“Com’è difficile stare morti fra i
vivi: un astruso gioco d’infanzia è diventato, vivere, e mi tocca impararlo da
grande”
Quando lo scrittore siciliano Gesualdo Bufalino decise, nel
1981, di far pubblicare il suo primo romanzo “Diceria dell’untore” dall’editore Sellerio, aveva già sessant’anni
( nacque a Comiso nel 1920 e morì nel 1996 a seguito di un brutto incidente
stradale). Fu, il suo, un debutto letterario a dir poco clamoroso perché il romanzo,
che aveva avuto una gestazione lunghissima – Bufalino aveva iniziato a
scriverlo addirittura negli anni ‘50, ripreso poi nel 1971 con revisioni successive fino al 1981 – ottenne
immediatamente un grande successo di critica e di pubblico, aggiudicandosi il Premio
Campiello. Lessi “Diceria dell’untore” una prima volta molti anni fa, ma, lo
devo confessare, non mi entusiasmò in maniera particolare. L’idea di rileggerlo
mi è venuta guardando, alcune sere fa, un programma culturale molto
interessante (trasmesso da Rai 5) sul pensiero e le opere di questo grande scrittore,
troppo in fretta dimenticato. E devo dire che il libro, riletto oggi, mi è
apparso tanto ricco di suggestioni emotive quanto avaro lo era stato la prima
volta, a conferma del fatto che i grandi romanzi hanno spesso bisogno di tempi
e modi diversi di lettura, proprio per poterli meglio apprezzare. E’ come se leggere
un capolavoro una sola volta non bastasse a scoprirne la bellezza che si
nasconde tra le sue pagine, non fosse sufficiente a coglierne tutte le
sfumature.
La vita, con i suoi accadimenti naturali come l’amore, la
malattia e la morte, sono i grandi temi della grande letteratura. E spesso lo
scrittore attinge la materia prima per la sua scrittura da fatti realmente accaduti.
Come nel romanzo “Diceria dell’untore” per la cui realizzazione Bufalino prende
proprio lo spunto da una sua dolorosa esperienza di vita: lui, malato di
tubercolosi, era stato ricoverato in un sanatorio palermitano negli anni
immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, quando la TBC colpiva
ancora le sue vittime come nell’Ottocento. I personaggi del romanzo – in primis
la voce narrante del libro – sono vittime della guerra, reduci e rimpatriati
che vivono i loro ultimi giorni in questo luogo di sofferenza che si chiama la
Rocca, forse senza nessuna speranza di salvezza. “Una setta di sbanditi eravamo – dice il protagonista - e incapaci di amarci fra noi, o così ci
pareva, benché chi si è salvato abbia capito anni dopo ch’era vero il
contrario, e che era già amore la passione con cui s’imparava la morte degli
altri come se fosse la nostra”. La vita in comune nel sanatorio con
“l’esistenza smozzicata degli altri” si trascina lentamente con tutti i suoi
problemi fino a diventare una sorta di dipendenza dalla malattia in attesa
della morte, tanto che la guarigione veniva sentita come una colpa, una diserzione,
alla stessa maniera di come veniva vissuta la liberazione da parte dei
sopravvissuti nei campi di sterminio nazisti. “Ma se di tanti io solo, premio o pena che sia, sono scampato e respiro
ancora – recita la voce narrante - è
maggiore il rimorso che non il sollievo, d’aver tradito a loro insaputa il
silenzioso patto di non sopravviverci”.
Ma le pagine più toccanti del romanzo, quelle che più fanno
riflettere suscitando sentimenti di tristezza, sono quelle che raccontano l’amore
del protagonista per Marta (un nome così simile alla parola morte), una donna
dal passato ambiguo, una ex ballerina malata come lui, la quale riuscirà a donargli
i suoi ultimi scampoli di vita e di amore dopo una breve fuga a bordo di un
‘auto, lontano dalla Rocca. Un effimero bagno di vita normale.
Il libro presenta una scrittura davvero raffinata, colta, direi sontuosa;
l’autore usa a volte termini desueti che però hanno il sapore della cultura e
si prestano ad una dimensione espressiva di musicalità e di poesia, di rara
bellezza. Una peculiarità, questa, difficile da trovare nel panorama letterario
dei nostri tempi. Lo stile ricercato e barocco nulla toglie alla narrazione che
sa essere cruda, malinconica ma coinvolgente fino a commuovere il lettore.
L’autore, attraverso una vicenda così dolorosa riesce tuttavia a nobilitare le
pene dei suoi personaggi conferendo alle parole scritte una forte energia
vitale ed una bellezza letteraria che esaltano la lettura, indipendentemente
dal loro contenuto di tristezza. Quasi a voler sottolineare che nessuno meglio
di chi ha sofferto ed ha avuto un incontro ravvicinato con la morte sa donarci
insegnamenti di quotidiana felicità.