Quando
ti trovi a discutere dell’attuale incontrollabile sviluppo tecnologico e
digitale, che sta cambiando il mondo e le sue regole di vita, è facile che si
crei una netta contrapposizione tra i sostenitori tout court di questa
rivoluzione globale e chi invece – come il sottoscritto - nutre più dubbi che certezze nei suoi
confronti.
La
tecnica sta producendo nel mondo, attraverso le sue innovazioni e i suoi
strumenti altamente invasivi, scenari inquietanti e incontrollabili.
E il genere umano, sotto questa continua spinta, sta subendo una vera e propria
mutazione antropologica e culturale. Prendiamo, per esempio, l’intelligenza
artificiale, ossia quell’insieme di capacità tecnologiche in grado di eseguire
una serie infinita di funzioni avanzate, attraverso una macchina, e riprodurre quei processi mentali più
complessi, propri di un essere umano. Ebbene, in molti campi potrebbe essere
anche utile e preziosa, aiutando così l’umanità ad ampliare le possibilità di
conoscenza. Ma quando poi leggo che grazie all’I.A. le immagini, le parole, il
volto di una persona e i fatti possono essere travisati e sostituiti, senza che
nessuno sia in grado di distinguere il vero dal falso, allora non posso non
preoccuparmi. E chiedermi: chi dovrà fermare l’intelligenza artificiale quando
diventa così pericolosa? L’umanità è già in pericolo da quando è stata
inventata la bomba atomica e tutte le altre armi chimiche e nucleari di
distruzione di massa. Di pazzi che governano il mondo io ne vedo tanti in giro
e non vorrei che a questi si aggiungesse pure un robot di grande intelligenza,
ma impazzito. Diceva Gunther Anders (non smetterò mai di citarlo) che “ciò
che sappiamo produrre non possiamo non produrlo, ma anche perché non possiamo
non usare ciò che abbiamo prodotto. Stando così le cose – diceva ancora
Anders - viviamo in un’era nella quale gestiamo la produzione della nostra
stessa distruzione (ciò che non sappiamo è solo il momento in cui essa avverrà)”.
Questo per dire che la nostra capacità di fare è enormemente superiore alla
capacità di prevedere gli effetti deleteri del nostro fare.
Sarebbe
urgente, allora, un ripensamento del modus operandi che tenga conto di
quella distinzione tanto cara a Pasolini tra “sviluppo” e “progresso”. E la
nostra epoca - non dimentichiamolo - agisce secondo logiche di mercato e di
sviluppo, non di progresso. Il “progresso” è quella condizione che determina
l’elevazione culturale e morale e spirituale di un paese, da cui nasce una
migliore qualità della vita. Ho l’impressione che oggi questa crescita
qualitativa arranchi (se non è già scomparsa), di fronte al processo
tecnico-economico-produttivo - lo sviluppo, appunto - che avanza sempre più
velocemente, attivando cambiamenti e sconvolgimenti in tempi brevissimi.
Nel
nome di uno scellerato sviluppo tecnologico, pieno di effetti collaterali
negativi e di una crescita economica illimitata, stiamo mettendo a repentaglio anche
il clima del pianeta, contaminando l’aria, l’acqua e il suolo. Perché dobbiamo
correre e produrre e consumare sempre di più, altrimenti l’economia collassa.
Così ci dicono. Ma siamo davvero sicuri che questa sia la strada giusta da
percorrere per costruire il migliore dei mondi possibili? Io penso che l’uomo debba
ristabilire con la natura l’equilibrio perduto e tornare a coltivare il suo
limite umano, anche avvalendosi della tecnica ma senza che la stessa diventi il
potere assoluto e dominante nel mondo.
Condivido le tue parole e lo scenario che prospetti.
RispondiEliminaUn’intelligenza più intelligente di chi l’ha creata e’ un evidente pericolo per l’uso distorto che se ne può fare.
massimolegnani
Condivido pienamente, soprattutto la distinzione necessaria tra sviluppo e progresso. Lo sviluppo senza progresso è foriero del miglioramento della qualità della vita soltanto per una ristretta élite, è sostanzialmente un regresso verso una condizione che purtroppo ha caratterizzato la maggior parte della storia umana e a cui purtroppo sembriamo tendere quasi spontaneamente. Oltretutto, perseverare nell'insostenibilità economica e ambientale alla fine ingoierà anche gli stessi fautori. Coloro che asseriscono che occorra continuare a produrre e consumare sono disonesti intellettualmente o attuano mere strategie per preservare le proprie ricchezze, sicuri che i tempi peggiori, quelli apocalittici, siano lontani e responsabilità di discendenti sfortunati, o si tratta di sprovveduti: la tua chiosa finale è perfettamente condivisibile: la tecnica deve tornare strumento dell'uomo, che deve ricominciare a progredire in senso olistico e pervasivo e tornare a porre sani valori alla guida del nostro vivere e agire, tra cui la consapevolezza di essere parte della natura e non esseri superiori alla stessa.
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