Ci sono alcuni personaggi letterari
che godono della mia simpatia e meritano tutto il mio affetto: sono i “perdenti”,
quelli che in letteratura vengono
chiamati inetti, e che hanno difficoltà a vivere una vita cosiddetta “normale”.
Devo ammettere, pertanto, che non mi piacciono molto le persone vincenti, i
primi della classe, gli ambiziosi ad ogni costo, coloro che hanno successo e
potere e fama e soldi e conducono una vita brillante. Quelli, insomma, che
attraverso il loro esempio vogliono insegnarti a vivere. Non ci posso fare
nulla: costoro mi annoiano terribilmente. Proprio non li sopporto. Preferisco
le storie degli incerti, dei dubbiosi, di coloro che hanno sbagliato strada o
che sono sempre alla ricerca di qualcosa ma non sanno mai quale. Forse cercano
proprio sé stessi e questo loro faticoso cammino esistenziale me li rende
simpatici. Mi appassionano molto di più le vicende di uno sconfitto dalla vita
come Alfonso Nitti, descritto da Italo Svevo in “Una vita” o le
disavventure di JaKob von Gunten dell’omonimo romanzo di Robert Walser (che
voleva essere uno zero assoluto), piuttosto che le peripezie di certi
arrampicatori sociali come Duroy - il “Bel-Ami” di Maupassant - o come Mastro Don Gesualdo di Verga. E
ora, tra i miei favoriti, è arrivato anche Stoner, dell’omonimo romanzo di John
Williams.
William Stoner è un uomo che conduce una vita ordinaria, senza infamia e senza lode, si direbbe. “Era arrivato a un’età in cui, con intensità crescente, gli si presentava sempre la stessa domanda, di una semplicità così disarmante che non aveva gli strumenti per affrontarla. Si ritrovava a chiedersi se la sua vita fosse degna di essere vissuta. Se mai lo fosse. Sospettava che alla stessa domanda, prima o poi, dovessero rispondere tutti gli uomini”. E già un uomo che si pone questa domanda, merita la mia attenzione. Figlio di contadini, la vita privata di Stoner appare alquanto disastrosa: è quasi estraneo ai suoi genitori che sono rimasti da soli a lavorare la terra in una piccola fattoria vicino a Booneville, anche se questa perdita accresce l’amore che nutre per loro; è miseramente sposato con una donna che non lo ama ed ha una figlia con cui non riesce ad instaurare un rapporto sereno. Non ha grandi ambizioni, non ha veri amici, frequenta poche persone, non si aspetta nulla dalla vita, se non di svolgere il suo lavoro di professore universitario con entusiasmo e con un forte senso di responsabilità. Essenzialmente è un uomo paziente, di grande umanità, buono e remissivo che subisce gli eventi della vita e della storia senza reagire e non riesce a stabilire un rapporto appagante con nessuno. Ha una breve e intensa storia passionale con una sua studentessa, che non riuscirà a cambiare in meglio il suo tran-tran quotidiano. Coltiva, però, la sua grande passione della vita: “l’amore per la letteratura, per il linguaggio, per il mistero della mente e del cuore che si rivelano in quella minuta, strana e imprevedibile combinazione di lettere e parole, di neri e gelidi caratteri stampati sulla carta, l’amore che aveva sempre nascosto come se fosse illecito e pericoloso…”.. Questa, in estrema sintesi, la trama del libro che stroncherebbe le velleità letterarie a chiunque decidesse di scrivere un romanzo su un uomo, tutto sommato comune e banale, come Stoner. Ma non a John Williams - scrittore statunitense morto una trentina di anni fa – che ne fa un capolavoro della letteratura. Un libro cult. Ha scritto Niccolò Ammaniti che John Williams è uno di quegli scrittori che non puoi fare a meno di consigliare, perché hai la certezza che farai felice il tuo prossimo. Io devo ringraziare Sari: ne ha parlato nel suo blog Voce di vento e me l’ha consigliato. E' come se mi avesse presentato un suo caro amico che, immediatamente, è diventato anche il mio. "Stoner" è un libro di una bellezza struggente e disarmante, con un finale molto commovente. Io credo che nessuno, meglio di John Williams, abbia saputo descrivere - con parole di rara delicatezza - l’attesa della morte e l’addio alla vita di questo eroe della normalità. Mi viene da pensare, dopo averlo letto, che se ha avuto così tanto successo tra i lettori è perché un po’ di Stoner sta in ognuno di noi.
abbiamo la medesima preferenza per i personaggi perdenti, quelli che attraversano la vita stando in ombra, che hanno più pene che gioie, quelli che gli manca sempre qualcosa per emergere, sfiorano la vittoria e si inabissano. Come dici tu sono più umani e ci sono più simili. Stoner indubbiamente incarna tutto questo e non può che avere il nostro affetto, merito questo di come lo ha tratteggiato Williams.
RispondiEliminamassimolegnani
Non sono mai stato un competitivo: lo ammetto. E non so se questo mio modo di essere sia un pregio o un difetto. La competizione presuppone sempre un avversario da abbattere. Io non ne sono capace. Dirò di più: la parola avversario proprio non mi piace. Non sono incline ai duelli e più che la vittoria – che è l’obiettivo finale del competitivo - mi piace una misurata e dolce sconfitta. Mi insegna molto di più. Certo, senza sconfinare nel masochismo. Ricordo che anche quando giocavo a pallone, la felicità per me era divertirmi non vincere. E forse per questo solidarizzo con certi personaggi della letteratura i quali fanno dell’assenza la propria ragione di vita, in antitesi all’atteggiamento presenzialista della società in cui noi oggi viviamo, dove l’apparire è più importante dell’essere, dove la visibilità ha più valore della discrezione. Perciò, caro massimolegnani, teniamoci pure i nostri "personaggi perdenti" che più ci somigliano e lasciamo che i "vincenti", i primi, si crogiolino nel bagliore della vittoria. D'altra parte in una società omologata come la nostra, io preferisco stare sempre con la minoranza che resiste... e perde. Un caro saluto.
EliminaMi ha colpito molto la tua descrizione di John Williams, quale "eroe della normalità" ,una normalità che sta a quel grado di semplicità in cui il senso umano non si smarrisce, come spesso accade in certi contesti storici e sociali dove viene anteposto il proprio ego.
RispondiEliminaInoltre mi è stato impossibile non vederci in questo scritto una grande connessione con quel passo evangelico di Gesù dove gli ultimi della gerarchia sociale rappresentano coloro che non sono vissuti in funzione del successo sulla terra,ma hanno vissuto il viaggio stesso senza trascinarsi una "zavorra" dall'indole egoista, per elevarsi nel contempo spiritualmente!
È una di quelle letture che farò e di cui ringrazio te e Sari:)
L.
...e allora buona lettura e spero che sia di tuo gradimento. Ciao L.
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