mercoledì 10 dicembre 2025

"Il bell'Antonio" : quando l'apparenza inganna

 


" Gli amici brutti rispettavano Antonio, e lo avrebbero anche invidiato, e forse odiato, se, indotti e contagiati dalle donne che frequentavano, anch’essi, senza saperlo, non fossero stati innamorati di lui”

 

Io credo che certi fatti tragicomici possano accadere solo in Sicilia e che nessuno, meglio di uno scrittore siciliano, sappia raccontarli con ironia e leggerezza. E’ il caso della storia narrata da Vitaliano Brancati in uno dei suoi romanzi più noti: “Il bell’Antonio”.

Il protagonista del libro è un giovane rampollo della borghesia siciliana (Antonio Magnano), un giovane talmente bello e impossibile da penetrare nei desideri e nella fantasia erotica di tutte le donne che incontra lungo via Etnea, l’arteria principale di Catania. Costui ha fama di grande seduttore, al quale vengono attribuite conquiste femminili a ripetizione; è invidiato dagli uomini, che lo vedono inimitabile e irraggiungibile, e corteggiato dalle donne che se lo mangiano vivo con gli occhi. Naturalmente non può che essere il vanto di un padre  maschilista (don Alfio) che considera il “gallismo” un valore assoluto, la sua filosofia di vita, il suo “modo di essere siciliano”. Ad impalmare il “bell’Antonio” è una ricca e bellissimna ereditiera (Barbara), naturalmente scelta dal padre, figlia di un rispettabilissimo notaio “ritenuto l’uomo più serio ed equilibrato della città”. Tutto sembra filare liscio, come in una favola, ma il dramma è dietro l’angolo.

E allora provate ad immaginare cosa può succedere in un simile contesto socio-familiare - dominato dal mito del maschio siciliano – quando la famiglia e tutta la gente del contado viene a sapere che il “bell’Antonio”, il tombeur des femmes, è un impotente e che sua moglie, dopo tre anni di matrimonio è tale e quale come è uscita dalla sua casa paterna.

Comicità e tragedia, ironia e scherno, commedia e farsa si mescolano in questo romanzo incentrato sul malessere esistenziale di un uomo condizionato da convenzioni sociali e pregiudizi, metafora di una società che probabilmente non esiste più ma che Brancati, grazie alla sua straordinaria capacità affabulatoria, riesce a far vivere per sempre.


giovedì 27 novembre 2025

Campane a festa

 


Le campane hanno sempre esercitato su di me un fascino particolare, carico di significati. Ho sempre amato quei rintocchi che parlano una lingua universale e hanno la capacità di chiamare a raccolta la gente nella gioia e nel dolore.

I primi ricordi significativi che ho sono legati al periodo della mia infanzia, quando le campane erano ancora una presenza familiare nel cuore della società rurale e contadina del paese in cui vivevo. I rintocchi provenivano dalla chiesa di San Nicola di Bari, non lontana dalla nostra casa, sul cui campanile in pietra svettavano – e tutt’ora svettano - due enormi campane. Devo dire che, allora, ne ero completamente affascinato. Ricordo ancora che quando la maestra delle scuole elementari ci invitava a fare un disegno, sul mio quaderno le campane non mancavano mai. Mi trasmettevano gioia. Ed ero felice di disegnarle. Le campane non diffondevano solo un suono, ma erano una voce amica riconosciuta da tutti, che avvisava i contadini nei campi che era l’ora di fermarsi un momento per consumare il pasto all’ombra di una quercia, o che era giunta l’ora di tornare nelle proprie abitazioni per il meritato riposo serale.

Le campane, simbolo della cristianità, celebravano anche le tappe civili più importanti della vita comunitaria, eventi lieti e luttuosi dalla nascita alla morte e  sancivano lo scorrere del tempo. Suonavano “a morto”, per annunciare la scomparsa di una persona del paese, e dal numero dei rintocchi si poteva intuire se si trattava di un uomo o di una donna. Era un suono lento e malinconico che faceva pensare alla precarietà dell’esistenza. Suonavano “a martello” nei casi di pericolo, una sequenza di rintocchi rapidi e insistenti che comunicavano emergenza.  E suonavano “a festa” nelle ricorrenze religiose: un suono a distesa, dal ritmo gioioso e vivace, pieno e vibrante che invitava ai festeggiamenti. Ricordo che mio nonno, ogni volta che sentiva le campane, si toglieva il cappello con deferenza e si faceva il segno della croce. Un gesto di devozione, di ringraziamento. Era una sorta di balsamo per la sua anima. Un modo per fermarsi un istante a riflettere con serenità.

Oggi nessuno fa più caso al suono di una campana, sempreché si possa ancora sentire nel frastuono delle città in cui viviamo. Alle nuove generazioni è del tutto estraneo quel fascino mistico che poteva suscitava un tempo. Il rumore, l’insensibilità, l’indifferenza, le mille distrazioni che abbiamo intorno, le variate condizioni di vita non più legate ai cicli naturali, hanno ridotto quei rintocchi a suoni privi di significato, facendo perdere alle campane quella funzione religiosa, sociale e culturale che aveva nel passato.

Ma la cosa che più mi rattrista è che in molti paesi le campane - con le loro storie secolari - stanno scomparendo, o meglio non vengono più suonate perché mancano i campanari, sostituite da registrazioni e sistemi automatizzati che simulano i rintocchi tradizionali. “Ma che fine ha fatto oggi questo oggetto così amato e popolare? – si chiede Enzo Bianchi – Povere campane: da linguaggio comune, da strumento di comunicazione eccezionale, da “difensori civici”, quando non sono scomparse del tutto o ridotte al silenzio, vengono trascinate sul banco degli imputati per inquinamento acustico”.


mercoledì 19 novembre 2025

Architettura e felicità

 


Tutti i libri di Alain de Botton - un brillante scrittore britannico di origine svizzera – ci guidano, attraverso una scrittura colta e piacevole, verso la comprensione delle cose del vivere quotidiano, su cui non sempre ci soffermiamo con la dovuta attenzione. E, attingendo ora dal pensiero filosofico, ora dalla letteratura, ora dall’arte, quei libri ci invitano a fare delle riflessioni profonde sui tanti modi che possono rendere meno triste la nostra esistenza.

In “Architettura e felicità” (Guanda Editore) lo scrittore esplora quella sorta di connubio che esiste tra bellezza e felicità che, in qualche maniera, ha la capacità di contribuire a migliorare il benessere psico-fisico. De Botton scrive che il nostro umore è spesso influenzato dalla qualità del contesto urbano in cui viviamo, dall’edificio in cui abitiamo o dalla casa che ci accoglie dopo una giornata di lavoro e che parla di noi attraverso i mobili e gli oggetti scelti con cura, che abbelliscono gli ambienti ed esprimono la nostra identità.

L’altro giorno mi trovavo in una deliziosa piazzetta del centro storico di Roma, Piazza Sant’Ignazio, progettata nel Settecento dall’architetto Filippo Raguzzini su cui si affacciano, da un lato, cinque eleganti palazzetti dalle linee concave - che evocano una sorta di scenario teatrale - e, dall’altro, l’imponente facciata barocca dell’omonima chiesa di Sant’Ignazio di Loyola a fare da palcoscenico, famosa per gli affreschi illusionistici di Andrea Pozzo. Una composizione architettonica, questa, che sembra unire sacro e profano e avvolgere la piazza in un abbraccio armonioso. Un luogo davvero suggestivo che ispira bellezza e predispone alla tranquillità dell'animo. Un luogo che mi faceva pensare che la felicità è legata soprattutto alla bellezza visiva e che sussiste un’intima affinità tra il gusto e i sentimenti profondi che guidano le nostre scelte e i nostri comportamenti. Da qui nasce poi quel senso di soddisfazione che ci rende felici. Fu Stendhal a dire che la bellezza è una promessa di felicità e che esistono tanti stili di bellezza quante visioni della felicità.

Ora io mi chiedo: se abitassi in uno di quei palazzetti rococò anziché in un anonimo edificio di un quartiere periferico di Roma, sarei forse più felice? E in linea generale, è possibile immaginare che tutti noi potremmo essere idealmente - nel bene e nel male – persone diverse in luoghi diversi? Io credo che sia difficile individuare una misura assoluta del bello che possa influire, in positivo, sulla qualità della vita delle persone. Certo, abitare in una bella casa, nel centro storico di una delle città più belle del mondo, non può che destare piacere e felicità; ma non so fino a che punto quella bella casa abbia l’effettiva capacità di  migliorare l’umore o il carattere di chi la abita. Le belle case – scrive de Botton – non hanno i vantaggi indiscutibili di un vaccino o di una ciotola di riso e per questo motivo “la bella architettura non acquisterà mai rilevanza politica e non diventerà mai una priorità, perché anche se potessimo rimodellare tutte le opere dell’edilizia umana, con sforzi e sacrifici costanti, fino a emulare piazza San Marco, anche se potessimo trascorrere il resto della nostra vita nella Villa Rotonda del Palladio, continueremmo comunque a essere spesso di cattivo umore”. Certo, può succedere che a volte una piazza con i suoi edifici seducenti catturi la nostra attenzione e faccia galoppare la nostra fantasia…”ah, se abitassi qui”, tuttavia, è innegabile che ci sono momenti in cui nemmeno il luogo più ameno sarà in grado di scacciare la nostra tristezza o la nostra misantropia. Tuttavia i nostri momenti di abbattimento, dice de Botton “offrono all’architettura e all’arte le occasioni migliori, perché è proprio in questi casi che la nostra fame delle loro qualità ideali raggiunge l’apice”.

La bella architettura – come il bello in generale – possiede un suo contenuto morale, incarna delle qualità interiori, ci dà dei consigli velati, ci invita a imitare il suo spirito. E’ ciò che dobbiamo saper cogliere osservando la bellezza, se intendiamo davvero essere migliori. E felici.



lunedì 17 novembre 2025

Il sapore della castagna

 

Mi sono imbattuto in questo articolo di Marcello Veneziani – carico di piacevoli ricordi - pubblicato sul suo blog. Devo dire che mi ci ritrovo e, pertanto, lo ripropongo qui di seguito. E'  "la dolcezza del tempo perduto".

Il sapore della castagna

di Marcello Veneziani

17 Novembre 2025

Il passato, alle volte, si nasconde dentro il guscio di una castagna. Tornando al paese d’origine, ho visto fiammeggiare al porto un’improvvisata fornace che arrostiva castagne. Mi sono avvicinato con l’avidità di un bambino e ho chiesto un “coppo” (un cartoccio) di caldarroste: me le ha incartate in un giornale, costavano solo un euro, contro i cinque, dieci delle grandi città, dove te le confezionano però in due appositi vani, quello dei frutti e quello per le bucce. Ma in paese è tutto più primitivo e naïve. Erano piccole quelle castagne, non come i marroni delle grandi città, non facevano bella figura; ma avevano il sapore e il profumo verace di un tempo, qualcosa che non ricordavo più da decenni.

Il sapore di una castagna è la versione campestre della madeleine di Marcel Proust: riattiva i ricordi e riannoda i lacci della memoria. Da una piccola porta si accede a un immenso passato.

Un mondo, a lungo dimenticato, si è riaperto d’improvviso mentre sbucciavo le castagne bollenti, inalavo odori di un tempo e addentavo le annerite e indorate delizie. Un’isola d’infanzia in mezzo al mare della senilità.

Ho rivisto allora, morso dopo morso, i banchi di legno grezzo dei primi giorni di scuola, in prima elementare, con i calamai e le sedioline incorporate, piccole e dure. E i nostri grembiuli, col fiocco azzurro e il colletto bianco, ho sentito l’odore del gesso che stride sulla lavagna e ho rivisto il cassino, di cui avevo scordato l’aspetto e pure il nome. La prima poesia che imparammo a memoria nei primi giorni di scuola era dedicata proprio alla castagna, regina dell’autunno. “Cotta, bruciata e ballotta, attenti che scotta”, l’insidia del riccio che la ricopre, il gusto del frutto, la gravidanza del castagnaccio. Fu lei, la castagna, a iniziarci alla poesia, fu il primitivo rudimento di letteratura. Era autunno, e il libro di lettura seguiva in quel tempo il corso naturale delle stagioni.

Poi dopo la scuola tornavo a casa, era pomeriggio e scendeva il buio vespertino, calavano le prime umidità autunnali, e i primi freddi. Era un po’ triste la strada di casa a quell’ora d’autunno, soprattutto quando era bagnata di pioggerelle recenti. Ma quando rientravo a casa c’era aria di festa e calore di vita: i miei avevano tirato fuori quel tegame nero coi buchi, che aveva ai miei occhi un aspetto giocoso, con cui si arrostivano le castagne. La fiamma le abbronzava e si sentiva nell’aria un odore misto a bruciato. Per essere ammesse in padella le castagne erano segnate da una croce che ne spaccava la buccia; mi raccomando il taglio, dicevano, altrimenti scoppiano. Quella breccia nel guscio sarebbe poi diventato l’appiglio per sbucciarle, appena tolte dal fuoco con le dita scottate; l’impazienza di sbucciarle e mangiarle superava il timore di ustionarsi. Alle castagne arrostite, non so perché, ci pensava mio padre, di solito inoperoso in cucina; quando invece le castagne erano bollite in pentola, sia nella versione sbucciata e guarnita col lauro (l’alloro), sia nella versione integrale, non spogliata, era compito di mia madre. Le castagne ne uscivano di tutti i colori: giallo-nere se arrostite, grigio-rosse se bollite senza buccia, bianco-avorio se preservate ancora nella loro buccia marrone. Erano i grandi, prometeici, a tirare le castagne dal fuoco.

Il tempo delle castagne è per me associato a una piccola preistoria domestica, ancora priva di televisore e di altre comodità moderne: da qui l’associazione di idee tra le castagne e il tempo perduto. In alcune case le castagne arrostivano sui bracieri ed erano perciò associate ai primi freddi nell’era antica, che precede i termosifoni e perfino le stufe.

In quel tempo, così come oggi, amavo l’estate con tutta l’anima e il corpo, mi riempiva gli occhi di vita e m’intristiva l’autunno, le giornate più corte e non più vissute all’aperto, i pomeriggi a casa, tra i compiti, i giochi e la tristezza del clima, il mese dei morti e dei vestiti pesanti. L’unica vera, scoppiettante gioia domestica di quella ritirata autunnale erano le castagne sul fuoco; erano la consolazione della stagione. Si creava un’atmosfera speciale in quei momenti e in quella catena di smontaggio famigliare nel passaggio delle castagne dalla padella alle mani bambine e dalle mani alla bocca golosa. Vita semplice, di poche pretese, addolcita da piccole delizie della natura.

Associo quei momenti pomeridiani delle castagne al cerchio di luce disegnato da un abat-jour, circondato dall’ombra della stanza e dall’imbrunire che s’intravedeva dal balcone e dalle finestre. La castagna era un fuori programma, non la mangiavi a pranzo, a cena, a colazione, ma fuori dai pasti; era una piccola festa, una dolce pausa offerta dalla natura, un frutto temprato dal fuoco.

La castagna mi pareva la metafora cristiana della vita: appena raccolta è respingente e può pungerti, ma se riesci a togliere il riccio accedi al frutto, passando però da altre due bucce: quella più dura, color mogano lucido, come un vestito e poi la vestaglia più esile, come una maglieria intima che copre il corpo nudo della castagna. Solo dopo aver sbucciato i tre strati accedi al frutto; sarà il fuoco a renderlo maturo per i nostri appetiti. Nulla ti è dato in natura senza la fatica di raccogliere, di sgusciare senza ferirti e poi sbucciare. Non so se già esiste la castagna ogm, o se l’Intelligenza Artificiale produrrà la Castagna Artificiale. Ma nella castagna vedo occhieggiare la natura e la favola, il mondo arcaico e l’infanzia perduta e ritrovata per poco.

(Panorama n.47)


venerdì 7 novembre 2025

La dolcezza del tempo perduto

 



Quando penso al passato – al mio passato vissuto in un piccolo paese del sud – il sentimento che prevale in me è una profonda dolcezza per quel mondo scomparso e per quelle persone care che non ci sono più. Naturalmente, con questo, non voglio rimpiangere quel tempo che a volte era anche molto duro e oggi sarebbe insostenibile.

Era un universo, quello in cui ho vissuto la mia infanzia e poi la mia adolescenza, che aveva una sua dimensione comunitaria, umana, che privilegiava i legami forti e esercitava la solidarietà, un universo fatto di cose semplici ed essenziali, di contadini e … di nonni. Ma era anche un universo fatto di fatiche e di sacrifici, di arretratezze economiche e sociali e di brutture dalle quali si avvertiva forte il desiderio di evadere. Un microcosmo che, in qualche maniera, ti proteggeva in un caldo abbraccio e non ti faceva sentire mai solo, rispetto al mondo globalizzato di oggi che ha sostituito le interazioni reali con quelle mediate dagli strumenti tecnologici.

Non era un mondo racchiuso in uno smartphone, quel mondo. Esisteva una comunità con i suoi riti; esisteva il paese con i suoi silenzi e i suoi rumori, come quel ritmo scandito dal martello di un fabbro sull’incudine: “il suono più esaltante che si possa sentire” ebbe a dire una grande scrittrice del passato. C’erano i vecchi e i bambini: tanti vecchi e tanti bambini; c’erano i cugini, i nonni che vivevano – senza badante - nella stessa casa e poi i vicini che entravano e uscivano dalle porte di casa sempre aperte; c’era quell’aria salubre che io riconoscevo dall’odore di erba fresca appena tagliata. E devo dire che c’era sempre un velo di malinconia nei brevi momenti di felicità. Una felicità allo stato puro. Ma non era il paradiso sulla terra, quel passato. No! Era un mondo povero, difficile di cui non ho nostalgia. Eppure, quando penso al tempo che scorre, io penso a quel tempo che sembrava eterno e immutabile.

Perché ne scrivo? Perché mi piace ritornare con la mente a quegli anni lontani? Semplicemente perché il ricordo mi fa stare bene. Mi infonde serenità. Mi restituisce le radici, l’infanzia, la spensieratezza di un’età. Mi riporta nel luogo dove tutto è cominciato. Mi fa ritrovare il volto delle persone care che non ci sono più. Mi aiuta a non perdere la sensibilità e a recuperare il senso antico di una stagione della vita che non può più ritornare. Conservare la memoria è come costruire un ponte ideale tra passato e presente, necessario per poter affrontare il futuro.


giovedì 16 ottobre 2025

La civiltà del troppo

 


Siamo frastornati dal “troppo” che oramai invade le nostre esistenze.

Mi trovo all'interno di un vagone della metropolitana di Roma. Seduta accanto a me una signora mi “costringe” ad ascoltare la sua affranta telefonata. Racconta ad una sua amica che dopo una giornata di duro lavoro in ufficio (sob!), deve ora sobbarcarsi: un corso di pittura; poi deve portare fuori il cane per i suoi bisogni; poi ha la palestra e la spesa al supermercato; in serata deve partecipare a una cena con i colleghi per festeggiare un compleanno; e - dulcis in fundo – l’immancabile visita ai social, prima di andare a letto. Che vitaccia!

Sembrerebbe – a sentire quella signora - che le nostre giornate siano ormai zeppe di impegni e di appuntamenti. Tra corsi di inglese e gare di ballo, tra esercizi in palestra e acquisti compulsivi, tra incontri virtuali in rete e serate in pizzeria con gli amici, tra fiumi di  messaggi improbabili e telefonate superflue, pianifichiamo il nostro tempo in maniera irrefrenabile, senza alcuna pausa. E come se tutto ciò non bastasse, ci  si mettono pure i mezzi di informazione bombardandoci con immagini e messaggi pubblicitari e video i più disparati e assurdi e notizie di ogni genere che dovrebbero suscitare, in chiunque, una reazione di rifiuto e di nausea: ma ciò non succede, assuefatti come siamo ad ogni forma di orrore. Non contenti, poi, ci spostiamo velocemente da un posto all’altro del pianeta, prendiamo  la macchina anche per percorrere pochi metri e nulla sembra più turbarci: violenza, maleducazione, volgarità, rumori, sporcizia nei posti in cui viviamo. Siamo sempre alla ricerca spasmodica di “qualcosa” che possa riempire quel probabile “vuoto” giornaliero e che faccia tacere quel silenzio di cui abbiamo una paura fottuta. E allora, musica di sottofondo che non è una sinfonia ma solo rumore; e poi televisione sempre accesa in casa e monitor nei locali pubblici e nelle stazioni dei treni e delle metropolitane che sparano pubblicità. Ma la cosa che più ci appassiona e con cui trascorriamo la maggior parte del nostro tempo è il cellulare. Smanettiamo istericamente su quella magica scatoletta mentre guidiamo, mentre mangiamo, mentre stiamo con i nostri figli, mentre camminiamo…insomma, sempre, tranne in quelle poche ore di sonno. Non siamo più capaci di stare fermi e pensare, di oziare senza fare niente, di guardare trasognati il mondo che ci circonda; non esistiamo senza uno smartphone tra le mani. E non conosciamo più l’attesa, perché dobbiamo agire e rispondere con urgenza in qualsiasi momento ed in qualsiasi situazione. Tutto è diventato terribilmente improrogabile. Facciamo troppe cose, anche in una giornata ordinaria. E quando troppe cose premono contemporaneamente alle porte e reclamano di essere soddisfatte e capite, finiamo per esserne sopraffatti. Ma non ce ne rendiamo conto!

Franco Arminio, poeta e scrittore molto sensibile a queste tematiche del vivere quotidiano, scrive: “In un giorno incontriamo tante persone, gli incontri in rete comunque sono incontri e le parole sono parole e le emozioni sono emozioni: è tutto vero e tutto falso ed è tutto un ronzio che ci sfinisce. Per guardare il mondo ci vuole un poco di silenzio, bisogna restaurare le vigilie. Adesso le cose accadono una dietro l’altro, le attacchiamo senza tregua, senza spazi vuoti: magari ascoltiamo un messaggio mentre ci laviamo la faccia, parliamo al telefono mentre guidiamo, decidiamo un amore villeggiando al sole di facebook. I luoghi possono ancora essere visti, ma non basta andare in un luogo, bisogna aver cura di vedere poco, di fare poche cose in un giorno, di lasciare un poco di vuoto in mezzo alle giornate. L’assillo di esserci rischia di farci diventare sempre più irreperibili a noi stessi e agli altri. E il mondo diventa vago e imprendibile come una nuvola”.


venerdì 3 ottobre 2025

Quel "tuffo" che ci spaventa

 


Viviamo in una società che si rifiuta di affrontare il tema della morte, una società che ha impostato la propria organizzazione immaginando che non esista o che non abbia alcun legame con la vita. Ma, come diceva Michel de Montaigne, “nascendo moriamo e la fine comincia dall’inizio”.

Forse mai come adesso il pensiero della morte ci spaventa; abbiamo il terrore di quel “tuffo” - raffigurato su quella celebre lastra funeraria del V secolo a.c. conservata nel Museo di Paestum - che per gli antichi Greci simboleggiava il salto metaforico dal mondo dei vivi a quello dei morti. Abbiamo paura di interrogarci sulla morte e facciamo di tutto per allontanarla dai nostri pensieri. Ma se da un lato c’è questo maldestro tentativo di rimuoverla dalle nostre esistenze, dall’altro la morte irrompe quotidianamente sugli  schermi televisivi, entra nelle case come un vero e proprio spettacolo e viene mostrata nelle sue varie ed innumerevoli  rappresentazioni. E’ la spettacolarizzazione della morte degli altri che ci attrae in maniera morbosa. Una morte causata – il più delle volte - da tragedie familiari o naturali e poi da guerre o carestie, il cui drammatico evento pur generando dispiacere, ci sfiora ma non ci tocca, lo viviamo con dolore, a volte con indifferenza, ma ne usciamo affrancati perché la morte appartiene sempre agli altri. E basta questo a tranquillizzarci.

E succede che per scacciare queste nostre antiche paure, per rendere più sopportabile la vita, cerchiamo sempre di esorcizzarla, la morte: a volte con l’indifferenza, a volte con la fede, a volte con la superstizione. E da un po’ di tempo a questa parte anche con lo spettacolo televisivo della morte che comprende l’appaluso al morto. Tentiamo, inoltre, di tenere a bada anche la vecchiaia attraverso rimedi fittizi sempre più sofisticati: interventi di chirurgia estetica, attività sportive, diete salutari e dimagranti, atteggiamenti  giovanili. Ci illudiamo, così, di poter sconfiggere la morte. Una immorale fantasia di onnipotenza su cui dovremmo stendere un velo pietoso, perché la morte altro non è che l’inevitabile conclusione della vita.


lunedì 22 settembre 2025

Com'è bello perdere tempo!

 


Nel film “Maccheroni” diretto da Ettore Scola e girato a Napoli negli anni ‘80, il protagonista, Marcello Mastroianni, passeggia per le vie della città partenopea in piacevole compagnia con Jack Lemmon. A un certo punto Mastroianni, con accento napoletano dice al suo amico: “comm’è bello perdere ‘o tiempo!”. Ora mi viene da pensare che in un mondo dominato dall’efficienza, dalla velocità e dalla fretta, da assillanti messaggi mediatici che ci invitano a produrre e a consumare e a fare e a non fermarsi mai e a non sprecare il tempo perché “il tempo è denaro”, non esiste frase più rivoluzionaria, liberatoria e sovversiva di questa: com’è bello perdere tempo.

Io sono un estimatore del “perdere tempo”, che è una cosa ben diversa da “sprecare il tempo”. Mi piace tenermi occupato senza fare nulla. Basta una finestra, magari affacciata su un bel panorama, ma anche il finestrino di un treno in corsa o una panchina in una piazzetta di un antico borgo dove il silenzio è rotto solo dall’acqua che zampilla da una fontanella: e il piacere è assicurato. Passeggiare, meditare, pensare, contemplare la natura, coltivare l’arte della conversazione e del dolce far niente, stare seduti accanto al focolare d’inverno, ascoltare Mozart con gli occhi chiusi, sono tra le attività più piacevoli e nobili che un essere umano possa desiderare. Hanno un potere curativo. E creativo. Ritagliarsi un angolo di tempo tutto per sé, un momento di riflessione e di tranquillità lontano dalle folle e dagli impegni: è, questo, il tempo dell’ozio che non è il tempo nevrotico del mondo che ruota intorno ma quello del proprio mondo interiore. Nel passeggiare, nel bighellonare si può trovare l’anima dell’ozioso. Chi passeggia – da solo o in compagnia ( ma senza cellulare) - lo fa per piacere, contempla senza disturbare ed essere disturbato, non ha fretta, non ha impegni, è felice di stare in compagnia dei propri pensieri. Indugiando, osservando, pensando. E’ libero. Il mondo, per lui, smette di esistere. Un grande passeggiatore solitario era Beethoven il quale elaborava mentalmente le sue meravigliose sinfonie durante i suoi vagabondaggi.

Oziare significa essere affrancati da convenzioni, opportunità, desideri, competizioni, regole; significa allontanarsi dagli affanni quotidiani e ritrovare quel senso fanciullesco di meraviglia e di piacere di fronte alle piccole gioie della vita; significa sottrarsi a quella ricorrente sensazione di sentirsi vittima della società dei consumi; significa non dare ascolto ai cultori della velocità e agli “ottimizzatori del tempo” ossessionati dal loro iperattivismo produttivo senza limiti. L’ozio e la lentezza sono condizioni esistenziali necessarie e irrinunciabili, che andrebbero elevate ad arte, in opposizione alla fretta, all’efficientismo a tutti i costi ed alla crescita produttiva illimitata, proprio per ristabilire quei ritmi naturali perduti e ritrovare le giuste pause quotidiane.

Bertrand Russel, in un suo famoso saggio che si intitola “Elogio dell’ozio”, sosteneva che l’umanità non si sarebbe mai sollevata dalla barbarie senza una classe sociale oziosa. Queste persone oziose, a fronte di una vasta classe di lavoratori, godevano di immensi vantaggi economici e sociali, ma di scarse simpatie perché non lavoravano come gli altri. Tuttavia – sosteneva Russell – contribuirono in modo quasi esclusivo a creare quella che noi chiamiamo civiltà. Furono loro, gli oziosi, che coltivarono le arti, scrissero libri, raffinarono i rapporti sociali. E’ come dire che dall’ozio scaturisce tutta la bellezza dell’esistenza.


venerdì 12 settembre 2025

La nobiltà della sconfitta

 


In fondo, ciascuno di noi osserva e interpreta il mondo secondo la propria visione ideale della vita. Viviamo in un mondo globalizzato e chi non è allineato e si oppone alla tirannia degli imperativi tecnologici e mercantili è destinato, prima o poi, ad affondare aggrappato al suo mondo, come un naufrago alla sua zattera. E’ come dire che oggi la globalizzazione miete vittime metaforiche lungo il suo percorso inarrestabile.

Combattere per le cause perse, sostenere moralmente gli sconfitti è un segno di nobiltà d’animo. Gli sconfitti dalla vita, quelli che non si adeguano al potere dominante, alle consuetudini, alle mode, alla uniformità del pensiero e che hanno difficoltà a vivere una vita cosiddetta “normale” godono della mia solidarietà. Ho come l’impressione che i vinti abbiano sguardi più umani e pensieri più leggeri, che siano liberi da convenzioni e opportunità, portatori di dubbi e non di certezze. E accettino, in solitudine, il malinconico verdetto della vita che li consegna all’oblio. I vincenti, al contrario, gli arrampicatori sociali, coloro che rincorrono successo e potere e fama e soldi e cavalcano l’onda del tempo, ossessionati dal culto dell’affermazione e dell’apparenza, mi annoiano terribilmente. Preferisco le storie degli insicuri, di coloro che si perdono per strada o che sono sempre alla ricerca di qualcosa ma non sanno mai quale. Chissà! Forse cercano proprio sé stessi e questo faticoso cammino esistenziale me li rende simpatici. Amabili.

La letteratura è piena di sconfitte e di perdenti. Molti grandi scrittori, soprattutto del passato, hanno sublimato i propri fallimenti in capolavori letterari. Penso a Pessoa che scriveva “porto con me la consapevolezza della sconfitta come un vessillo di vittoria”; penso a Pavese e al suo disagio esistenziale che lo portò al suicidio; penso a Proust e al suo rapporto di amore/odio con il tempo a cui dedicò forse la sua unica forma di vita: la scrittura di quel capolavoro che è la Recherche; penso a Pasolini che intendeva educare le giovani generazioni al valore della sconfitta e all’umanità che ne deriva. E penso a Henry David Thoreau, teorico della disubbidienza civile dell’America dei primi anni dell’Ottocento, quell’America che si stava affacciando al progresso tecnologico ed ai consumi. Thoreau disapprovava gli ideali mercantili della sua epoca, inseguiva un ideale di vita più umano ed equilibrato, a stretto contatto con la natura ed in sintonia con il ciclo delle stagioni. Lui appare come la prima vittima della nascente globalizzazione.

I vincitori fanno la storia – questo lo sappiamo - ma sono i perdenti che ne smascherano le ingiustizie, le menzogne, i soprusi. L’archetipo del perdente è Don Chisciotte della Mancia, l’eroe di Cervantes, che insegue ideali cavallereschi ormai scomparsi e combatte la sua battaglia contro la limitatezza della realtà che non rispecchia i suoi sogni. Lui vive il suo vaneggiamento inattuale con passione e combatte instancabilmente le sue battaglie. E’ la sua sconfitta a renderlo umano; è la sua sconfitta a dare il senso del limite alla sua azione; è la sua sconfitta a farmelo amare. E come non ricordare i perdenti o “inetti” di Italo Svevo - da Alfonso Nitti a Emilio Brentani a Zeno Cosini – icone del fallimento esistenziale e dell’incapacità di adattarsi al contesto sociale; e poi JaKob von Gunten dell’omonimo romanzo di Robert Walser (che voleva essere uno zero assoluto). Un eterno sconfitto appare Stoner, dell’omonimo romanzo di John Williams, eroe buono della normalità che subisce gli eventi della vita senza mai alzare la voce. Grande e nobile sconfitto dalla storia è il Principe Fabrizio Salina, straordinario personaggio de “Il Gattopardo” che non incarna – come comunemente si crede – l’opportunismo da voltagabbana di chi cambia tutto per non cambiare nulla, pur di rimanere a galla, ma il suo esatto contrario: la capacità di saper perdere e affondare, con eleganza, insieme al suo mondo. La nobiltà della sconfitta.


giovedì 31 luglio 2025

L'immenso edificio del ricordo

 


Ritornare nel “natio borgo selvaggio” - da cui forse non mi sono mai allontanato – è un rito irrinunciabile che ripeto ogni estate. E’ il luogo dell’infanzia e dell’adolescenza dove la “dolente bellezza” (prendo a prestito questa suggestiva espressione di Carlo Levi in “Cristo si è fermato a Eboli”) non si manifesta esplicitamente in opere d’arte, in fontane seicentesche e statue barocche, ma la si scopre in certi angoli appartati, ben nascosta ad un osservatore frettoloso, in certi panorami al tramonto, in certi scorci naturali avvolti nella calura estiva, dove il silenzio è rotto solo dal canto incessante delle cicale.

Ogni piccola cosa degna di essere osservata bisogna scovarla, in un paese, e prendersene cura affinché resista nel tempo; ogni ricordo va nutrito, coltivato, affinché si rinnovi quell’  intesa di fiducia e fedeltà alle proprie radici, quel senso di appartenenza su cui si fonda l’identità di una persona. E’ la casa in cui sei nato; è la strada in cui hai giocato a pallone; è quell’albero di gelso su cui ti sei arrampicato scorticandoti le ginocchia; sono le case abbandonate, un tempo abitate da persone del posto che tu conoscevi; è il dialetto che hai parlato come la sola lingua conosciuta; è il cimitero dove sono sepolti i tuoi cari; è quel viottolo di campagna percorso in groppa all’asino del nonno; è il rintocco delle campane a festa che chiamava a raccolta una comunità che, oggi, non esiste più. Perché quel tempo non esiste più!

Immagini e sensazioni che ritornano alla mente. Cose semplici colorite di infinite illusioni che ti appaiono, adesso, come le scene di un teatro a spettacolo finito, mentre senti il tuo cuore stretto da un’ indicibile malinconia. La malinconia degli anni che passano e delle stagioni della vita che si succedono, “del tacito infinito andar del tempo” .

E mentre te ne stai in silenzio su quel terrazzino della casa avita che osserva il mare in lontananza, riemerge - come un temporale improvviso che ti coglie alla sprovvista e ti bagna – il ricordo di ciò che sei stato. E ti domandi cosa è rimasto in te del tuo paese nativo, della vita di prima, quando non sapevi come sarebbe stato il tuo futuro e il solo immaginarlo ti faceva stare male, perché capivi che il futuro non poteva essere lì. E ti domandi ancora cosa è rimasto di quella antica civiltà contadina esiliata dalla storia e con una concezione del tempo del tutto diversa, dove i giorni, i mesi, gli anni si succedevano monotoni senza che nulla cambiasse.

A volte si è costretti a spezzare gli antichi legami e partire. Ma poi arriva il momento del ritorno. E ritornare nel luogo in cui tutto è cominciato significa compiere una sorta di cammino a ritroso e guardare la realtà che ritrovi con occhi diversi. Ma niente è più come prima. Quella zona lontana che chiami passato non è altro che uno spazio d’oblio: eppure attende il momento per risorgere. Se ne sta nascosto in qualche anfratto, magari in un insospettabile oggetto, in un delicato profumo di madeleine. Perché – come scriveva Proust - “l’odore e il sapore permangono ancora a lungo come anime  a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro, goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo”.

 


sabato 12 luglio 2025

L'estrema lentezza con la quale invecchiamo

 


Fare letteratura attraverso il racconto autobiografico è una scelta spesso dettata dal bisogno di scavare nei ricordi e far rivivere vicende personali in cui possa ritrovarsi anche chi legge. In tale contesto narrativo si pone Natalia Ginzburg, la cui produzione letteraria è improntata a una ricerca continua di fatti e sentimenti che fluiscono dal suo passato e da quelle realtà che rappresentano il senso più profondo della sua esistenza. Avevo avuto modo di apprezzare la sua scrittura leggendo, tempo fa, il romanzo “Lessico famigliare” con cui la scrittrice di origini triestine (era nata a Palermo) vinse il Premio Strega nel 1963. Mi sono ora imbattuto in “Mai devi domandarmi”, un libro che raccoglie articoli apparsi su “La Stampa”, una sorta di diario letterario intimo e appassionato che affronta tantissimi temi, che vanno dall’infanzia alla morte, dalla vecchiaia alla vita collettiva, dai libri ai viaggi, dalla politica al credere o non credere in Dio, dai ricordi di scuola alla poesia. Vorrei soffermarmi su quanto ha scritto sulla vecchiaia, un tema che – da un po' di tempo a questa parte - mi sta particolarmente a cuore.

“Ora noi stiamo diventando – scrive la Ginzburg – quello che non abbiamo mai desiderato di diventare, e cioè dei vecchi”. Ed è proprio così: la vecchiaia non l’abbiamo mai né desiderata, né aspettata, né cercata. Arriva, prima o poi. E quando dovevamo immaginarla, la nostra curiosità ci spingeva ad osservare solo quella degli altri, come se noi fossimo immuni da questa condizione esistenziale. Adesso invece sentiamo d’avanzare in quella direzione, “dove faremo parte di una folla grigia le cui vicende non potranno accendere né la nostra curiosità, né la nostra immaginazione... perderemo la facoltà sia di stupirci, sia di stupire gli altri”. Tuttavia, dice la Ginzburg, un motivo di meraviglia l’avremo ancora, ed è “l’estrema lentezza con la quale invecchiamo”.

Si, perché conserviamo a lungo l’abitudine di crederci ancora “giovani”, anche quando abbiamo imboccato una strada diversa. Ma a questa nostra lentezza nell’invecchiare si oppone la rapidità vertiginosa del mondo che ruota e cambia e si trasforma intorno a noi, conservando solo qualche pallida traccia del mondo che è stato il nostro. Quello che abbiamo oggi sotto gli occhi “ci sfugge e ci appare indecifrabile: e in esso non sappiamo leggere che le poche e pallide tracce di quanto è stato. Vorremmo che quelle pallide tracce non sparissero, per poter ancora riconoscere nel presente qualcosa che è stato nostro; ma sentiamo che fra poco non avremo, per esprimere questo desiderio forse molto puerile e ingenuo, né forze, né voce”.

Il fatto che questo mondo sia destinato ai nostri figli e ai nostri nipoti – dice la Ginzburg – non solo non ci aiuta a capirlo di più, ma non fa che aumentare la nostra confusione, il nostro smarrimento. D’altronde loro, i giovani, sono abituati a dirci,  fin dall’infanzia, che noi non abbiamo mai capito nulla e non sappiamo niente. E questo ci fa sentire ancora più inutili, incompetenti, inadeguati, mentre misuriamo le infinite distanze che ci separano dal presente. E pensare che quando scrisse queste parole, Natalia Ginzburg aveva solo 52 anni, era il 1968.



venerdì 4 luglio 2025

Le guerre in televisione

 


Davanti a queste guerre in video vi confesso che ho una sola immediata reazione: spegnere il televisore, non potendo fare nulla di concreto per fermarle. Non sopporto più lo "spettacolo della guerra" che ci viene offerto quotidianamente come un antipasto. E non riesco più a guardare  la guerra parallela, fatta di chiacchiere, che si combatte nei salotti televisivi tra gli opposti schieramenti, mentre vengono mandate in onda - a ripetizione - immagini di palazzi sventrati, di bambini affamati e uccisi, di donne che piangono e si disperano per i loro familiari massacrati. La cosa che più mi spaventa è la naturalezza con cui si guardano e si commentano e si accettano atrocità e stragi di innocenti, come se fosse una cosa dovuta, un costo inevitabile da pagare.

Io sono contro tutte le guerre, la cosa più aberrante in assoluto che possa fare l’uomo; e sono contro tutte le armi. Se io potessi, non distruggerei solo i missili, i carri armati, le bombe nucleari, ma anche i fucili  per la caccia.  Ripudiare le guerre e le armi significa una cosa sola: eliminarle dalle nostre coscienze prima ancora che dai nostri arsenali.  Scriveva qualche giorno fa Marcello Veneziani: “la guerra è brutta non solo per chi uccide e per cosa distrugge, ma anche per cosa uccide e distrugge dentro di noi che siamo fuori, lontani. Ci rende peggiori. Oltre i crimini contro l’umanità dovremmo contemplare anche il caso inverso, il tifo dell’umanità per i crimini, sempre con la scusa di prevenire o combattere i crimini altrui. E poi la morte vista in tv è come un film, una fiction, in fondo per te non fa differenza. A meno che un missile entri dentro casa tua…”


venerdì 13 giugno 2025

Viaggio nel Cilento

 


Nella primavera del 1881 – a vent’anni dall’Unità d’Italia – un insigne studioso pugliese, Cosimo De Giorgi, intraprese un lungo viaggio esplorativo nel Cilento, con l’incarico di redigere una carta geologica del territorio. Nel percorrerlo tutto, dalle valli del Calore a quelle dell’Alento, ebbe modo di conoscere e studiare dettagliatamente anche le condizioni di vita e di lavoro dei suoi abitanti, nonché le caratteristiche antropologiche degli stessi, evidenziandone miserie e degrado, pregi e difetti. Il suo reportage è contenuto in un libro molto interessante “Viaggio nel Cilento” (pubblicato da Galzerano Editore) la cui lettura mi ha stimolato (da buon cilentano) a fare una breve riflessione. Sarebbe oltremodo interessante capire – a distanza di oltre 140 anni da quel viaggio – quanto le caratteristiche identitarie di quegli antichi abitanti della seconda metà dell’Ottocento appartengano ancora ai moderni cilentani. E’ chiaro che la mia non vuole essere un’analisi a valenza scientifica dell’intima natura dell’uomo cilentano: non ho né la competenza né gli strumenti conoscitivi per farla. Vorrei soltanto soffermarmi, con leggerezza, senza pregiudizi ed in maniera anche ironica, su alcuni aspetti caratteriali messi in evidenza dallo scrittore pugliese, il quale, “calandosi” tra gli uomini del Cilento, offre la possibilità di guardarsi allo specchio del passato e verificare cos’è cambiato in questo arco di tempo. 

La prima cosa che traspare dalla lettura del libro è la grande ospitalità che i cilentani sapevano offrire ai propri visitatori “un’ospitalità franca, cordiale e senza orpelli. E’ questa la pagina più bella che renderà simpatica a tutti gli Italiani questa regione, come ha lasciato in me dei ricordi carissimi”. Così scriveva De Giorgi, il quale, girando tra i diversi paesi ebbe la possibilità di sperimentare la bontà e la meravigliosa accoglienza che gli riservavano: infatti a Roccadaspide il Sindaco lo accolse “a braccia aperte e mi offrì una cortese e gradita ospitalità nel suo palazzo”; a Felitto i signori che lo ospitarono “furono cortesissimi e mi prodigarono nel breve tempo che mi  trattenni delle cure affettuose delle quali serberò perenne ricordo”; a Vallo della Lucania il sig. Ermenegildo “mi usò un mondo di cortesie nel tempo che mi trattenni da lui”; a Pollica i signori della Cortiglia si dimostrarono nei suoi confronti “gentilissimi e colti”; a Ortodonico “mi prodigarono mille cortesie”, a Rutino la famiglia Magnoni “mi fu cordialissima” e a Vatolla “fui accolto gentilmente”. 

I cilentani, insomma, erano e sono rimasti così: ospitali, dal carattere tranquillo e cortese. Ecco, bisogna tirar fuori il meglio della tradizione. E il meglio è rappresentato senza dubbio dall’accoglienza e dall’affabilità dei comportamenti che sono alla base della nostra forza e ci contraddistinguono. Il De Giorgi scriveva anche che il cilentano è in generale “docile, buono, quieto, laborioso, coraggioso e audace nei pericoli”. Però poi notava che era anche “geloso e vendicativo specialmente nella cerchia dei suoi parenti e conterranei”.  Escludo che lui, oggi, possa considerarsi vendicativo: la vendetta è un sentimento che non gli appartiene. E poi uno che possiede una grande dose di bontà non può pensare alla vendetta come mezzo di riparazione delle offese ricevute. Sarebbe una palese contraddizione. Aveva poi notato - il viaggiatore pugliese - che l’abitante di quel territorio aveva qualcosa dei popoli orientali quando cantava le sue canzoni intrise di frasi monotone e melanconiche che egli ripeteva in maniera cantilenante: canzoni in cui vi era sempre “l’impronta dell’amore disperato, della gelosia, dell’abbandono e della voluttà”. E’ difficile oggi immaginare le giovani generazioni (sempre con un cellulare tra le mai) votate a questo tipo di canto di stampo orientale. I mass media, l’omologazione dei comportamenti e… Sanremo hanno provveduto, in maniera definitiva, a cancellare ogni traccia di quel passato. Parlando poi dell’indole del contadino, De Giorgi scriveva che “è svelto, sobrio, perspicace per talento naturale non per educazione o per istruzione: ma il suo lavoro è profuso in modo cieco ed irrazionale, e serve più come forza muscolare che come intelligenza”. Ebbene, quando ho letto questa frase, il mio pensiero è andato immediatamente a ciò che mi disse, tempo fa, proprio un contadino del mio paese natale, il quale avendo visto il suo asino in difficoltà mentre stava per attraversare un ruscello, se lo caricò sulle spalle sussurrandogli in un orecchio: “mi puoi fottere con l’intelligenza ma non con la forza”. 

Nonostante il De Giorgi non viaggiasse per scopi artistici, tuttavia non poteva esimersi dal visitare i monumenti e i cimeli d’arte che incontrava lungo il suo percorso. “Quanti tesori di arte e di antichità sono nascosti in questi piccoli paesi”, così annotava tra i suoi appunti. A tal proposito ebbe modo di verificare, in diverse circostanze, che nel popolo cilentano il sentimento della bellezza e dell’arte “era ridotto ai minimi termini”. Infatti, osservando gli edifici pubblici oltre quelli privati, si era reso conto che non era raro “veder delle case a due e tre piani, belle e finite e mobiliate con lusso nell’interno, ma senza facciata”. Devo dire che questo vizio non l’abbiamo ancora perso, tant’è che girando per i paesi è facile imbattersi in queste costruzioni le cui rifiniture esterne lasciano molto a desiderare. Il De Giorgi aveva notato inoltre che la coltura dei fiori, che ingentilisce lo spirito e rallegra la vista, in quei posti era sconosciuta, tanto è vero che un ricchissimo proprietario gli rispose “che preferivano un cavolo cappuccio ad una rosa o a un gelsomino”. Ma la cosa più grave era che sia a Paestum che a Velia “l’incuria degli uomini verso i monumenti sa dei popoli barbari…la profanazione qui ha toccato l’apice e prosegue vandalicamente senza che nessun italiano pensi ad opporvi riparo”. Mi viene da pensare a tutte le spoliazioni di monumenti perpetrate sul suolo italico e non solo nel Cilento. Basti pensare al detto latino riferito a Roma: quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini. 

De Giorgi aveva inoltre riscontrato nella popolazione la mancanza di iniziativa, lo scarso spirito di associazione, una certa indolenza e indifferenza per le cose, caratteristiche queste che forse ancora ci appartengono e che riguarderebbero praticamente tutto il meridione. Ogni opera buona e degna di attenzione veniva accolta con freddezza e con indifferenza – rilevava De Giorgi – “va innanzi pel tenace buon volere di qualcuno, e poi rapidamente languisce. Invano l’Autorità superiore cerca di soffiare un po’ di vita nel corpo addormentato; difficilmente si sveglia e presto si addormenta”. Egli portava l’esempio di Vallo della Lucania, dove due monumentali fontane decoravano la piazza; ma erano simulacri senz’acqua nonostante i monti dei dintorni fossero ricchissimi di acque potabili. 

E mi chiedo, per finire: gli odierni cilentani si sono risvegliati da quell’antico torpore? Hanno abbandonato quell’atavico letargo che li costringeva all’inerzia? Sono stati capaci – nel corso degli anni – di esprimere una classe di amministratori locali all’altezza della situazione? I risultati sono sotto gli occhi di tutti e, nel bene e nel male, ognuno può trarre le proprie conclusioni. Mi viene da pensare che quando un popolo - qualunque esso sia - riesce a fare autocritica individuando la parte peggiore di sé, debba munirsi di strumenti adeguati per poterla combattere. E penso che debba anche investire tutte le risorse e le energie necessarie al fine di potenziare il meglio che gli appartiene.

lunedì 2 giugno 2025

Come sopravvivere alla modernità

 


“Considerare la modernità come una malattia è il primo passo per curarla”. Lo scrive lo scrittore Alain De Botton nel suo ultimo libro che si intitola “Come sopravvivere alla modernità”. Pur avendo portato benessere e ricchezza, pur avendo allungato l’aspettativa di vita, liberato l’uomo dalle fatiche fisiche e dalle malattie, la modernità ci ha alienati, ci ha resi più ansiosi, ci ha disorientati ed esasperati come non era mai accaduto prima. Ha trasformato il nostro modo di pensare e di sentire ed ha apportato una serie di cambiamenti radicali in molti ambiti della nostra vita. Il segno più evidente è dato dall’informazione: siamo sempre connessi con un altrove indefinito. Veniamo continuamente assaliti da notizie di guerre in corso, di disastri ambientali, di tragedie familiari e umanitarie, di pettegolezzi politici e mediatici, di fatti anche minimi che, pur accadendo nei posti più remoti del pianeta, entrano prepotentemente nella nostra esistenza, anche se non ci riguardano da vicino. Ma le notizie di cui abbiamo veramente bisogno – sostiene De Botton – sono quelle che ci parlino della necessità di riflettere sulle cose, di ascoltare, di apprezzare ciò che abbiamo, di essere gentili ed accoglienti, educati e civili, di tornare a stili di vita più umani. Notizie più vicine alle nostre esigenze, alla nostra sensibilità e alla nostra capacità di poterle elaborare, notizie che possano acquistare il rilievo che meritano e lasciar perdere tutto il resto, mantenendo l’indipendenza mentale necessaria per non essere sopraffatti dalla volontà di chi ci vuole omologati nelle sue forme più ottuse e spietate.

La modernità, così rapida nei cambiamenti e nel cancellare tutto ciò che appartiene al passato, ha scatenato, in chi fatica ad assecondare i gusti imposti dal mercato globale, un’ondata di nostalgia per le cose semplici di una volta. Ha generato elaborate fantasie di fuga verso isole lontane, rifugi di montagna, luoghi isolati o piccoli borghi a misura d’uomo dove prendere le distanze dal caos, dai continui stimoli pubblicitari, dalle macchine e da certe “sirene” che vogliono rubarci il tempo. Desideri estremi, questi, che pur non essendo destinati a tradursi in realtà, rappresentano tuttavia il sogno suggestivo di tante persone - compreso lo scrivente - di fronte ai disastri del nostro tempo.

Se avessimo il coraggio di mettere in discussione i ritmi frenetici della vita moderna e limitare l’uso dei suoi strumenti tecnologici di cui siamo diventati schiavi; se avessimo la forza di prendere le distanze da tutto ciò che appare urgente; se fossimo capaci di non seguire passivamente le mode imperanti, di stare lontani dai consumi superflui, ebbene ci renderemmo conto che, in fondo, abbiamo bisogno di poche cose e che starsene in una stanza silenziosa in compagnia dei nostri pensieri “è forse il luogo più produttivo in cui ci si possa trovare”. I pensieri più brillanti nascono quando abbiamo la possibilità di stare da soli, passeggiando in un bosco, guardando  fuori dalla finestra nei tempi vuoti della giornata, ascoltando il silenzio.

La modernità, dice l’autore del libro, ha costruito gli ambienti urbani più deprimenti, caotici e  sgradevoli che la storia ricordi, anche se  li ha resi funzionali. In un ambiente degradato, anche con una vita ricca dal punto di vista materiale, il nostro spirito ne  risente e si fiacca perché i luoghi in cui viviamo parlano di noi e ci condizionano. La modernità ci ha dato un mondo più ricco, non un mondo più bello. La sfida, perciò, è non perdere di vista il nostro bisogno di bellezza e lottare contro certe forze della modernità che ci impediscono di assecondarlo. E’ stata la conoscenza a guidare il progetto della modernità, e la strada da fare è ancora lunga. L’uomo è l’animale sapiente. La modernità sarà anche un’epoca confusa – conclude De Botton – ma la traiettoria del futuro è chiara: non solo continuare a soffrire a cicli ricorrenti, ma anche gettare sempre più luce sull’oscurità primordiale – in linea con le nostre migliori potenzialità – per capire come scongiurare i pericoli della modernità.