Sono tanti gli scrittori bravi
e dimenticati che hanno fatto la storia della letteratura italiana del
Novecento. Giovanni Arpino, morto nella sua Torino nel 1987 a soli 60 anni, è
uno di questi. Grande appassionato di calcio (scriveva anche articoli sportivi
per “La Stampa”) è autore di molti romanzi alcuni dei quali hanno vinto premi
letterari importanti quali lo Strega con
“L’ombra delle colline” e il Campiello con
“Randagio è l’eroe”.
“Un’anima persa” - il romanzo che
ho appena finito di leggere - fu pubblicato nel 1966. L’ho scovato sui
banchetti di un mercatino dell’usato (Oscar Mondadori edizione del 1974) e
credo che il libro oggi sia fuori catalogo. La vicenda narrata si manifesta al
lettore tra inquietudine e mistero avvolgendolo in un’atmosfera carica di
apprensione. Non saprei come definire questo libro, in quale ambito collocarlo:
certamente non è un horror - nell’accezione classica del termine – né un thriller,
generi questi che non mi affascinano più di tanto e che io difficilmente leggo.
Forse potrebbe essere catalogato come una sorta di giallo psicologico,
incentrato com’è sulla doppiezza dei comportamenti umani, sullo squilibrio
mentale e la forza attrattiva del male. In ogni caso, posso dire che il
racconto - che si presenta sotto forma di diario condensato in soli cinque
giorni - si legge tutto d’un fiato grazie all’abilità narrativa dello scrittore
torinese che riesce a far emergere, tra le righe, le forti tensioni emotive che
vivono i pochi personaggi della storia.
La trama: ci troviamo negli
anni ’60 del secolo scorso in una Torino spettrale nell’afa di luglio. Direi
che la città è solo sfiorata, perché la vicenda si svolge in gran parte nella
casa di due persone alquanto strane (Serafino Calandra “l’ingegnere” e sua
moglie Galla) gli zii del protagonista diciassettenne (Tino), voce narrante del
libro. Costui - che vive in un orfanotrofio da quando i suoi genitori sono morti
in un incidente stradale - arriva nel capoluogo piemontese per sostenere gli
esami di maturità classica, ospite di questi suoi parenti che non vede da molto
tempo. E’ da sempre prigioniero di oscure ed inspiegabili paure che non riesce
“ a soffocare con le sole forze della ragione”, e che si manifestano ancor di
più da quando è arrivato nella casa degli zii. Queste paure, che gli procurano un
vero scompiglio, sono generate soprattutto da strani fruscii e scricchiolii che
lui avverte soprattutto quando si trova a letto. A questa sua instabilità
emotiva si aggiunge – ora che si trova a Torino - una nuova preoccupazione: la
casa che lo ospita nasconde un doloroso dramma familiare ed umano. Lo zio,
infatti, ha un fratello pazzo - “il professore” - relegato in una stanza della
casa dove non entra mai nessuno da vent’anni, tranne lo zio che provvede
personalmente a tutti i suoi bisogni. Il nostro giovane protagonista, impaurito
e digiuno di vita reale, si ritrova suo malgrado coinvolto in una storia più
grande di lui, suggestionato dagli eventi che si susseguono rapidi e impietosi
e dai quali viene inghiottito “come un boa inghiotte un coniglio”.
Intorno a queste inquietudini
l’autore inizia a tessere magistralmente la sua tela narrativa, facendo crescere
le tensioni e introducendo improvvisi colpi di scena, legati alla
contrapposizione tra la vita apparentemente normale che lo zio fornisce agli
altri e la follia latente che alberga nel suo animo. Ci si domanda: chi è
l’anima persa? Il giovane Tino avvolto dalle sue paure irrazionali o sua zia
Galla succube del marito? Lo zio Serafino schiavo della sua doppiezza o il
fratello pazzo che nessuno ha mai visto? Sembra quasi che l’autore, con questo
libro, voglia dirci che a volte la normalità che mostriamo altro non è che una
maschera di comodo che serve a nascondere quell’identità malata che ci divora
dentro.
non conosco per nulla questo autore ma sull’identità malata che ci divora dentro potrei scrivere un trattato.
RispondiEliminabellissima recensione
Beh...se proprio dobbiamo essere sinceri, in ognuno di noi c è uno spiritello maligno che ci divora. Grazie per le tue parole
RispondiEliminaArpino è stato un grande del novecento anche se poco celebrato.
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
EliminaRicordo che Dino Risi ne realizzò un bel film nel 1977
EliminaE' vero, basta leggere i suoi libri per apprezzarlo. Non ho visto il film, se non sbaglio interpretato da Vittorio Gassman. Ciao Daniele
RispondiEliminaNon conoscevo Arpino se non per sentito dire e quindi non ho letto questo suo libro che da come lo descrivi, appare molto interessante. Il suo titolo, però, mi rimanda alle tante "anime perse" dei nostri tempi. Sono anime perse quegli uomini imbottiti di tritolo che si fanno saltare tra la folla o che sparano all'impazzata tra i banchi di un mercatino di Natale o in un locale pubblico; sono anime perse quegli uomini che conducono una vita apparentemente normale e poi ammazzano le proprie donne (mogli, figlie, fidanzate, amiche...); sono purtroppo già anime perse quegli adolescenti che "bullizzano" i propri compagni di scuola più deboli, per riprendere poi la scena con i telefonini e mandarla in rete; sono anime perse gli spacciatori di droga, i politici collusi con le organizzazioni criminali...anime perse che, come uno dei personaggi del libro, hanno tutti una doppia identità. E vivono la loro doppiezza senza scrupoli etici e morali.
RispondiEliminaPaolo
Grazie Paolo, condivido e apprezzo molto le tue parole. Quando le "anime perse " abbandonano la finzione letteraria e si materializzano tra di noi, c'è di che preoccuparsi.
RispondiEliminaUna bella recensione. Anch'io conosco Arpino solo di nome e non ne ho mai letto niente.
RispondiEliminaTi seguo con interesse!
Grazie per le tue parole. Se ti capita un libro di Arpino, leggilo. Non te ne pentirai!
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