Io penso che nel mondo della letteratura nessuno sia riuscito a cogliere meglio la natura peculiare di una comunità - illustrandone le caratteristiche più profonde attraverso storie umane – come gli scrittori siciliani dei loro conterranei. Da Verga a Pirandello, da Patti a Brancati, da De Roberto a Tomasi di Lampedusa, tutti questi grandi autori - provenienti da quella “provincia dell’intelligenza”, per usare una felice espressione di Leonardo Sciascia - hanno descritto la condizione umana ed esistenziale dell’essere siciliani, sintetizzabile in una sola parola: sicilianità. Attraverso le loro opere hanno svelato il carattere distintivo di un popolo, nel bene e nel male, fortemente influenzato dal passaggio di tante altre civiltà conquistatrici, a cominciare dai greci e dai bizantini, e poi via via dagli arabi, dai normanni e dagli spagnoli.
Durante le mie letture credo di essermi imbattuto
in tre tipologie diverse di sicilianità: e sono sicuro che non sono le uniche,
ammesso che si possa catalogare l’identità socio-culturale di un paese e dei
suoi abitanti. La prima che mi viene in mente è quella che aleggia nei libri di
Vitaliano Brancati e del suo grande amico e scrittore Ercole Patti: una
sicilianità incarnata da personaggi maldestri e smidollati, perdigiorno disincantati,
improbabili seduttori, vanitosi e indolenti, che vivacchiano in un’isola
assolata e addormentata, dove comicità e
tragedia, ironia e scherno, commedia e farsa si mescolano. Un modo di essere siciliani, questo, condizionato da convenzioni sociali e
pregiudizi e incentrato in un microcosmo dove la vita scorre lenta e immobile,
monotona, noiosa…e dolce. Ma così dolce, ebbe a scrivere lo stesso Patti, “che
si poteva invecchiare senza accorgersene e ritrovarsi ad averla vissuta tutta
senza averne avuto coscienza, rimanendo sempre figli di famiglia. Questo era il
dolcissimo veleno di Catania”.
Poi c’è la sicilianità che traspare dai libri di
Verga e Pirandello, precursori di uno scavo psicologico dei personaggi e, al
tempo stesso, sostenitori dei valori e delle tradizioni di una terra antica, ma
anche interpreti del divario economico e culturale che si era venuto a creare a
seguito dell’Unità d’Italia tra nord e sud. E’ la Sicilia degli ultimi, dei
pescatori, dei contadini, degli strati sociali più poveri dell’isola, chiusi nella loro gretta mentalità, legati a
rituali arcaici e sorretti da codici d’onore, sempre in lotta tra di loro,
incapaci di aprirsi agli altri per trovare un reciproco positivo sostegno.
E, infine, c’è l’aristocrazia terriera e poi la
borghesia che per molti secoli hanno rappresentato il potere politico,
economico e sociale della Sicilia, forse l’espressione più alta, più ricca, più
discutibile della sicilianità, fatta di luci e di ombre, di legalità e ingiustizia,
di bellezza e bruttezza, mirabilmente descritta da Federico De Roberto e Tomasi
di Lampedusa in quei due capolavori della nostra letteratura che sono “I
Vicerè” e “Il Gattopardo”, le cui vicende si pongono a cavallo di due epoche:
la borbonica e la sabauda. Al centro della narrazione, due illustri e nobili
casate: la famiglia Uzeda di Francalanza – i Vicerè, nelle cui vene scorre
sangue regale spagnolo – e la famiglia principesca dei Salina che ruota intorno
al fascino irresistibile del protagonista, il Principe Fabrizio, metafora
idealizzata dell’aristocrazia siciliana, colta e raffinata tardo-ottocentesca.
Due saghe familiari rivelatrici di un ambiguo rapporto di attrazione-avversione
verso un mondo scomparso, ma all’epoca dominante nell’isola.
Se dal romanzo di De Roberto emerge un potere cinico,
sprezzante, che si regge su latifondi messi a rendita, i cui protagonisti -
morbosamente attaccati alla roba e ai
titoli nobiliari - si detestano e si tiranneggiano a vicenda, pur di conquistare
ricchezza e prestigio; dall’opera di Tomasi di Lampedusa affiora l’orgoglio di
una dinastia decadente, alla fine del suo splendore, incarnata da Don Fabrizio,
Principe di Salina. Il quale, incalzato dal Segretario prefettizio arrivato
direttamente dal Piemonte, con il compito di convincerlo ad accettare la nomina
a Senatore del futuro Regno d’Italia, declina decisamente l’offerta,
pronunciando un lungo e intenso monologo - una sorta di testamento spirituale -
che sancisce, come nessuno aveva mai fatto, la “sicilianità” di un intero popolo.
“Sono venticinque secoli almeno che portiamo
sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee – dice il Principe di Salina - tutte venute da fuori già complete e
perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il
“là” (…) Il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi
li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra
noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel
bagaglio. (…) tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito
serviti, presto detestati e sempre incompresi (…) vengono per insegnarci le
buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi (…) i Siciliani non
vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti:
la loro vanità è più forte della loro miseria (…) La Sicilia ha voluto dormire,
a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca,
se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in
una parola?”
Interessanti le sfaccettature della sicilianita’ che tratteggi sulla scorta dei suoi autori più famosi
RispondiEliminamassimolegnani
Grazie per l'apprezzamento. Un saluto
EliminaProprio in questi giorni stiamo guardando la versione netflixiana de Il Gattopardo, curata e godibile, spettacolirizzata ma capace di trasmettere quel culto di sicilianità che Tomasi di Lampedusa voleva comunicare: quel "la loro vanità è più forte della loro miseria" traspare ed emerge prepotente, la forza e l'impotenza, il principe di Salina protagonista e vittima della sua terra, del suo microcosmo sempre stato comunque regno a se. Come continua ad esserlo a distanza di decenni.
RispondiEliminaBrancati l'ho adorato comunque, più dei Verga e dei Pirandello, "operettine morali", come qualcuno definì I piaceri, che definiscono con precisione quella sicilianità di cui, per legame di sangue, sento di far parte..
Il Gattopardo è uno dei romanzi che più amo. L'ho letto tre volte. E poi, quel Don Fabrizio principe di Salina interpretato da Burt Lancaster nel film di Visconti è straordinario. Sono affezionato anche a Brancati: l'ho letto soprattutto in età giovanile. Ciao
EliminaGli autori classici che citi hanno tratteggiato gli aspetti della sicilianità più vari (del resto, le sfaccettature sono molteplici in secoli di cultura stratificata), io aggiungo un contemporaneo che ha scritto un libro bellissimo dove la miseria materiale (e morale) ha un ruolo importante in una Sicilia che si ama o si odia: "Nato in Sicilia" di Enzo Russo, letto due volte e amato moltissimo.
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