sabato 8 febbraio 2025

Biglietto lasciato prima di non andar via

 


Se non dovessi tornare,

sappiate che non sono mai

partito.

Il mio viaggiare

è stato tutto un restare

qua, dove non fui mai.

 

Giorgio Caproni

 

Ho letto e riletto, tante volte, questa breve poesia di Giorgio Caproni, cercando di afferrare quell’ intima e misteriosa essenza che si nasconde tra i suoi versi: ma non so se ci sono riuscito. La poesia, qualsiasi poesia, si presta sempre a innumerevoli chiavi di lettura. E la nostra non sempre coincide con quella dell’autore.

Il viaggio, lo sappiamo, è la metafora della vita: si viaggia, vivendo. Ma è un viaggio che si può fare anche senza partire: restando. D’altra parte, il mondo intorno a noi è sempre in movimento, è in continuo cambiamento e, quindi, non partire potrebbe essere una regola diversa del viaggiare. Ma viaggiare presuppone sempre un tornare. E non tornare significa morire. “Se non dovessi tornare – dice il poeta - sappiate che non sono mai partito”. E’ il suo epitaffio. Il poeta non parte e non torna: è in continuo viaggio con la sua poesia. E la poesia non muore mai, ti fa viaggiare con la fantasia e ti fa restare anche laddove non sei mai stato.


6 commenti:

  1. Forse un indizio nel titolo: si lascia un biglietto di saluto magari a se stessi, con la voglia, il desiderio di andar via, quasi un incentivo a cercare bene e meglio tra le pieghe del rimanere.
    Se mi vedrete incantato ad occhi aperti davanti un'alba che ci mette una vita a scrollarsi di dosso il buio, sappiate che sono partito oer un dove sconosciuto.
    Per quanto mi riguarda, quando scrivo incauti versi, questi non mi appartengono più già un istante dopo, faccio fatica ad interpretarne l'anima, dileguatasi repentina come un sogno al risveglio.

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    1. Forse è vero: i versi di una poesia, una volta scritti, non appartengono più al suo autore ma a chi sa raccoglierli. E interpretarli. Ciao Franco

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  2. Conosco poco Caproni, ma non mi fa pensare a uno spirito burlone alla Palazzeschi. Qui è un non volere fornire coordinate, e’ un rendersi irreperibile, un essere estraneo alle categorie del mondo.
    massimolegnani

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    1. Neanch’io penso che Giorgio Caproni fosse “uno spirito burlone alla Palazzeschi”, anche se questa poesia può, in qualche maniera, farlo apparire tale. Ero uno spirito malinconico che attingeva la propria linfa poetica dal quotidiano con parole semplici e delicate. Buona domenica ml

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  3. " Il poeta non parte e non torna: è in continuo viaggio con la sua poesia. E la poesia non muore mai, ti fa viaggiare con la fantasia e ti fa restare anche laddove non sei mai stato."

    Posso dire di averci visto un forte nesso con il tema della restanza di Vito Teti?Autore che hai riportato tra l'altro diverse volte tra le pagine ingiallite del tuo blog:)

    Teti se ben ricordo mette in contrasto il termine restare e restanza ,ma in un modo e nell'altro anche questo è espressione di viaggio.Anche se il restare fa intravedere qualcosa di immobile ,di statico,la restanza in questo caso è poesia stessa, suggerendo al lettore un movimento che non si spegne mai ,anche solo usando la fantasia.
    Chiave di lettura alquanto strana la mia ,ma non è certo un voler girare o giocare con le parole che in fondo risuonano in modo inequivocabile con la percezione del tempo e il suo abitarci dentro :)

    Buon fine settimana a te e a tutti i tuoi cari lettori

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    1. Brava L., hai visto bene: esiste un nesso con il tema della "restanza" dell'antropologo Vito Teti. Pensa che Caproni ha scritto una poesia che si intitola "Perchè restare". La riporto di seguito. Ciao e buon fine settimana a te. :)

      Chi sia stato il primo, non
      è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.
      Poi, uno dopo l’altro, tutti han preso la stessa via.
      Ora non c’è più nessuno.
      La mia
      casa è la sola
      abitata.
      Son vecchio
      Che cosa mi trattengo a fare,
      quassù, dove tra breve forse
      nemmeno ci sarò più io
      a farmi compagnia?
      Meglio – lo so – è ch’io bada
      prima che me ne vada anch’io.
      Eppure, non mi risolvo. Resto.
      Mi lega l’erba. Il bosco.
      Il fiume. Anche se il fiume è appena
      un rumore ed un fresco
      dietro le foglie.
      La sera
      siedo su questo sasso, e aspetto.
      Aspetto non so che cosa, ma aspetto.
      Il sonno. La morte direi, se anch’essa
      da un pezzo – già non se ne fosse andata
      da questi luoghi.
      Aspetto
      e ascolto.
      (L’acqua,
      da quanti milioni d’anni, l’acqua,
      ha questo suo stesso suono
      sulle sue pietre?)
      Mi sento
      perso nel tempo.
      Fuori
      del tempo, forse.
      Ma sono
      con me stesso. Non voglio
      lasciare me stesso uscire
      da me stesso come,
      dal sotterraneo
      il grillotalpa in cerca
      d’altro buio.
      Il trifoglio
      della città è troppo
      fitto. Io son già cieco.
      Ma qui vedo. Parlo.
      Qui dialogo. Io
      qui mi rispondo e ho il mio
      interlocutore. Non voglio
      murarlo nel silenzio sordo
      d’un frastuono senz’ombra
      d’anima. Di parole
      senza più anima.

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