In fondo, ciascuno di noi osserva e interpreta il mondo secondo la propria visione
ideale della vita. Viviamo in un mondo globalizzato e chi non è allineato e si
oppone alla tirannia degli imperativi tecnologici e mercantili è destinato,
prima o poi, ad affondare aggrappato al suo mondo, come un naufrago alla sua
zattera. E’ come dire che oggi la globalizzazione miete vittime metaforiche
lungo il suo percorso inarrestabile.
Combattere per le cause perse, sostenere moralmente gli sconfitti è un segno
di nobiltà d’animo. Gli sconfitti dalla vita, quelli che non si adeguano al
potere dominante, alle consuetudini, alle mode, alla uniformità del pensiero e
che hanno difficoltà a vivere una vita cosiddetta “normale” godono della mia solidarietà.
Ho come l’impressione che i vinti abbiano sguardi più umani e pensieri più
leggeri, che siano liberi da convenzioni e opportunità, portatori di dubbi e
non di certezze. E accettino, in solitudine, il malinconico verdetto della vita
che li consegna all’oblio. I vincenti, al contrario, gli arrampicatori sociali,
coloro che rincorrono successo e potere e fama e soldi e cavalcano l’onda del
tempo, ossessionati dal culto dell’affermazione e dell’apparenza, mi annoiano
terribilmente. Preferisco le storie degli insicuri, di coloro che si perdono
per strada o che sono sempre alla ricerca di qualcosa ma non sanno mai quale. Chissà!
Forse cercano proprio sé stessi e questo faticoso cammino esistenziale me li
rende simpatici. Amabili.
La letteratura è piena di sconfitte e di perdenti. Molti grandi scrittori,
soprattutto del passato, hanno sublimato i propri fallimenti in capolavori
letterari. Penso a Pessoa che scriveva “porto con me la consapevolezza
della sconfitta come un vessillo di vittoria”; penso a Pavese e al suo
disagio esistenziale che lo portò al suicidio; penso a Proust e al suo
rapporto di amore/odio con il tempo a cui dedicò forse la sua unica forma di
vita: la scrittura di quel capolavoro che è la Recherche; penso a Pasolini
che intendeva educare le giovani generazioni al valore della sconfitta e
all’umanità che ne deriva. E penso a Henry David Thoreau, teorico della disubbidienza civile dell’America dei primi anni
dell’Ottocento, quell’America che si stava affacciando al progresso tecnologico
ed ai consumi. Thoreau disapprovava gli ideali mercantili della sua epoca,
inseguiva un ideale di vita più umano ed equilibrato, a stretto contatto con la
natura ed in sintonia con il ciclo delle stagioni. Lui appare come la prima
vittima della nascente globalizzazione.
I vincitori
fanno la storia – questo lo sappiamo - ma sono i perdenti che ne smascherano le
ingiustizie, le menzogne, i soprusi. L’archetipo del perdente è Don Chisciotte della Mancia, l’eroe di Cervantes,
che insegue ideali cavallereschi ormai scomparsi e combatte la sua battaglia
contro la limitatezza della realtà che non rispecchia i suoi sogni. Lui vive il
suo vaneggiamento inattuale con passione e combatte instancabilmente le sue
battaglie. E’ la sua sconfitta a renderlo umano; è la sua sconfitta a dare il
senso del limite alla sua azione; è la sua sconfitta a farmelo amare. E come
non ricordare i perdenti o “inetti” di Italo Svevo - da Alfonso Nitti
a Emilio Brentani a Zeno Cosini – icone del fallimento
esistenziale e dell’incapacità di adattarsi al contesto sociale; e poi JaKob
von Gunten dell’omonimo romanzo di Robert Walser (che voleva
essere uno zero assoluto). Un eterno sconfitto appare Stoner,
dell’omonimo romanzo di John Williams, eroe buono della normalità che
subisce gli eventi della vita senza mai alzare la voce. Grande e nobile
sconfitto dalla storia è il Principe Fabrizio Salina, straordinario
personaggio de “Il Gattopardo” che non incarna – come comunemente si
crede – l’opportunismo da voltagabbana di chi cambia tutto per non cambiare
nulla, pur di rimanere a galla, ma il suo esatto contrario: la capacità di saper
perdere e affondare, con eleganza, insieme al suo mondo. La nobiltà della
sconfitta.
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