mercoledì 12 marzo 2025

Una mutazione antropologica

 


Quando ti trovi a discutere dell’attuale incontrollabile sviluppo tecnologico e digitale, che sta cambiando il mondo e le sue regole di vita, è facile che si crei una netta contrapposizione tra i sostenitori tout court di questa rivoluzione globale e chi invece – come il sottoscritto -  nutre più dubbi che certezze nei suoi confronti.

La tecnica sta producendo nel mondo, attraverso le sue innovazioni e i suoi strumenti altamente invasivi, scenari inquietanti e incontrollabili. E il genere umano, sotto questa continua spinta, sta subendo una vera e propria mutazione antropologica e culturale. Prendiamo, per esempio, l’intelligenza artificiale, ossia quell’insieme di capacità tecnologiche in grado di eseguire una serie infinita di funzioni avanzate, attraverso una macchina, e riprodurre quei processi mentali più complessi, propri di un essere umano. Ebbene, in molti campi potrebbe essere anche utile e preziosa, aiutando così l’umanità ad ampliare le possibilità di conoscenza. Ma quando poi leggo che grazie all’I.A. le immagini, le parole, il volto di una persona e i fatti possono essere travisati e sostituiti, senza che nessuno sia in grado di distinguere il vero dal falso, allora non posso non preoccuparmi. E chiedermi: chi dovrà fermare l’intelligenza artificiale quando diventa così pericolosa? L’umanità è già in pericolo da quando è stata inventata la bomba atomica e tutte le altre armi chimiche e nucleari di distruzione di massa. Di pazzi che governano il mondo io ne vedo tanti in giro e non vorrei che a questi si aggiungesse pure un robot di grande intelligenza, ma impazzito. Diceva Gunther Anders (non smetterò mai di citarlo) che “ciò che sappiamo produrre non possiamo non produrlo, ma anche perché non possiamo non usare ciò che abbiamo prodotto. Stando così le cose – diceva ancora Anders - viviamo in un’era nella quale gestiamo la produzione della nostra stessa distruzione (ciò che non sappiamo è solo il momento in cui essa avverrà)”. Questo per dire che la nostra capacità di fare è enormemente superiore alla capacità di prevedere gli effetti deleteri del nostro fare.

Sarebbe urgente, allora, un ripensamento del modus operandi che tenga conto di quella distinzione tanto cara a Pasolini tra “sviluppo” e “progresso”. E la nostra epoca - non dimentichiamolo - agisce secondo logiche di mercato e di sviluppo, non di progresso. Il “progresso” è quella condizione che determina l’elevazione culturale e morale e spirituale di un paese, da cui nasce una migliore qualità della vita. Ho l’impressione che oggi questa crescita qualitativa arranchi (se non è già scomparsa), di fronte al processo tecnico-economico-produttivo - lo sviluppo, appunto - che avanza sempre più velocemente, attivando cambiamenti e sconvolgimenti in tempi brevissimi.

Nel nome di uno scellerato sviluppo tecnologico, pieno di effetti collaterali negativi e di una crescita economica illimitata, stiamo mettendo a repentaglio anche il clima del pianeta, contaminando l’aria, l’acqua e il suolo. Perché dobbiamo correre e produrre e consumare sempre di più, altrimenti l’economia collassa. Così ci dicono. Ma siamo davvero sicuri che questa sia la strada giusta da percorrere per costruire il migliore dei mondi possibili? Io penso che l’uomo debba ristabilire con la natura l’equilibrio perduto e tornare a coltivare il suo limite umano, anche avvalendosi della tecnica ma senza che la stessa diventi il potere assoluto e dominante nel mondo.


2 commenti:

  1. Condivido le tue parole e lo scenario che prospetti.
    Un’intelligenza più intelligente di chi l’ha creata e’ un evidente pericolo per l’uso distorto che se ne può fare.
    massimolegnani

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  2. Condivido pienamente, soprattutto la distinzione necessaria tra sviluppo e progresso. Lo sviluppo senza progresso è foriero del miglioramento della qualità della vita soltanto per una ristretta élite, è sostanzialmente un regresso verso una condizione che purtroppo ha caratterizzato la maggior parte della storia umana e a cui purtroppo sembriamo tendere quasi spontaneamente. Oltretutto, perseverare nell'insostenibilità economica e ambientale alla fine ingoierà anche gli stessi fautori. Coloro che asseriscono che occorra continuare a produrre e consumare sono disonesti intellettualmente o attuano mere strategie per preservare le proprie ricchezze, sicuri che i tempi peggiori, quelli apocalittici, siano lontani e responsabilità di discendenti sfortunati, o si tratta di sprovveduti: la tua chiosa finale è perfettamente condivisibile: la tecnica deve tornare strumento dell'uomo, che deve ricominciare a progredire in senso olistico e pervasivo e tornare a porre sani valori alla guida del nostro vivere e agire, tra cui la consapevolezza di essere parte della natura e non esseri superiori alla stessa.

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