mercoledì 19 agosto 2015

La miglior vita



Oggi si parla tanto di immigrazione e di profughi, ebbene se fosse ancora in vita lo scrittore triestino Fulvio Tomizza – “profugo mille volte”, come è stato definito - io credo che nessuno meglio di lui potrebbe parlarci di questo drammatico fenomeno che interessa con le sue tantissime storie la realtà dei nostri tempi. Si, perché lo scrittore era nato a Materada in Istria, una terra dalle molteplici etnie, costituita da italiani, slavi e croati, una terra assoggettata nel corso dei secoli prima alla Repubblica Veneta, poi all’Impero Austro-ungarico, quindi all’Italia ed alla Jugoslavia. Apprendiamo da Wikipedia che Tomizza aveva sangue slavo nelle vene -  nonostante avesse ricevuto un’educazione italiana - e quando fu annessa alla Jugoslavia la cosiddetta Zona B del territorio Libero di Trieste (TLT), che comprendeva anche Materada, sebbene fosse legato alle sue radici in maniera quasi viscerale, lasciò a malincuore il suo paese di origine per trasferirsi a Trieste, dove visse per tutta la vita. E’ considerato uno scrittore di frontiera e l’intera sua opera narrativa è incentrata su una tematica ricorrente e dolorosa: la perdita d’identità dei profughi istriani.
Con il romanzo “La miglior vita” – che ho finito di leggere in questi giorni – Tomizza si aggiudicò il Premio Strega nel 1977. Il libro racconta la storia di un intero popolo che si ritrova a dover scegliere – non per valutazione individuale ma a causa di una suddivisione forzata, in conseguenza delle due guerre mondiali - se stare dalla parte dell’Italia o della ex Jugoslavia; e tale vicenda ci viene raccontata attraverso le vicissitudini umane del figlio di un sagrestano, Martin Crusich, sagrestano egli stesso, il quale in una piccola parrocchia dell’Istria, si prepara ad entrare nel suo incarico trasmessogli dal padre, che in punto di morte gli aveva comunicato di non abbandonare mai i preti, perché “loro sanno tutto e possono tutto”. In virtù di questo drastico ammonimento paterno, il protagonista accompagnerà, via via, il succedersi dei parroci in una singolare quanto involontaria relazione con il succedersi degli avvenimenti storico-politici interessanti la penisola istriana, ed in particolare la piccola comunità in cui vive insieme alla sua famiglia. Il romanzo si divide in sette capitoli, quanti sono i preti che si succedono nei registri parrocchiali.

Dall’avaro e insofferente Don Kuzma all’intransigente e sessuofobo Don Michele Ribari, per il quale il demonio veniva identificato con la donna; dal generoso Don Stipe, che faceva molto di più del proprio dovere sacerdotale e che non sopportava alcuna forma di volgarità, a Don Ferdinando, un veneto pronto all’aiuto in base ad un antico principio che “una mano lava l’altra”. Don Angelo è l’espressione del fascismo, un prete malvisto da tutti i parrocchiani, il cui atteggiamento negativo nei confronti delle cose e delle persone fa perdere irrimediabilmente al nostro sagrestano ciò che un prete avrebbe dovuto dargli per accrescerlo spiritualmente. Don Nino è il primo prete del posto, che aveva scelto il seminario  per tornare fra la sua gente, testimone del trattato di pace che assegnava gran parte dell’Istria alla Jugoslavia, ma incorporava il paese in un costituendo Territorio Libero con a capo Trieste. Ed infine Don Miro, benvoluto da tutti, che sancisce il confluire del paese nella Repubblica Jugoslava.
E’ un romanzo complesso, non sempre di facile lettura la cui scrittura - che si avvale anche di alcuni contributi dialettali e non indulge mai in facili orpelli - ci offre pagine di antica bellezza letteraria, seppure velate di una leggera malinconia. E’ la tristezza di una popolazione arcaica e contadina, sempre alla ricerca di una propria identità sociale e culturale; sono gli umili e gli emarginati, poveri contadini, personaggi reali o immaginari, figli di una terra accogliente e ostile, nello stesso tempo, quelli che escono dalla penna di questo narratore, il quale attraverso le vicende di una piccola comunità parrocchiale, ci racconta di guerre, di esodi forzati, di socialismo e di fascismo. Tomizza ci parla della sua gente che, attraverso i parroci che si succedevano nel corso degli anni, confidava in un Dio che scendesse tra di loro, “che non se ne stesse in chiesa ad attendere che lo si venisse a supplicare”, che fosse maggiormente a contatto, quasi fisicamente, con i luoghi dove urgeva la sua presenza. Ci parla dei delusi e dei rifiutati della sua amata terra, per i quali la morte rappresentava quasi il passaggio alla miglior vita, che paradossalmente diventava ciò che questa vita non aveva voluto loro concedere.