averne, e molto.

La cosa segretamente e più atrocemente temuta, accade sempre. Da bambino pensavo rabbrividendo alla situazione di un innamorato che vede il suo amore sposarne un altro. Mi esercitavo a questo pensiero. E voilà.

La morte è il riposo, ma il pensiero della morte è il disturbatore di ogni riposo.

Sono in ritardo di almeno otto anni sui miei coetanei. Solitamente essi a ventidue sono già convinti di ciò che a trenta non mi convince ancora.

Tutti gli “affetti più sacri” non sono che una pigra abitudine.

Date una compagnia al solitario e parlerà più di chiunque.

Sciocco addolorarsi per la perdita di una compagnia: quella persona potevamo non incontrarla mai, quindi possiamo farne a meno.

Passavo la sera seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia.

La letteratura è una difesa contro le offese della vita.

Perché sposarsi segna il trapasso dalla giovinezza alla maturità? Perché con quest’atto si sceglie tra le compagnie una che separa da tutte, che s’identifica con noi, che diventa l’arena circoscritta della nostra socialità onde non avere più bisogno di cercare la compagnia fuori di noi. E’ il suggello dell’egoismo che occorre per vivere moderatamente, un egoismo cui serve di scusa il fatto che si cerca dei doveri.

Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi.

Gli anni diventano lunghi nel ricordo se ripensandoci troviamo in essi molti fatti da distendervi la fantasia. Per questo l’infanzia appare lunghissima. Probabilmente ogni epoca della vita si moltiplica nelle successive riflessioni delle altre: la più corta è la vecchiaia perché non sarà più ripensata.

L’arte di vivere è l’arte di atteggiarsi in modo che le cose e le persone non abbiano bisogno d’invitarle, ma vengano a noi. Per ottenere questo non basta disprezzarle ma bisogna anche disprezzarle. Come con le donne non basta essere stupidi ma bisogna anche essere stupidi.

Il matrimonio lo prendono più sul serio gli scapoli che non i coniugati.

Siccome una donna presto o tardi bisogna piantarla, tanto vale piantarla subito.

Passare del tempo in silenzio, ringiovanisce individui e popoli.

Gli artisti sono i monaci dell’età borghese. In essi l’uomo comune vede attuarsi quella vita di contatto con l’eterno, quell’ascesi, che i villani del 200-400 vedevano nel monaco.

Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi.

La vita pratica si svolge nel presente, la contemplativa nel passato. Azione e memoria.

Nessuna donna fa un matrimonio d’interesse: tutte hanno l’accortezza, prima di sposare un milionario, d’innamorarsene.

Una beffarda legge della vita è la seguente: non chi dà ma chi esige, è amato. Cioè, è amato chi non ama, perché chi ama dà. E si capisce: dare è un piacere più indimenticabile che ricevere; quello a cui abbiamo dato, ci diventa necessario, cioè lo amiamo. Il dare è una passione, quasi un vizio. La persona a cui diamo, ci diventa necessaria.

Nel rovello che ci dà un rumore, un odore, una sensazione sgradevole – rovello improvviso e bestiale, acutissimo – è mista un’ansia gioiosa che la sensazione si ripeta, che l’autore vi torni, quasi per aver noi campo e motivo di odiarlo di più, di scattare.

Vivere in un ambiente è bello quando l’anima è altrove. In città quando si sogna la campagna, in campagna quando si sogna la città. Dappertutto quando si sogna il mare.

Non è bello esser bambini: è bello da anziani pensare a quando eravamo bambini.

Ogni sera, finito l’ufficio, finita l’osteria, andate le compagnie – torna la feroce gioia, il refrigerio di esser solo. E’ l’unico vero bene quotidiano.

E’ bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla.

Aspettare è ancora un’occupazione. E’ non aspettare niente che è terribile.

C’è un solo piacere, quello di essere vivi, tutto il resto è miseria.

La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti.



giovedì 1 ottobre 2020

Leopardi a Roma

 


Sono un estimatore della corrispondenza epistolare tenuta dai grandi scrittori del passato, un genere letterario, questo, che mi ha sempre appassionato. Non potevo, quindi, non leggere la raccolta delle oltre 900 lettere che Giacomo Leopardi scrisse ad amici, familiari e personalità del mondo della cultura tra il 1810 e il 1837: l’Epistolario. E’ il Leopardi intimo, privato, quotidiano quello che affiora dalle pagine di questo straordinario documento, un Leopardi diverso da quello che avevo conosciuto sui banchi di scuola (proprio perché non mi era stata data la possibilità di leggere nessuna di queste lettere). Direi che è un Leopardi più umano e più sensibile, che non manca di ironia: con le sue confidenze, i suoi sofferti sentimenti, la sua solitudine, le sue speranze, i suoi giudizi sulla cultura, il suo bisogno straziante di dare e ricevere amore, le sue illusioni. Leggere Leopardi, oggi – nell’era della felicità che si compra come un qualsiasi prodotto commerciale - può sembrare anacronistico, quasi un modo erudito per farsi del male; eppure io credo che nessuno, meglio di chi ha sofferto nella vita e ha saputo sublimare in arte la sua malinconia, può darci lezioni quotidiane di autentica felicità.

Molte di queste lettere, pur non essendo state scritte per essere divulgate – non penso che Leopardi, allora, avesse mai pensato di pubblicarle - sono di rara e intensa bellezza da cui traspare non solo il grande desiderio del poeta di comunicare con gli altri e, quindi, di evadere da quel “natio borgo selvaggio”, ma anche quel suo estremo bisogno di calore umano, nonostante fosse “naturalmente inclinato alla vita solitaria”. Alcune di queste lettere Leopardi le scrisse durante il suo soggiorno a Roma. E io su queste volevo soffermarmi. Aveva 24 anni quando arrivò la prima volta (nel novembre 1822), ospite dello zio materno nel palazzo Antici Mattei, dove dominavano “orrendo disordine, confusione, nullità, minutezza insopportabile e trascuratezza indicibile” . Leopardi non amava Roma e questi suoi sentimenti negativi non l’aveva mai nascosti. Rimase deluso fin dal primo momento dalla città e dalla vita che vi si conduceva. La sua prima impressione - per lui che veniva da un piccolo borgo come Recanati - fu di totale rigetto, estraneità e spaesamento e non riuscì mai, anche nel corso delle visite successive, a stabilire con la città eterna alcuna forma di partecipazione e accettazione.

Nel leggere i suoi scritti, si percepisce immediatamente il disagio che gli provoca la grande città, dove risulta difficile coltivare amicizie e rapporti di solidarietà. “Tutta la grandezza di Roma – scrive alla sorella Paolina – non serve ad altro che a moltiplicare le distanze, e il numero dei gradini che bisogna salire per trovare chiunque vogliate. Queste fabbriche immense, e queste strade per conseguenza interminabili, sono tanti spazi gittati fra gli uomini, invece d’essere spazi che contengano uomini”. Per il poeta, in un piccolo borgo ci si può anche annoiare, ma alla fine i rapporti tra gli uomini e le cose risultano proporzionati alla natura umana. Cosa che invece non può succedere in una metropoli dove “l’uomo vive senza nessunissimo rapporto a quello che lo circonda”. E arriva alla conclusione che l’unica maniera per vivere in un posto simile senza soccombere “è quella di farsi una piccola sfera di rapporti, rimanendo in piena indifferenza verso tutto il resto della società. Vale a dire fabbricarsi d’intorno come una piccola città, dentro la grande”.

Al fratello Carlo confida che da quando ha messo piede a Roma non è riuscito a godere di nessun momento di piacere; l’unico luogo che gli ha procurato una vera gioia è stato il sepolcro di Torquato Tasso, nella cappella del monastero di sant’Onofrio al Gianicolo. Infatti, in una lettera al “carissimo signor padre” Monaldo scrive: “Venerdì 15 febbraio 1823 fui a visitare il sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico piacere che ho provato in Roma”. E le donne? Per Leopardi “le donne romane alte e basse fanno propriamente stomaco; gli uomini fanno rabbia e misericordia”. E in un’altra occasione, sempre al fratello Carlo, ribadisce quel concetto sulla ritrosia delle donne romane che non si concedono neanche con uno sguardo “al passeggio, in chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi”. Leopardi si definisce “molto più disprezzatore che ammiratore” e le occasioni per confermare queste sue caratteristiche non mancano. Alla sorella Paolina scrive: “tenete per certissimo che il più stolido Recanatese ha una maggiore dose di buon senso che il più savio e più grave Romano”. Ha parole dure anche nei confronti degli uomini di cultura, i “letterati” che poi sono pure  “antiquari” i quali trascorrono la loro esistenza “d’intrigo, d’impostura e d’inganno”. In una lettera al padre rivela tutta la sua insofferenza nei loro riguardi: “io  n’ho veramente conosciuto pochi, e questi pochi m’hanno tolto la voglia di conoscerne altri. Tutti pretendono d’arrivare all’immortalità in carrozza, come i cattivi Cristiani al Paradiso…tutto il giorno ciarlano e disputano, e si motteggiano nei giornali, e fanno cabale e partiti, e così vive e fa progressi la letteratura romana”.

Si scaglia contro la megalomania dei Romani, riscontrata anche nei numerosi spettacoli che vengono allestiti in città : “pare che questi fottuti Romani – dice sempre al fratello Carlo - che si son fatti e palazzi e strade e chiese e piazze sulla misura delle abitazioni de’ giganti, vogliano anche farsi i divertimenti a proporzione, cioè giganteschi, quasi che la natura umana, per coglionesca che sia, possa reggere e sia capace di maggior divertimento”. Si lamenta, poi, con la sorella Paolina di quanto sia cara la vita in questa città “dove colla maggior quantità di danari si ha il minor numero di comodità e di beni. Gli alloggi soprattutto sono strabocchevolmente cari l’inverno. L’estate è un’altra cosa: ma Roma allora non è abitabile”. Insomma, Roma e i romani non ne escono bene da queste lettere, vengono ripetutamente e duramente bastonati dalla penna di Leopardi. Non oso immaginare cosa avrebbe mai potuto scrivere, il genio di Recanati, se si fosse trovato a visitare la Roma di oggi! E chissà come li avrebbe visti e descritti i suoi abitanti!