Diceva
Schopenhauer che noi crediamo, talvolta, di avere nostalgia di un luogo
lontano, mentre a rigore abbiamo soltanto nostalgia del tempo vissuto in quel
luogo, quando eravamo più giovani. Così il tempo ci inganna sotto la maschera
dello spazio. E se andiamo in quel luogo, ci accorgiamo dell’inganno.
Quando
io ritorno nel mio paese nativo, nel Cilento – da cui sono andato via quando
avevo poco più di vent’anni – cerco, ma non trovo, il luogo della mia infanzia e
della mia spensieratezza. Resta solo la “nostalgia del tempo vissuto in quel
luogo”, e ogni volta sono insidiato da una lieve malinconia dovuta al “tacito
infinito andar del tempo” (parole di Leopardi) che rimanda al declino delle
cose e mi fa pensare che tutto è destinato a finire.
Come
quell’antico frantoio – ù trappìto, per noi del paese - che non esiste
più, dove le olive venivano frante da due enormi ruote di granito (dette molazze),
azionate da un motore elettrico all’interno di una grande vasca di acciaio. Luogo
di lavoro, di sacrifici, di memorie, ma anche ritrovo per noi ragazzi di paese
- nei lunghi e piovosi pomeriggi invernali, quando i compiti scolastici
potevano anche aspettare - quel frantoio si carica di valori inestimabili,
legati alla terra, alla produzione dell’olio d’oliva, alle tradizioni contadine
e al senso quasi religioso del lavoro.
Lo sento ancora nelle narici quel flusso di aria calda e quell’odore forte e
pungente di olio che mi investivano appena entravo nel frantoio. In un angolo
c’era una grande stufa di ghisa sempre accesa, alimentata con la sansa, si
chiama così il residuo secco della spremitura delle olive. Mi piaceva stare
seduto lì, su una panca in un cantuccio, ad osservare il via vai dei clienti e
dei curiosi che entravano, anche solo per stare un pò al caldo o per fare due
chiacchiere, gustando una bruschetta con l’olio nuovo. Mi lasciavano
tranquillamente scorrazzare e curiosare attraverso i locali adibiti alla
lavorazione (oggi sarebbe una cosa impensabile), e ricordo che non mi stancavo
mai di osservare quelle due gigantesche macine che giravano e giravano,
schiacciando le olive. Fino ad ottenere una morbida pasta che poi veniva
spalmata su dei dischi di corda (i fiscoli), impilati uno sull’altro su
una pressa idraulica. Da quella pressatura usciva, poi, un liquido scuro che
veniva convogliato in una vasca e ulteriormente lavorato da una centrifuga (il separatore)
con la funzione, appunto, di separare l’olio dall’acqua. Rimanevo affascinato
da quella ritualità artigianale, da quel movimento operoso di macchine e di
uomini, dalla gestualità degli operai e dal linguaggio che gli stessi usavano.
Ricordo ancora l’anziano signore addetto al separatore, lo chiamavano
Don Antonio: era il padrone del frantoio, un uomo alto e asciutto, con i
capelli bianchissimi che incuteva timore. Era il primo ad assaggiare l’olio
nuovo con un dito, e poi ci chiamava a raccolta, sorridendo, per farlo assaporare
anche a noi su una fetta di pane. Eravamo felici di partecipare a quel rito. Di
stare lì, in quel luogo, che assicurava una sorta di familiare protezione E
ancora più felice appariva lui, il capo del frantoio: Don Antonio, che dirigeva
questa sua creatura a gesti, senza parlare, come un maestro d’orchestra. Quel colore
verde intenso dell’olio appena spremuto, quel profumo inebriante, quel sapore
asprigno, tutte quelle sensazioni mi sono rimaste impresse nella mente. E mi
sento un privilegiato per aver vissuto certe
esperienze formative, precluse ai ragazzi di oggi che abitano in città.
Come
ogni anno, di questi tempi, ritorno al paese per la raccolta delle olive. La
mia grande passione. Ho ereditato da mio padre un piccolo terreno agricolo
situato in collina, con diversi ulivi secolari ed altri più giovani piantati
dal sottoscritto, oltre trent’anni fa. Il raccolto lo trasporto - ogni due/tre
giorni - nel piccolo frantoio non lontano dalla mia campagna. E’ un impianto
moderno che usa macchine molto sofisticate con frangitori a dischi rotanti, a
controllo elettronico: niente a che vedere con le macine in pietra…i fiscoli…la
pressa idraulica. Anche il frantoio ha subito, in questi ultimi anni, un
processo di trasformazione non dissimile da tutti gli altri contesti
produttivi. Nuove macchine che consentono la lavorazione di una maggiore
quantità di olive, limitando l’esposizione delle stesse agli agenti atmosferici
e preservandone le proprietà organolettiche, per una migliore qualità dell’olio
prodotto. Nel frantoio non ci sono più ragazzini spensierati che girano tra i
locali, manca la stufa accesa con la sansa, non ci sono i “perdigiorno” per
fare quattro chiacchiere e assaggiare l’olio nuovo sulla bruschetta. Tutto
funziona alla perfezione, i locali sono quasi asettici, rispetto a quelli di
antica memoria, le lavorazioni sono tutte meccanizzate. Al posto del vecchio
frantoiano alla Don Antonio, c’è un giovane imprenditore che ha studiato
scienze agrarie ed alimentari e manovra le sue macchine con un computer. Il suo
compito è quello di ottenere il migliore olio possibile, nel rispetto del
territorio e delle tradizioni: e devo dire che ci riesce molto bene. L’evoluzione
della tecnologia ha portato migliori condizioni di lavoro anche in questo
settore, ed una qualità superiore del prodotto finale, questo nessuno lo mette
in dubbio. Ma resta intatto il fascino per quei vecchi frantoi di una volta,
custodi e testimoni di antichi saperi che
ci permettono, ancora oggi, di rivivere le tradizioni rurali dei nostri
antenati.
Il nuovo frantoio tecnologico ha un unico difetto irrimediabile: non è più il frantoio della tua infanzia (bellissima la descrizione degli odori, rumori, calore e sapori del vecchio frantoio)
RispondiEliminamassimolegnani
E' vero, il frantoio tecnologico non è quello della mia infanzia: è quello della mia maturità e della mia vecchiaia. :) Li ho conosciuti entrambi. Certo, per un ragazzino è molto più interessante guardare due enormi ruote di pietra che girano e schiacciano le olive, piuttosto che una macchina super tecnologica, ermeticamente chiusa, azionata da un computer, la quale neanche te le fa vedere, le olive. Però, alla fine, ti concede un ottimo olio, probabilmente migliore di quello che si otteneva nel passato. Diciamo che abbiamo perduto - con la tecnica - rapporti umani e...poesia...e immaginazione :)
EliminaUn caro saluto
Mi hai riportato con delicatezza a un passato di tradizioni autentiche e di profumi d’ulivi. Hai saputo catturare l’anima del paesaggio rurale, dove ogni gesto ha una sua ritualità e ogni persona contribuisce a mantenere viva una cultura antica. La descrizione del frantoio non è solo visiva, ma sembra quasi di sentirne i suoni e i profumi. La narrazione mi ha fatto riflettere su quanto sia prezioso preservare e raccontare queste storie, che sanno di terra e di vita genuina. A proposito di frantoi: la mia terra è ricca di frantoi, anche ipogei. Un caro saluto!
RispondiEliminaIl percorso di ogni esperienza di scrittura è proprio questo: passare da una sensazione percepita o evocata (che può essere un sapore, un profumo, un odore...) alla parola che la descrive, cercando di dare un senso, un significato a quella sensazione. Per Proust era la famosa "madeleine" che accendeva la sua fantasia e metteva in moto la su memoria involontaria. Per me è l'olio d'oliva. Quando sento quel profumo, io vado con la mente a quel mio frantoio di paese...e rivivo la mia infanzia, povera ma felice.
EliminaSi, la tua terra, Giuseppe, è ricca di frantoi perchè è ricca di ulivi. E ricordo di aver visitato a Gallipoli, tempo fa, proprio un bellissimo frantoio ipogeo.
Grazie per le tue belle parole. Un saluto a te.
E' vero, è il tempo a creare nostalgia, e il luogo solo palcoscenico, scenografia necessaria ma inanimata quando torniamo, quando cerchiamo anche solo memoria nel paese dove siamo cresciuti (io solo in vacanza in realtà, un mese l'anno) e dove abbiamo cullato tutte le emozioni possibili, anche quelle che non credevamo esistessero. Di olive e frantoi ne so davvero poco, me la cavo meglio con le vongole e il mare convulso, ma ognuno cresce con i giocattoli che trova.
RispondiEliminaSono d'accordo con te: ognuno cresce con le cose che gli stanno intorno. Diciamo che io sono più portato per la terra: sono un campagnolo, o meglio un contadino. Sono figlio di contadini. Tu invece hai più dimestichezza con il mare, sei un marinaio. Devo dirti, però, che amo anche il mare, anche se non so nuotare. E le vongole mi piacciono assai...Ciao
EliminaCerto che guardando l'immagine dei frantoio di un tempo con la completezza della tua dettagliata descrizione,mi porta ad una osservazione su quello che è sempre stato l'ingegno umano.
RispondiEliminaUn tempo che non esisteva minimamente la tecnologia (che ha di certo anche i suoi vantaggi sempre ben descritti e evidenziati nel tuo post) la mente umana e il corpo svolgevano
il "vero rito spirituale ",con una fusione imprescindibile tra fine e mezzo ,dove l'uno era alleato dell'altro ,senza nessuna forma di inquinamento competitivo e produttivo.
Ben venga la tecnologia quando si fa alleata all'ecologia .Discorso a parte è la metafora del frantoio,intesa come "macchina capitalista" , macchina competitiva che gira e macina verso un unico obiettivo , massificare i profitti.
Ma l'ulivo ,la pianta dell'ulivo ha anche un significato biblico oltre che spirituale ,e credo sia importante rimanere dentro questo tema , con tutti i suoi risvolti positivi e l'essenza e i profumi di un tempo mai perduto.
Non certo volevo deragliare su cotanta bellezza:)
L.
L’antico frantoio, con le macine di granito, è un’immagine del passato, quando l’uomo era al centro della produzione e le macchine costituivano un valido strumento nelle sue mani. Oggi l’uomo è assoggettato dalle macchine ed è pure inconsapevole di questa sua drammatica condizione. Crede di dominarle, ma ne è dominato.
EliminaCerto, la tecnologia può cambiare i frantoi, ma non gli ulivi. Andrebbero tutelati, così come vengono tutelati i monumenti storici. In questi giorni sto raccogliendo le olive. Le mie olive. Non serve la tecnologia: bastano due mani. Si, proprio le mani che noi oggi usiamo solo per spingere pulsanti o per smanettare, ma solo con due dita, su uno smartphone.
Ciao L.
Un bel connubio, tempo e luoghi. Quanti ricordi legati a luoghi precisi, il tempo che passa e lascia intatti quei ricordi ma spesso non i luoghi. Il tuo frantoio modernizzato dalla tecnologia con il sapore della tua giovinezza ancora ad aleggiare al suo interno, bello! Ho vissuto un analogo trasporto quest'estate, quando occasionalmente mi sono ritrovata nella fattoria dove ho trascorso bei momenti durante la mia infanzia: era di uno zio che ormai non c'è più e adesso è diventata una pizzeria rustica. Mi sono ritrovata a immaginare taluni angoli come li ricordavo e la sensazione è stata straniante. Penso che quel luogo rimarrà sempre lo stesso che porto nella memoria, nonostante il tempo l'abbia trasformato in un altra cosa.
RispondiEliminaSono i luoghi della memoria, da noi abitati e vissuti, che fissano momenti importanti e fondamentali della nostra esistenza, che resistono al tempo e, spesso, rimandano alla nostra adolescenza che, forse, rappresenta (almeno per me), l’età più bella della vita. E poi certi luoghi – come giustamente dici tu – restano sempre quelli che portiamo dentro di noi, anche se il tempo li ha trasformati in spazi diversi. Sono proprio quei luoghi che hanno forgiato, in qualche maniera, la nostra identità, la nostra sensibilità, il nostro modo di essere.
EliminaCiao Marina
Ti capisco, mi sono ritrovata fra le righe in cui scrivi dell'illusione della nostalgia dello spazio che in realtà è nostalgia del tempo perduto. Mi capita la stessa cosa quando capito (ormai raramente) in Calabria, al paese in cui sono cresciuta e ho vissuto fino ai 26 anni (poi sono venuta a vivere nel Lazio). Non tornerei mai a vivere laggiù, non c'è nulla ad attrarmi, a maggior ragione quel luogo è diventato il nulla, perché non ci sono più i miei genitori né la casa che ho amato e quindi lo percepisco svuotato di senso. Mi rattrista.
RispondiEliminaIl frantoio è un luogo splendido. Ne ho visti pochi nella vita, perché questa ruralità non l'ho vissuta, ma mi sarebbe piaciuto.
Quel paese della Calabria non lo senti più tuo: e allora meglio non tornarci, anche se hai nostalgia del tempo vissuto con i tuoi genitori in quel luogo. Il vecchio frantoio di una volta era una sorta di luogo dell'anima di un paese. Oggi, con la tecnologia, abbiamo senz'altro un impianto più efficiente, capace di produrre un olio di qualità, superiore a quello del passato. Abbiamo, però, perduto un luogo poetico e suggestivo, un luogo di aggregazione prima ancora che di lavoro, dove l'aspetto umano era prevalente su tutto il resto.
EliminaCiao Luz
In larghe parti della val di Noto, in tutta la zona pedemontana dell'Etna, sulle colline del calatino e, a perdita d'occhio nella valle del Belice, il colore inconfondibile verde argento degli ulivi riempie lo sguardo del viaggiatore. Da un senso di eternità l'ulivo ci si aggrappa al suo tronco contorto sperando di trarne saggezza e durata. Sono diventati rari i palmenti vecchio tipo da te descritti, alcuni son stati trasformati in luoghi da visita in agriturismi sperduti nelle campagne. Gli uomini d'oggi osservano stupiti l'armamentario composto da macine di pietra, fiscoli e presse...in provincia di Ragusa chi ancora coltiva e cura l'ulivo si avvale di tecniche e strumentari modernissimi per esportare ovunque grandi quantità di olio. Oggi si guadagna bene. Ma io conosco ancora qualche posto cristallizzato nel tempo dove il liquido denso e verde scuro si "prova" ancora su una fetta calda di pane di casa così gli odori e i sapori compongono ricordi che è ormai difficile tramandare. Le campagne, i contadini, le voci in dialetto e una leggera quasi infantile felicità che ti entra dentro solo sotto certi cieli e in certi momenti in cui ogni cosa collima e va al suo posto. Salutiamo Pino.
RispondiEliminaAmo l’olivo, con quel suo tronco contorto e scavato dagli anni, tant’è che un osservatore a volte si trova a chiedersi come possa stare in piedi per secoli. Una pianta straordinaria (nel Cilento ne esistono tantissime plurisecolari ), che ispira un senso di pace, di saggezza e di antica bellezza. Devo dire che quando mi trovo a passeggiare tra i miei ulivi – proprio in questi giorni mi sto dedicando alla raccolta delle olive - mi soffermo sovente ad osservarli con commozione e ammirazione. E mi vengono in mente le parole di Giuseppe Dessì in un suo famoso romanzo ambientato nella Sardegna dei primi anni del ‘900, “Paese d’ombre” a proposito di queste piante secolari, che sembrano sfidare il tempo ovunque esse si trovino, in Sardegna, così come nel mio Cilento o nella tua Sicilia: “ erano simili a enormi pachidermi, con il loro tronco colossale, sproporzionato e gibboso(….) Il ragazzo camminava nell’oliveto silenzioso, e camminando contava gli olivi. A vederli dalla strada, sembravano tutti uguali; ora invece, per la prima volta, si accorgeva che erano diversi: avevano ognuno una fisionomia particolare, come persone. Se guardi da lontano la gente che affolla una piazza, o una processione che ti viene incontro, ti sembra che tutte le persone siano uguali: se invece ci vai in mezzo ti accorgi che si assomigliano, ma nella somiglianza sono diverse. Così era anche per quegli alberi di cui percepiva il silenzio, non come si percepisce il silenzio delle cose, ma come si percepisce il silenzio di persone che stanno zitte e pensano”. Un caro saluto a te, Enzo. Puoi anche non firmare i tuoi commenti, ma io ti riconosco perchè il tuo stile è inconfondibile.
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