Oggi si parla tanto di
immigrazione e di profughi, ebbene se fosse ancora in vita lo scrittore
triestino Fulvio Tomizza – “profugo
mille volte”, come è stato definito - io credo che nessuno meglio di lui
potrebbe parlarci di questo drammatico fenomeno che interessa con le sue tantissime
storie la realtà dei nostri tempi. Si, perché lo scrittore era nato a Materada
in Istria, una terra dalle molteplici etnie, costituita da italiani, slavi e croati,
una terra assoggettata nel corso dei secoli prima alla Repubblica Veneta, poi all’Impero
Austro-ungarico, quindi all’Italia ed alla Jugoslavia. Apprendiamo da Wikipedia
che Tomizza aveva sangue slavo nelle vene -
nonostante avesse ricevuto un’educazione italiana - e quando fu annessa alla
Jugoslavia la cosiddetta Zona B del territorio Libero di Trieste (TLT), che
comprendeva anche Materada, sebbene fosse legato alle sue radici in maniera quasi
viscerale, lasciò a malincuore il suo paese di origine per trasferirsi a
Trieste, dove visse per tutta la vita. E’ considerato uno scrittore di
frontiera e l’intera sua opera narrativa è incentrata su una tematica
ricorrente e dolorosa: la perdita d’identità dei profughi istriani.
Con il romanzo “La miglior vita” – che ho finito di
leggere in questi giorni – Tomizza si aggiudicò il Premio Strega nel 1977. Il
libro racconta la storia di un intero popolo che si ritrova a dover scegliere –
non per valutazione individuale ma a causa di una suddivisione forzata, in
conseguenza delle due guerre mondiali - se stare dalla parte dell’Italia o
della ex Jugoslavia; e tale vicenda ci viene raccontata attraverso le
vicissitudini umane del figlio di un sagrestano, Martin Crusich, sagrestano
egli stesso, il quale in una piccola parrocchia dell’Istria, si prepara ad
entrare nel suo incarico trasmessogli dal padre, che in punto di morte gli aveva
comunicato di non abbandonare mai i preti, perché “loro sanno tutto e possono tutto”. In virtù di questo drastico ammonimento
paterno, il protagonista accompagnerà, via via, il succedersi dei parroci in
una singolare quanto involontaria relazione con il succedersi degli avvenimenti
storico-politici interessanti la penisola istriana, ed in particolare la
piccola comunità in cui vive insieme alla sua famiglia. Il romanzo si divide in
sette capitoli, quanti sono i preti che si succedono nei registri parrocchiali.
Dall’avaro e insofferente Don
Kuzma all’intransigente e sessuofobo Don Michele Ribari, per il quale il
demonio veniva identificato con la donna; dal generoso Don Stipe, che faceva molto
di più del proprio dovere sacerdotale e che non sopportava alcuna forma di
volgarità, a Don Ferdinando, un veneto pronto all’aiuto in base ad un antico
principio che “una mano lava l’altra”. Don Angelo è l’espressione del fascismo,
un prete malvisto da tutti i parrocchiani, il cui atteggiamento negativo nei
confronti delle cose e delle persone fa perdere irrimediabilmente al nostro
sagrestano ciò che un prete avrebbe dovuto dargli per accrescerlo
spiritualmente. Don Nino è il primo prete del posto, che aveva scelto il
seminario per tornare fra la sua gente, testimone
del trattato di pace che assegnava gran parte dell’Istria alla Jugoslavia, ma
incorporava il paese in un costituendo Territorio Libero con a capo Trieste. Ed
infine Don Miro, benvoluto da tutti, che sancisce il confluire del paese nella
Repubblica Jugoslava.
E’ un romanzo complesso, non
sempre di facile lettura la cui scrittura - che si avvale anche di alcuni
contributi dialettali e non indulge mai in facili orpelli - ci offre pagine di antica
bellezza letteraria, seppure velate di una leggera malinconia. E’ la tristezza di
una popolazione arcaica e contadina, sempre alla ricerca di una propria
identità sociale e culturale; sono gli umili e gli emarginati, poveri contadini,
personaggi reali o immaginari, figli di una terra accogliente e ostile, nello
stesso tempo, quelli che escono dalla penna di questo narratore, il quale
attraverso le vicende di una piccola comunità parrocchiale, ci racconta di guerre,
di esodi forzati, di socialismo e di fascismo. Tomizza ci parla della sua gente
che, attraverso i parroci che si succedevano nel corso degli anni, confidava in
un Dio che scendesse tra di loro, “che
non se ne stesse in chiesa ad attendere che lo si venisse a supplicare”,
che fosse maggiormente a contatto, quasi fisicamente, con i luoghi dove urgeva
la sua presenza. Ci parla dei delusi e dei rifiutati della sua amata terra, per i
quali la morte rappresentava quasi il passaggio alla miglior vita, che paradossalmente
diventava ciò che questa vita non aveva voluto loro concedere.