Ritornare nel
“natio borgo selvaggio” - da cui forse non mi sono mai allontanato – è un rito
irrinunciabile che ripeto ogni estate. E’ il luogo dell’infanzia e
dell’adolescenza dove la “dolente bellezza” (prendo a prestito questa
suggestiva espressione di Carlo Levi in “Cristo si è fermato a Eboli”) non si
manifesta esplicitamente in opere d’arte, in fontane seicentesche e statue barocche,
ma la si scopre in certi angoli appartati, ben nascosta ad un osservatore
frettoloso, in certi panorami al tramonto, in certi scorci naturali avvolti
nella calura estiva, dove il silenzio è rotto solo dal canto incessante delle
cicale.
Ogni piccola
cosa degna di essere osservata bisogna scovarla, in un paese, e prendersene
cura affinché resista nel tempo; ogni ricordo va nutrito, coltivato, affinché
si rinnovi quell’ intesa di fiducia e fedeltà alle proprie radici, quel senso
di appartenenza su cui si fonda l’identità di una persona. E’ la casa in cui sei
nato; è la strada in cui hai giocato a pallone; è quell’albero di gelso su cui ti
sei arrampicato scorticandoti le ginocchia; sono le case abbandonate, un tempo
abitate da persone del posto che tu conoscevi; è il dialetto che hai parlato come
la sola lingua conosciuta; è il cimitero dove sono sepolti i tuoi cari; è quel
viottolo di campagna percorso in groppa all’asino del nonno; è il rintocco
delle campane a festa che chiamava a raccolta una comunità che, oggi, non
esiste più. Perché quel tempo non esiste più!
Immagini e
sensazioni che ritornano alla mente. Cose semplici colorite di infinite
illusioni che ti appaiono, adesso, come le scene di un teatro a spettacolo
finito, mentre senti il tuo cuore stretto da un’ indicibile malinconia. La
malinconia degli anni che passano e delle stagioni della vita che si
succedono, “del tacito infinito andar del tempo” .
E mentre te ne
stai in silenzio su quel terrazzino della casa avita che osserva il mare in
lontananza, riemerge - come un temporale improvviso che ti coglie alla
sprovvista e ti bagna – il ricordo di ciò che sei stato. E ti domandi cosa è
rimasto in te del tuo paese nativo, della vita di prima, quando non sapevi come
sarebbe stato il tuo futuro e il solo immaginarlo ti faceva stare male, perché
capivi che il futuro non poteva essere lì. E ti domandi ancora cosa è rimasto
di quella antica civiltà contadina esiliata dalla storia e con una concezione
del tempo del tutto diversa, dove i giorni, i mesi, gli anni si succedevano
monotoni senza che nulla cambiasse.
A volte si è costretti a spezzare gli antichi legami e partire. Ma poi arriva il momento del
ritorno. E ritornare nel luogo in cui tutto è cominciato significa compiere una
sorta di cammino a ritroso e guardare la realtà che ritrovi con occhi diversi.
Ma niente è più come prima. Quella zona lontana che chiami passato non è altro
che uno spazio d’oblio: eppure attende il momento per risorgere. Se ne sta
nascosto in qualche anfratto, magari in un insospettabile oggetto, in un
delicato profumo di madeleine. Perché – come scriveva Proust - “l’odore
e il sapore permangono ancora a lungo come anime a ricordare, ad
attendere, a sperare, sulla rovina di tutto, a sorreggere senza tremare – loro,
goccioline quasi impalpabili – l’immenso edificio del ricordo”.
La bellezza e l'intensità di ciò che riporti sono talmente forti da lasciarmi senza parole, ma con il cuore gonfio di emozione condivisa.
RispondiEliminaGrazie infinite.
Proprio oggi ho prenotato tre giorni di ritorno nel mio "immenso edificio del ricordo", dove riporteremo anche papà novantaduenne per una toccata e fuga, festival della memoria in un paesino che non è il nostro nativo, ma dove ho trascorso una vita.
RispondiEliminaQuando scrissi "Non cambiano i luoghi, forse neanche il tempo scorre. Sono i nostri occhi che viaggiano famelici a ritroso",
parlavo di Scauri.
Se vai in vacanza estiva nello stesso luogo per sessant'anni circa, anche solo un mese l'anno (Settembre, che diventa il tuo mese feticcio), quel luogo è giocoforza testimone della tua crescita, delle tue scelte: amori, lacrime, gioco, paure, passioni, sconfitte, meraviglie, fobie, curiosità, legami.
E a me succede di non poterci più ricapitare ogni volta senza scombussolarmi, senza subire lo scossone del "viaggio nel tempo", scorgere persone che non ci sono più, tornare ad età irrimediabilmente perse.
Sulla strada, lungo il tragitto per il mare, scorgi già il traguardo, percepisci odori, avverti scenari, magiche quinte mai del tutto riposte.
Se non hai memoria vivida a sostenerti, certi luoghi che ti appartengono, cui sei appartenuto, ti squarciano dentro appena arrivi, aprono scrigni chiusi di cui altrimenti non possiedi combinazione.
E la chiave la trovi ora ad ogni angolo di via, lembo di spiaggia, ricamo di orizzonte, aroma di ciambella ancora calda.
Il lungomare che raccoglie sospiri, l'amaro col ghiaccio sul molo che tiene la luna appollaiata all'orizzonte, le cozze in guazzetto, i tramonti che finiscono dritti su Ponza e sempre una vagonata di passato da tenere vivo coi piedi a mollo, ma tutto questo può farti anche male. Mi fa male, procura bellezza indicibile ma anche nostaglia assurda.
Quando parli del tuo paese natio riesci a far vibrare le corde emotive anche in chi ti legge. Ti domandi cosa è rimasto in te di quel paese, io credo molto, come tu lo avessi assimilato nel suo stare defilato, nella “dolente bellezza” delle piccole cose, che per lui sono le pietre del selciato o dei muretti a secco e per te le parole che scrivi con cura su un blog in ombra. E poi c’è quella simmetria nell’essere entrambi superati dai tempi, lui, il paese, fuori dalle rotte del turismo, tu, fuori dalle rotte commerciali delle tecnologie e dei libri freschi di stampa.
RispondiEliminamassimolegnani