
Nella primavera del 1881 – a vent’anni dall’Unità d’Italia – un insigne
studioso pugliese, Cosimo De Giorgi, intraprese un lungo viaggio esplorativo
nel Cilento, con l’incarico di redigere una carta geologica del territorio. Nel
percorrerlo tutto, dalle valli del Calore a quelle dell’Alento, ebbe modo di
conoscere e studiare dettagliatamente anche le condizioni di vita e di lavoro
dei suoi abitanti, nonché le caratteristiche antropologiche degli stessi,
evidenziandone miserie e degrado, pregi e difetti. Il suo reportage è contenuto
in un libro molto interessante “Viaggio nel Cilento” (pubblicato
da Galzerano Editore) la cui lettura mi ha stimolato (da buon cilentano) a fare
una breve riflessione. Sarebbe oltremodo interessante capire – a distanza di
oltre 140 anni da quel viaggio – quanto le caratteristiche identitarie di quegli
antichi abitanti della seconda metà dell’Ottocento appartengano ancora ai
moderni cilentani.
E’ chiaro che la mia non vuole essere un’analisi a valenza scientifica
dell’intima natura dell’uomo cilentano: non ho né la competenza né gli strumenti
conoscitivi per farla. Vorrei soltanto soffermarmi, con leggerezza, senza
pregiudizi ed in maniera anche ironica, su alcuni aspetti caratteriali messi in
evidenza dallo scrittore pugliese, il quale, “calandosi” tra gli uomini del
Cilento, offre la possibilità di guardarsi allo specchio del passato e
verificare cos’è cambiato in questo arco di tempo.
La prima cosa che traspare dalla lettura del libro è la grande ospitalità
che i cilentani sapevano offrire ai propri visitatori “un’ospitalità
franca, cordiale e senza orpelli. E’ questa la pagina più bella che renderà
simpatica a tutti gli Italiani questa regione, come ha lasciato in me dei
ricordi carissimi”. Così scriveva De Giorgi, il quale, girando tra i
diversi paesi ebbe la possibilità di sperimentare la bontà e la meravigliosa
accoglienza che gli riservavano: infatti a Roccadaspide il Sindaco lo accolse “a
braccia aperte e mi offrì una cortese e gradita ospitalità nel suo palazzo”;
a Felitto i signori che lo ospitarono “furono cortesissimi e mi
prodigarono nel breve tempo che mi trattenni delle cure affettuose delle
quali serberò perenne ricordo”; a Vallo della Lucania il sig.
Ermenegildo “mi usò un mondo di cortesie nel tempo che mi trattenni da
lui”; a Pollica i signori della Cortiglia si dimostrarono nei suoi
confronti “gentilissimi e colti”; a Ortodonico “mi
prodigarono mille cortesie”, a Rutino la famiglia Magnoni “mi fu
cordialissima” e a Vatolla “fui accolto gentilmente”.
I cilentani, insomma, erano e sono rimasti così: ospitali, dal carattere
tranquillo e cortese. Ecco, bisogna tirar fuori il meglio della tradizione. E
il meglio è rappresentato senza dubbio dall’accoglienza e dall’affabilità dei
comportamenti che sono alla base della nostra forza e ci
contraddistinguono. Il De Giorgi scriveva anche che il cilentano è in
generale “docile, buono, quieto, laborioso, coraggioso e audace nei
pericoli”. Però poi notava che era anche “geloso e vendicativo
specialmente nella cerchia dei suoi parenti e conterranei”. Escludo
che lui, oggi, possa considerarsi vendicativo: la vendetta è un sentimento che
non gli appartiene. E poi uno che possiede una grande dose di bontà non può
pensare alla vendetta come mezzo di riparazione delle offese ricevute. Sarebbe
una palese contraddizione. Aveva poi notato - il viaggiatore pugliese - che
l’abitante di quel territorio aveva qualcosa dei popoli orientali quando
cantava le sue canzoni intrise di frasi monotone e melanconiche che egli
ripeteva in maniera cantilenante: canzoni in cui vi era sempre “l’impronta
dell’amore disperato, della gelosia, dell’abbandono e della voluttà”. E’
difficile oggi immaginare le giovani generazioni (sempre con un cellulare tra
le mai) votate a questo tipo di canto di stampo orientale. I mass media, l’omologazione
dei comportamenti e… Sanremo hanno provveduto, in maniera definitiva, a
cancellare ogni traccia di quel passato. Parlando poi dell’indole del
contadino, De Giorgi scriveva che “è svelto, sobrio, perspicace per
talento naturale non per educazione o per istruzione: ma il suo lavoro è
profuso in modo cieco ed irrazionale, e serve più come forza muscolare che come
intelligenza”. Ebbene, quando ho letto questa frase, il mio pensiero è
andato immediatamente a ciò che mi disse, tempo fa, proprio un contadino del
mio paese natale, il quale avendo visto il suo asino in difficoltà mentre stava
per attraversare un ruscello, se lo caricò sulle spalle sussurrandogli in un
orecchio: “mi puoi fottere con l’intelligenza ma non con la forza”.
Nonostante il De Giorgi non viaggiasse per scopi artistici, tuttavia non
poteva esimersi dal visitare i monumenti e i cimeli d’arte che incontrava lungo
il suo percorso. “Quanti tesori di arte e di antichità sono nascosti in
questi piccoli paesi”, così annotava tra i suoi appunti. A tal proposito
ebbe modo di verificare, in diverse circostanze, che nel popolo cilentano il
sentimento della bellezza e dell’arte “era ridotto ai minimi termini”.
Infatti, osservando gli edifici pubblici oltre quelli privati, si era reso
conto che non era raro “veder delle case a due e tre piani, belle e
finite e mobiliate con lusso nell’interno, ma senza facciata”. Devo
dire che questo vizio non l’abbiamo ancora perso, tant’è che girando per i
paesi è facile imbattersi in queste costruzioni le cui rifiniture esterne
lasciano molto a desiderare. Il De Giorgi aveva notato inoltre che la coltura
dei fiori, che ingentilisce lo spirito e rallegra la vista, in quei posti era
sconosciuta, tanto è vero che un ricchissimo proprietario gli rispose “che
preferivano un cavolo cappuccio ad una rosa o a un gelsomino”. Ma la cosa
più grave era che sia a Paestum che a Velia “l’incuria degli uomini
verso i monumenti sa dei popoli barbari…la profanazione qui ha toccato l’apice
e prosegue vandalicamente senza che nessun italiano pensi ad opporvi riparo”.
Mi viene da pensare a tutte le spoliazioni di monumenti perpetrate sul suolo
italico e non solo nel Cilento. Basti pensare al detto latino riferito a Roma: quod
non fecerunt barbari fecerunt Barberini.
De Giorgi aveva inoltre riscontrato nella popolazione la mancanza di
iniziativa, lo scarso spirito di associazione, una certa indolenza e
indifferenza per le cose, caratteristiche queste che forse ancora ci
appartengono e che riguarderebbero praticamente tutto il meridione. Ogni opera
buona e degna di attenzione veniva accolta con freddezza e con indifferenza –
rilevava De Giorgi – “va innanzi pel tenace buon volere di qualcuno, e
poi rapidamente languisce. Invano l’Autorità superiore cerca di soffiare un po’
di vita nel corpo addormentato; difficilmente si sveglia e presto si addormenta”.
Egli portava l’esempio di Vallo della Lucania, dove due monumentali fontane
decoravano la piazza; ma erano simulacri senz’acqua nonostante i monti dei
dintorni fossero ricchissimi di acque potabili.
E mi chiedo, per finire: gli odierni cilentani si sono risvegliati da quell’antico
torpore? Hanno abbandonato quell’atavico letargo che li costringeva
all’inerzia? Sono stati capaci – nel corso degli anni – di esprimere una classe
di amministratori locali all’altezza della situazione? I risultati sono sotto
gli occhi di tutti e, nel bene e nel male, ognuno può trarre le proprie
conclusioni. Mi viene da pensare che quando un popolo - qualunque esso sia -
riesce a fare autocritica individuando la parte peggiore di sé, debba munirsi
di strumenti adeguati per poterla combattere. E penso che debba anche investire
tutte le risorse e le energie necessarie al fine di potenziare il meglio che
gli appartiene.