Alberto
Moravia è uno dei grandi narratori del ‘900. Tra i miei preferiti. Penso di aver letto quasi tutto di
lui, soprattutto durante gli anni del Liceo. Ricordo che lo incontrai un pomeriggio
di tanti anni fa: credo fosse il 1990, l’anno della sua morte. Passeggiava per
il centro storico di Roma, appoggiato al suo bastone, con quella sua andatura
claudicante e con quella sua espressione perennemente annoiata, in compagnia
della seconda moglie, Carmen Llera, di ben 45 anni più giovane di lui. Lo
confesso: mi sarebbe piaciuto salutarlo e dirgli che ero un suo fedele lettore
o, magari, avere un autografo, io che non ho mai chiesto autografi a nessuno.
Ma non me la sentii di disturbarlo. Devo dire, però, che gli andai dietro per
un po’, forse per trovare quel coraggio che mi mancava o forse per carpire
qualche sua parola, prima che entrasse in un cinema di Via del Corso, dove
proiettavano un bellissimo film che io collego sempre a quell’incontro rimasto
in sospeso: “Balla coi lupi”. Qualche giorno dopo lessi la sua recensione su
l’Espresso – lo scrittore allora collaborava con la rivista come critico
cinematografico - e mi colpì positivamente, tant’è che decisi di andare al
cinema a vedere il film.
Questo
“amarcord”, per dire che ho appena finito di leggere le lettere che Alberto Moravia
scrisse - dal 1947 al 1983 - a Elsa Morante, la sua prima moglie sposata nel
1941, raccolte in un volume pubblicato da Bompiani che si intitola “Quando
verrai sarò quasi felice”, titolo tratto proprio da una lettera che lo
scrittore le aveva inviato da Anacapri nel 1951. Sono lettere, queste, nate nei
momenti di reciproca lontananza fisica, durante i numerosi viaggi di lavoro
dello scrittore, che testimoniano la relazione affettiva e intellettuale della
coppia, relazione tanto passionale quanto tormentata che andò oltre la loro
separazione giunta dopo 25 anni, e mai sancita dal divorzio.
“Ho
molto amato Elsa Morante – ebbe a scrivere una volta Moravia – non sono mai
stato innamorato di lei. Innamorarsi è una cosa, amare è un’altra cosa”.
Scorrendo queste lettere si comprende come i due giganti della nostra
letteratura del Novecento - che riuscivano a catalizzare attorno a sé la
società letteraria di quel tempo, e non solo – si amassero litigando. “Uniti e
insieme divisi, per l’intera vita” come ha scritto la curatrice di questa
corrispondenza, Alessandra Grandelis che si occupa da tempo dell’opera omnia
dello scrittore romano. Devo dire che dalle lettere non si manifesta - se non a
livello sotterraneo - quel “demone della letteratura” che li univa, mentre
traspare con forza il lato umano, intimo e privato di Alberto Moravia, la sua
fragilità, la sua solitudine che avvertiva anche stando tra la gente, la sua
tristezza, le sue giornate “orribilmente noiose e angosciose” vissute a Roma. “Cara Elsa – scrive in una
lettera, proprio da Roma – mi sento così depresso come non sono mai stato in
vita mia. Non riesco a fare niente senza impazienza e noia e le giornate sono
un vero tormento per me. Ti prego però di non prendere troppo sul serio queste
mie lamentele. E’ sempre stato così. Adesso è un poco peggiorato, ecco tutto”. Moravia
appare saturo della vita di Roma, “i rumori terribili, il puzzo della benzina,
la folla, tutte cose stancanti e ossessive”. In una lettera inviata dalla
Iugoslavia nell’agosto del ‘64 fa presente di ritardare il suo rientro a Roma
perché odia quella città, gli è completamente straniera e non ci trova “più
niente che mi piaccia o per lo meno che me la faccia sopportare”.
Si
sente spesso infelice, Moravia, ha la sensazione di portare un “busto” che lo
“affligge molto”, si sente scontento di sé stesso e del lavoro che fa, non gli
piace star solo, ma neppure “di stare in compagnia di gente volgare e noiosa” e
allora avverte la necessità di evadere, viaggiare, cambiare aria. Le lettere
sono state spedite dalle località più diverse: Parigi, Londra, Francoforte, Tokyo,
New York, Leningrado…e Capri, dove spesso lo scrittore soggiorna, un’isola “che
sta avviandosi decisamente a rassomigliare ad una spiaggia del tipo di
Viareggio”, così scrive a Morante; preferisce invece Anacapri “il luogo che amo
di più al mondo”. Ma la cosa che più colpisce, leggendo questa corrispondenza,
è che Moravia declama sempre, in ogni occasione, il suo amore, il suo affetto a
Elsa: “penso spesso a te – le scrive da Roma nel settembre del ’59 – e voglio
dirti ancora una volta che tu sei la sola persona che conta nella mia vita e
che non desidero se non di renderti felice e di stare con te. Non credere però
(secondo il tuo solito) che io dica queste cose perché sei andata via e sei
lontana. Le dico perché oggettivamente e realmente questa è la verità”. Eppure, a volte Moravia appare in balia delle bizze e
delle stranezze della moglie, come quando lui le parla di quelle piccole cose
quotidiane di interesse comune che ci sono tra di loro. E lei, ogni volta,
sbotta. In una lettera che le invia da Roma nel 1961 ci tiene a rimarcare
questo suo aspetto impulsivo scrivendo alcune frasi in maiuscolo, come a voler
urlare la propria rabbia: “OGNI VOLTA CHE TI SI PARLA DI COSE MATERIALI FAI
DELLE SCENATE INVEROSIMILI ASSURDE. TUTTO QUESTO DEVE FINIRE UNA BUONA VOLTA.
HAI CAPITO?”. E’ una delle poche volte in cui Moravia sembra perdere le staffe
e abbandonare la sua calma, il suo affetto per la moglie Elsa Morante. Un
affetto che in qualche maniera durò tutta la vita. Lei morì nel 1985, Moravia
la raggiunse cinque anni dopo.