mercoledì 12 marzo 2025

Una mutazione antropologica

 


Quando ti trovi a discutere dell’attuale incontrollabile sviluppo tecnologico e digitale, che sta cambiando il mondo e le sue regole di vita, è facile che si crei una netta contrapposizione tra i sostenitori tout court di questa rivoluzione globale e chi invece – come il sottoscritto -  nutre più dubbi che certezze nei suoi confronti.

La tecnica sta producendo nel mondo, attraverso le sue innovazioni e i suoi strumenti altamente invasivi, scenari inquietanti e incontrollabili. E il genere umano, sotto questa continua spinta, sta subendo una vera e propria mutazione antropologica e culturale. Prendiamo, per esempio, l’intelligenza artificiale, ossia quell’insieme di capacità tecnologiche in grado di eseguire una serie infinita di funzioni avanzate, attraverso una macchina, e riprodurre quei processi mentali più complessi, propri di un essere umano. Ebbene, in molti campi potrebbe essere anche utile e preziosa, aiutando così l’umanità ad ampliare le possibilità di conoscenza. Ma quando poi leggo che grazie all’I.A. le immagini, le parole, il volto di una persona e i fatti possono essere travisati e sostituiti, senza che nessuno sia in grado di distinguere il vero dal falso, allora non posso non preoccuparmi. E chiedermi: chi dovrà fermare l’intelligenza artificiale quando diventa così pericolosa? L’umanità è già in pericolo da quando è stata inventata la bomba atomica e tutte le altre armi chimiche e nucleari di distruzione di massa. Di pazzi che governano il mondo io ne vedo tanti in giro e non vorrei che a questi si aggiungesse pure un robot di grande intelligenza, ma impazzito. Diceva Gunther Anders (non smetterò mai di citarlo) che “ciò che sappiamo produrre non possiamo non produrlo, ma anche perché non possiamo non usare ciò che abbiamo prodotto. Stando così le cose – diceva ancora Anders - viviamo in un’era nella quale gestiamo la produzione della nostra stessa distruzione (ciò che non sappiamo è solo il momento in cui essa avverrà)”. Questo per dire che la nostra capacità di fare è enormemente superiore alla capacità di prevedere gli effetti deleteri del nostro fare.

Sarebbe urgente, allora, un ripensamento del modus operandi che tenga conto di quella distinzione tanto cara a Pasolini tra “sviluppo” e “progresso”. E la nostra epoca - non dimentichiamolo - agisce secondo logiche di mercato e di sviluppo, non di progresso. Il “progresso” è quella condizione che determina l’elevazione culturale e morale e spirituale di un paese, da cui nasce una migliore qualità della vita. Ho l’impressione che oggi questa crescita qualitativa arranchi (se non è già scomparsa), di fronte al processo tecnico-economico-produttivo - lo sviluppo, appunto - che avanza sempre più velocemente, attivando cambiamenti e sconvolgimenti in tempi brevissimi.

Nel nome di uno scellerato sviluppo tecnologico, pieno di effetti collaterali negativi e di una crescita economica illimitata, stiamo mettendo a repentaglio anche il clima del pianeta, contaminando l’aria, l’acqua e il suolo. Perché dobbiamo correre e produrre e consumare sempre di più, altrimenti l’economia collassa. Così ci dicono. Ma siamo davvero sicuri che questa sia la strada giusta da percorrere per costruire il migliore dei mondi possibili? Io penso che l’uomo debba ristabilire con la natura l’equilibrio perduto e tornare a coltivare il suo limite umano, anche avvalendosi della tecnica ma senza che la stessa diventi il potere assoluto e dominante nel mondo.


sabato 8 marzo 2025

Sicilianità: una condizione esistenziale

 


Io penso che nel mondo della letteratura nessuno sia riuscito a cogliere meglio la natura peculiare di una comunità - illustrandone le caratteristiche più profonde attraverso storie umane – come gli scrittori siciliani dei loro conterranei. Da Verga a Pirandello, da Patti a Brancati, da De Roberto a Tomasi di Lampedusa, tutti questi grandi autori - provenienti da quella “provincia dell’intelligenza”, per usare una felice espressione di Leonardo Sciascia - hanno descritto la condizione umana ed esistenziale dell’essere siciliani, sintetizzabile in una sola parola: sicilianità. Attraverso le loro opere hanno svelato il carattere distintivo di un popolo, nel bene e nel male, fortemente influenzato dal passaggio di tante altre civiltà conquistatrici, a cominciare dai greci e dai bizantini, e poi via via dagli arabi, dai normanni e dagli spagnoli. 

Durante le mie letture credo di essermi imbattuto in tre tipologie diverse di sicilianità: e sono sicuro che non sono le uniche, ammesso che si possa catalogare l’identità socio-culturale di un paese e dei suoi abitanti. La prima che mi viene in mente è quella che aleggia nei libri di Vitaliano Brancati e del suo grande amico e scrittore Ercole Patti: una sicilianità incarnata da personaggi maldestri e smidollati, perdigiorno disincantati, improbabili seduttori, vanitosi e indolenti, che vivacchiano in un’isola assolata e addormentata, dove comicità e tragedia, ironia e scherno, commedia e farsa si mescolano. Un modo di essere siciliani, questo, condizionato da convenzioni sociali e pregiudizi e incentrato in un microcosmo dove la vita scorre lenta e immobile, monotona, noiosa…e dolce. Ma così dolce, ebbe a scrivere lo stesso Patti, “che si poteva invecchiare senza accorgersene e ritrovarsi ad averla vissuta tutta senza averne avuto coscienza, rimanendo sempre figli di famiglia. Questo era il dolcissimo veleno di Catania”.  

Poi c’è la sicilianità che traspare dai libri di Verga e Pirandello, precursori di uno scavo psicologico dei personaggi e, al tempo stesso, sostenitori dei valori e delle tradizioni di una terra antica, ma anche interpreti del divario economico e culturale che si era venuto a creare a seguito dell’Unità d’Italia tra nord e sud. E’ la Sicilia degli ultimi, dei pescatori, dei contadini, degli strati sociali più poveri dell’isola,  chiusi nella loro gretta mentalità, legati a rituali arcaici e sorretti da codici d’onore, sempre in lotta tra di loro, incapaci di aprirsi agli altri per trovare un reciproco positivo sostegno.

E, infine, c’è l’aristocrazia terriera e poi la borghesia che per molti secoli hanno rappresentato il potere politico, economico e sociale della Sicilia, forse l’espressione più alta, più ricca, più discutibile della sicilianità, fatta di luci e di ombre, di legalità e ingiustizia, di bellezza e bruttezza, mirabilmente descritta da Federico De Roberto e Tomasi di Lampedusa in quei due capolavori della nostra letteratura che sono “I Vicerè” e “Il Gattopardo”, le cui vicende si pongono a cavallo di due epoche: la borbonica e la sabauda. Al centro della narrazione, due illustri e nobili casate: la famiglia Uzeda di Francalanza – i Vicerè, nelle cui vene scorre sangue regale spagnolo – e la famiglia principesca dei Salina che ruota intorno al fascino irresistibile del protagonista, il Principe Fabrizio, metafora idealizzata dell’aristocrazia siciliana, colta e raffinata tardo-ottocentesca. Due saghe familiari rivelatrici di un ambiguo rapporto di attrazione-avversione verso un mondo scomparso, ma all’epoca dominante nell’isola.

Se dal romanzo di De Roberto emerge un potere cinico, sprezzante, che si regge su latifondi messi a rendita, i cui protagonisti - morbosamente  attaccati alla roba e ai titoli nobiliari - si detestano e si tiranneggiano a vicenda, pur di conquistare ricchezza e prestigio; dall’opera di Tomasi di Lampedusa affiora l’orgoglio di una dinastia decadente, alla fine del suo splendore, incarnata da Don Fabrizio, Principe di Salina. Il quale, incalzato dal Segretario prefettizio arrivato direttamente dal Piemonte, con il compito di convincerlo ad accettare la nomina a Senatore del futuro Regno d’Italia, declina decisamente l’offerta, pronunciando un lungo e intenso monologo - una sorta di testamento spirituale - che sancisce, come nessuno aveva mai fatto, la “sicilianità” di un intero popolo.

“Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee – dice il Principe di Salina - tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il “là” (…) Il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. (…) tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi (…) vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi (…) i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria (…) La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?”


venerdì 21 febbraio 2025

Se telefonando...

 


Non ho un buon rapporto con il telefono: lo confesso. C’è ancora qualcuno che rimane sorpreso quando scopre che non ho il cellulare, una cosa rara di questi tempi. Quello che posso dire è che non mi serve, e poi mi causerebbe fastidio e imbarazzo, doverlo utilizzare in un luogo aperto. Però, non ho rinunciato al telefono fisso di casa: ma non rispondo quasi mai, quando squilla. Tanto nessuno mi cerca... A gestirlo, ci pensa mia moglie: lei ama tantissimo il telefono, non potrebbe vivere senza. Con il fisso o con il mobile, trascorre diverse ore della giornata in sua compagnia. Beata lei, io non la invidio affatto! E forse anche da qui nasce la mia idiosincrasia verso questo strumento, forse il più amato dall’umanità. Ma non da me. Se tutti fossero come il sottoscritto, oggi i gestori della telefonia sarebbero sull’orlo del fallimento. Tutti. Per fortuna non è così e il mondo va avanti.

Non esistono statistiche attendibili sull’argomento, ma io credo che da quando il cellulare ha fatto irruzione nella vita delle persone la quantità delle insulsaggini, dette e ascoltate, sia aumentata vertiginosamente. Un vantaggio comunque ce l’ha: si può parlare da soli, ad alta voce, e gesticolare furiosamente, ovunque, senza essere presi per matti.

Lo scrittore svedese Bjorn Larsson, in un suo delizioso libro che si intitola “Filosofia minima del pendolare” - l'ho letto in treno qualche giorno fa - ha scritto che alcuni studiosi del comportamento umano ritengono che le chiacchiere quotidiane degli esseri umani, al telefono o in altre circostanze, hanno la stessa funzione dello spulciarsi a vicenda delle scimmie, sarebbero cioè una sorta di collante che tiene insieme la società. Insomma, è l'evoluzione della specie umana.


mercoledì 19 febbraio 2025

Coltivo una rosa bianca

 




Coltivo una rosa bianca,
in luglio come in gennaio,
per l’amico sincero
che mi porge la sua mano franca.
E per il crudele che mi strappa
il cuore con cui vivo,
né il cardo né ortica coltivo:
coltivo la rosa bianca

 

José Martì


domenica 16 febbraio 2025

Sanremo

 


Il festival di Sanremo è finito. Deo gratias!

E' riuscito a sostituire e plasmare l'intero Paese per una serie infinita di serate, monopolizzando l'informazione e occupando la Rai. Ora si fa un gran parlare dei suoi 13 milioni e 400.000 spettatori che hanno seguito il festival nell’ultima puntata. Ma nessuno spende una parola per i 46 milioni e 600.000 italiani che non l’hanno guardato e che hanno dovuto subire, invece, il battage pubblicitario e mediatico di una ristretta minoranza. Diceva Nanni Moretti nel film “Caro diario”: “io credo nelle persone però non credo nella maggioranza delle persone: mi sa che mi troverò sempre a mio agio e d’accordo con una minoranza”. Ecco, devo dire che – diversamente da altre circostanze - in questa particolare occasione festivaliera le parole di Moretti mi trovano in totale disaccordo.


sabato 8 febbraio 2025

Biglietto lasciato prima di non andar via

 


Se non dovessi tornare,

sappiate che non sono mai

partito.

Il mio viaggiare

è stato tutto un restare

qua, dove non fui mai.

 

Giorgio Caproni

 

Ho letto e riletto, tante volte, questa breve poesia di Giorgio Caproni, cercando di afferrare quell’ intima e misteriosa essenza che si nasconde tra i suoi versi: ma non so se ci sono riuscito. La poesia, qualsiasi poesia, si presta sempre a innumerevoli chiavi di lettura. E la nostra non sempre coincide con quella dell’autore.

Il viaggio, lo sappiamo, è la metafora della vita: si viaggia, vivendo. Ma è un viaggio che si può fare anche senza partire: restando. D’altra parte, il mondo intorno a noi è sempre in movimento, è in continuo cambiamento e, quindi, non partire potrebbe essere una regola diversa del viaggiare. Ma viaggiare presuppone sempre un tornare. E non tornare significa morire. “Se non dovessi tornare – dice il poeta - sappiate che non sono mai partito”. E’ il suo epitaffio. Il poeta non parte e non torna: è in continuo viaggio con la sua poesia. E la poesia non muore mai, ti fa viaggiare con la fantasia e ti fa restare anche laddove non sei mai stato.


lunedì 3 febbraio 2025

Il teatrino della politica e dell'informazione

 


Non so voi, ma il sottoscritto  si nutre di pochissima televisione, per lo più di genere documentario. E’ noto, però, che siamo alquanto masochisti e farsi del male è una caratteristica che appartiene  unicamente al genere umano: e allora basta accendere la televisione e sintonizzarsi su uno dei tanti talk show, in onda dalla mattina alla sera. Sono quegli spettacoli tutti uguali nei contenuti: cambia solo il nome, il conduttore e il pubblico (dove è presente) che applaude a comando. Che si discuta di arte o di cucina, di ambiente o di economia, di lavoro o di pace o di guerra, ebbene, appare sempre lui: l’opinionista di turno, che può essere un giornalista o un politico. Uno potrebbe dire, a proposito dei parlamentari: sono circa seicento, quelli che siedono alla Camera e al Senato, e quindi è giusto che i cittadini che l’hanno eletti (o meglio li eleggevano…visto che ora non succede più), abbiano la possibilità di sentirli…di vederli…di conoscerli. Macché! La pattuglia che sta in televisione è composta da un numero esiguo di presenzialisti: sempre gli stessi di questo e di quel partito, i soli esperti della comunicazione politica e del sapere universale. E i giornalisti, allora? Sempre i soliti noti, pure quelli, che zompano da un programma all’altro.

E allora può accadere che il leader politico chiamato Tizio e il giornalista chiamato Caio - che all’alba erano ospiti di “Uno Mattina” a discutere di economia – si trovino entrambi, verso mezzogiorno, a “l’aria che tira” a discettare di guerra, per rincontrarsi, la sera, a “otto e mezzo”, pronti a inscenare una litigata su un tema molto spinoso come “il campo largo”. Il ministro Sempronio, intanto, aveva fatto una breve comparsata a “Omnibus” per dire la sua sullo strapotere di Trump e poi un salto a “Coffee break” (a pontificare su “la guerra in Medio Oriente”), dove era presente anche il suo avversario politico Vattelapesca, il quale - intervistato, la mattina presto, dal TG1 - aveva poi rilasciato un breve comunicato nel recarsi ad una riunione di partito, per essere poi ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa”, dove avrebbe presentato il suo ultimo libro, già best seller.

Ma non è finita qui, perché se vi capita di incrociare qualche telegiornale – di qualsiasi televisione pubblica o privata – ebbene, le facce di bronzo che avevate visto disquisire a Porta a Porta…a Otto e mezzo…a Piazza Pulita e chi più ne ha più ne metta, ve le ritrovate di nuovo nei vari notiziari. E la cosa buffa è che le immagini dei soliti politici… che salgono o scendono da una macchina o stringono mani o parlano al cellulare – spesso attorniati da guardie del corpo in assetto di guerra e da un nugolo di giornalisti che impugnano microfoni alla ricerca di scoop – vengono trasmesse, in maniera ossessiva anche quattro/cinque volte durante lo stesso notiziario, a supporto visivo di servizi diversi (si fa per dire). Insomma vanno bene per tutte le salse.

E’ il solito teatrino dell’informazione che va in onda tutti i giorni negli studi televisivi, dove la menzogna ha la stessa dignità della verità documentata con prove inoppugnabili; dove si consuma la quotidiana, ipocrita celebrazione della politica, “per il bene del Paese” o “per le ragioni di stato” o “per la sicurezza della nazione”; dove il conduttore fa una domanda al politico di turno, senza poi replicare alla risposta, qualunque essa sia; dove un pubblico, pagato e plaudente, assiste in maniera passiva ad una falsa contrapposizione di idee e di intenzioni; dove i nostri cosiddetti “rappresentanti” – lo ripeto ancora – sempre gli stessi, possono esprimere qualsiasi sciocchezza, possono promettere mari e monti e mentire spudoratamente, perché tanto noi cittadini italiani siamo completamente sedati, incapaci di comprendere e di reagire. Mi chiedo: ma tali rappresentazioni televisive hanno il pregio di apportare qualche contributo, non dico alla soluzione dei problemi trattati, ma almeno alla conoscenza degli stessi? C’è forse qualcuno che a fine trasmissione - avendo ascoltato le opposte fazioni politiche insultarsi - ricordi qualcosa di ciò che è stato detto, dopo che gli uni hanno affermato una cosa e gli altri il suo contrario? Ma quando finirà questa farsa autoreferenziale? E chi fa informazione, potrà mai abusare all’infinito della pazienza degli spettatori che si ostinano ancora a guardarli?


domenica 26 gennaio 2025

Un'epoca senza maestri

 


Marcello Veneziani è un noto giornalista, scrittore e filosofo, considerato tra gli intellettuali più autorevoli della destra italiana. Non ha, però, la visibilità mediatica di un Cacciari o di un Galimberti. Mi è capitato di ascoltarlo e, soprattutto di leggerlo, in questi ultimi tempi, e devo dire che - anche se non sempre condivido tutto quello che dice e che scrive – apprezzo molto il suo linguaggio, per niente involuto. Credo che non bisogna cadere in quel pregiudizio, duro a morire, secondo il quale solo chi ha le tue stesse idee merita importanza e riconoscimento. D’altra parte, per giudicare un autore si deve sempre avere l’onestà e lo spirito critico di distinguere le sue posizioni politiche dalla sua prosa e dall’impronta che lascia nel lettore, prima ancora che nelle pagine della letteratura.

Veneziani è nato a Bisceglie in Puglia, è una persona pacata, dallo sguardo malinconico, che ama la lentezza e critica duramente la tirannia della tecnica. Riesce a comunicare molto bene il suo pensiero, un “pensiero mediterraneo” – per usare una sua espressione – e si confronta con il presente e la tradizione, con la filosofia e la religione, con il mito e la storia. E nell’epoca globale in cui viviamo, caratterizzata da un pensiero unico e allineato, voci come la sua sono davvero confortanti.

Ho letto il suo ultimo libro, pubblicato da Marsilio, che si intitola “Senza eredi” con sottotitolo “Ritratti di maestri veri, presunti e controversi in un’epoca che li cancella”. Nella storia dell’umanità – sostiene lo scrittore pugliese – questa “è la prima ad avvertire, come Luigi XV, che dopo di noi verrà il diluvio, che finirà con noi il mondo in cui viviamo”.



In ogni campo sembra aver valore positivo solo ciò che è nuovo, destinato a far dimenticare ogni cosa precedente. Sono rinnegati i maestri, la loro opera, le loro lezioni di vita. Non hanno nulla da insegnare perché arrivano da un tempo arretrato rispetto al nostro, con modi di vedere e di pensare e di agire superati. Questa perdita del “filo ereditario” si manifesta – secondo Veneziani – in tre forme intrecciate: in primis, non esiste più, tra le generazioni, un mondo comune di valori, di saperi e di tradizioni che uniscono, pur nella diversità anagrafica; non si parla lo stesso linguaggio per intendersi e comunicare; non c’è curiosità e interesse per il passato e riconoscenza per i grandi maestri che ci hanno preceduti. Tutto diventa obsoleto in fretta, tutto si automatizza e va sostituito. E il passato, quando non è esecrato, va cancellato, rimosso. In una società come la nostra che non conosce eredi e “non si riconosce erede di niente e di nessuno”, parlare di maestri, dice Veneziani, è un’impresa davvero ardita. Al loro posto pontificano gli influencer, i veri manipolatori delle coscienze che “seducono e conformano, agendo sul linguaggio, sull’immaginario globale e sul narcisismo individuale di massa”. Un’epoca senza maestri e senza eredi è anche un’epoca di solitudine di massa: il destino paradossale di un tempo iperconnesso che offre a ciascuno la possibilità di eleggersi, attraverso i social, maestri di se stessi.

Con questo suo libro, Marcello Veneziani ci presenta una raccolta di settanta brevi ritratti “non convenzionali, in vari casi sconvenienti” di maestri “veri, presunti o controversi, grandi e piccini”. Sono delle succinte biografie di scrittori, poeti, grandi giornalisti, filosofi - del passato come del presente -  accomunati dallo stesso avverso destino: non hanno eredi. Da Giordano Bruno, che orientò lo sguardo del suo pensiero all’infinito, a Giambattista Vico che lo rivolse, invece, all’eternità; da Manzoni che si affidò alla Provvidenza, a Verga che confidò nel Fato; da Baudelaire, poeta dionisiaco dell’ebrezza a D’Annunzio, il poeta soldato, l’esteta armato; da Proust, che guardò il mondo dallo “specchietto retrovisore” a Kafka, che si sentì come un insetto schiacciato dalla vita e dal potere; da Tomasi di Lampedusa e il suo trasformismo a Moravia, il cantore della borghesia romana; da Pascal a Leopardi, da Nietzsche a Kant, da Manganelli a Marchesi, da Camilleri a De Crescenzo, da Bocca a Scalfari a Sartori…quanti maestri senza eredi.

Ma noi – scrive Veneziani nel suo libro - “Non ci rassegniamo e ripetiamo con il drammaturgo austriaco Franza Grillparzer: “Se il mio tempo mi vuole avversare, lo lascio fare tranquillamente. Io sono venuto da altri tempi e in altri tempi spero di andare”. Nonostante tutto, continueremo a sentirci eredi di autori e tradizioni e a onorare i maestri, i padri, i fratelli maggiori. E, se saremo soli, vuol dire che saremo in compagnia degli dei, degli assenti, degli invisibili”


sabato 18 gennaio 2025

Viaggio in Italia

 


Non sono un viaggiatore nell’accezione più nobile e, direi, romantica del termine. E devo dire che non sono viaggiatori, ma solo turisti, anche quelli che oggi fanno in pochi giorni le crociere intorno al mondo e si spostano, a velocità supersonica, da un punto all’altro della Terra, senza alcuna fatica. Diciamocelo: viaggiare è tutt’altra cosa. Viaggiare è un’esperienza di vita che deve modificare e far nascere in chi la vive qualcosa di nuovo. Deve migliorare la persona, non peggiorarla. Viaggiare non è fare un milione di foto, con lo smartphone, dei luoghi visitati in fretta e furia, per mostrarle, poi, agli amici che sono rimasti a casa o postarle sui social.

Nel passato, capitava spesso che uno scrittore partisse per un lungo viaggio – che poteva durare anche degli anni – e, al suo ritorno, raccontasse in un libro ciò che aveva visto, vissuto e provato durante il suo lungo peregrinare. E poi era vivo il Gran Tour, quale esperienza fondamentale di formazione dei rampolli delle antiche e aristocratiche famiglie della ricca Europa. In entrambi i casi, gli interessati sapevano quando partivano ma non quando tornavano. Al mondo d’oggi questi viaggiatori non esistono più: abbondano invece i turisti mordi e fuggi. Non esistono più gli scrittori di viaggi. Abbiamo perso così un modo valido e completo di fare letteratura che va oltre la descrizione dei luoghi visitati e stabilisce un rapporto profondo di conoscenza tra sé e la realtà.

Dicevo che non appartengo a questa categoria eletta di viaggiatori e, forse, per questa ragione sono un cultore della letteratura di viaggio. Il “Viaggio in Italia” di Goethe, “Itinerario italiano” di Corrado Alvaro, “Un viaggio in Italia” di Guido Ceronetti, sono libri che ho amato. Ora sto viaggiando con il “Viaggio in Italia” di Guido Piovene, un libro magnifico di circa 900 pagine, pubblicato da Bompiani. La bellezza di questo libro è che non devi leggerlo necessariamente dalla prima all’ultima pagina, non devi seguire una trama, ma lo puoi sfogliare anche a caso, intraprendere con l’autore un singolo viaggio e poi lasciarlo, per riprenderlo in un tempo successivo. Guido Piovene è stato uno dei grandi scrittori del Novecento italiano e la sua fama è legata proprio a quest’opera monumentale. Indro Montanelli ebbe a scrivere che “un saggio sull’Italia come il suo “Viaggio in Italia” non lo scriverà mai più nessuno”. E aveva ragione! Lo scrittore veneto cominciò il suo viaggio dall’estremo Nord, Bolzano, nel maggio del 1953 e proseguì regione dopo regione, provincia dopo provincia, città dopo città, fino a raggiungere Pantelleria, risalendo poi lo Stivale e fermandosi a Roma nell’ottobre del 1956, dopo 3 anni e 5 mesi: un’impresa senza precedenti. Voleva conoscere l’Italia, gli italiani e, soprattutto, se stesso. Scrive Oreste Del Buono nell’introduzione: “Piovene riesce, come un antropologo, a far emergere dal suo viaggio il carattere nazionale, quello immutabile, che resiste alle mode e ai rovesci della storia”.


venerdì 10 gennaio 2025

L'arte del citare

 




Lo ammetto: quando scrivo un post mi piace citare e non mi lascio mai sfuggire l’occasione di prendere a prestito il pensiero di un grande autore. Però, sia ben chiaro: non intendo assolutamente fare sfoggio di cultura. Ritengo di essere la persona meno adatta per questo genere di ostentazione. Sapere che un concetto, da me appena abbozzato in un post, è stato già espresso con belle parole da un autorevole personaggio del mondo della cultura, mi spinge a citare quelle parole in cui mi ritrovo, a sostegno del mio ragionamento. Pertanto, se qualche volta mi scappa una bella citazione, sappiate che – come scriveva Michel de Montaigne – “faccio dire agli altri quello che non posso dire altrettanto bene, sia per insufficienza del mio linguaggio sia per insufficienza del mio sentimento…bisogna che nasconda la mia debolezza sotto quelle grandi autorità”. Quindi è semplicemente un atto di modestia, il mio; è il riconoscimento della superiorità intellettuale dell’autore a cui mi rivolgo, in quel particolare momento, per puntellare la mia traballante e dimessa descrizione.

Michel de Montaigne è l’autore dei “Saggi” (Adelphi - 2 vol. - pag. 1588), una delle opere più belle che siano state mai scritte, da tenere sempre sul comodino. Un’opera che oltre a raccogliere le sue riflessioni sull’esistenza umana, contiene tantissime citazioni prese da quegli autori dell’antichità che il filosofo francese riteneva fossero riusciti ad esprimersi, su certi argomenti,  meglio di lui e con più raffinatezza. Basti pensare che Seneca viene citato 130 volte, mentre Lucrezio - probabilmente il suo autore preferito - la bellezza di 149 volte. Un libro che spinse F. Nietzsche a dire “che un tale uomo abbia scritto, ha accresciuto il nostro piacere di vivere su questa terra”.

E allora, se l’arte del citare è stata usata così diffusamente dal grande filosofo del ‘600, permettetemi di azzardare, di tanto in tanto, qualche appropriata citazione al fine di rafforzare o migliorare una mia debole opinione su una determinata questione. Opinione – la mia – che si presterebbe facilmente a qualsiasi critica, anche la più feroce, e che riscuoterebbe davvero scarso successo se, in certe specifiche occasioni, non fosse supportata da un riferimento letterario di un grande pensatore. E poi – lasciatemelo dire – posto che io scriva un pensiero rinforzato da una citazione – immaginiamo di Montaigne – il cui contenuto non dovesse incontrare l’apprezzamento di chi legge, ebbene costui anziché criticare me (e sarebbe fin troppo facile), dovrebbe avere doti culturali davvero straordinarie per mettere in discussione il pensiero del filosofo francese. Insomma, la citazione colta si rivela essere anche un mezzo per far valere la propria idea e sentirsi più convincenti, sostenuti e protetti dal pensiero, a volte inattaccabile, di chi è diventato immortale proprio grazie al suo pensiero.

I libri migliori sono fonti inesauribili di citazioni. Non riuscirei a leggere se non avessi tra le mani una matita con la quale sottolineare quelle frasi, quelle parole, quei pensieri che più mi lasciano ammirato ed in cui ritrovo me stesso. In una sua lettera a Lucilio, Seneca scriveva: “dopo aver letto molto, scegli un pensiero che tu possa assimilare in quel giorno. Anch’io faccio così: del molto che leggo, prendo sempre qualcosa…”. Si può non essere d’accordo con il grande filosofo dell’antica Roma?


venerdì 3 gennaio 2025

L'abolizione del tempo: il sogno della nostra epoca

 


L’ideale utopico di questa nostra società sarebbe quello di abolire, del tutto, il tempo che intercorre tra un’occupazione e l’altra o che si interpone tra i nostri desideri e la soddisfazione degli stessi. Gunther Anders, uno dei maggiori accademici del Novecento, scrive nel suo libro “L’uomo è antiquato”, pubblicato nel 1980: “L’abolizione del tempo è il sogno del nostro tempo. La società senza tempo (invece che senza classi) è la speranza del domani. In questa nostra epoca non esiste un attimo che non sia dedicato – giacchè il tempo non ha alcuna importanza – allo sforzo di annullare il tempo, di rendere il tempo una faccenda antiquata, una cosa di ieri”.

Per quanto il “mercato” - supportato dalla tecnologia - si adoperi alacremente per diminuire il tempo - fino a cancellarlo - tra il lancio di un nuovo prodotto e il suo acquisto, tra la vendita e il consumo, siamo ancora lontani da questo agognato obiettivo asintotico. Nel campo dell’informazione, però, già ci siamo: riceviamo notizie, fatti e immagini dal mondo nel momento stesso in cui accadono e si realizzano. Ma ciò che possono le informazioni, e prima ancora la nostra voce attraverso il telefono, noi ancora non possiamo: non siamo in grado di spostarci, fisicamente, da un punto all’altro della terra, senza che tali spostamenti richiedano tempo. E allora adoperiamo tutto il nostro ingegno per inventare macchine sempre più veloci che possano diminuirlo o annullarlo, il tempo, perché il tempo è danaro e noi non possiamo perdere tempo. La lentezza non ci piace, è qualcosa che ci permette di fermarci e di pensare e oggi non bisogna pensare. Pensare è ricordare, è conservare; correre, invece, è dimenticare, è abolire il tempo e lo spazio.

Questa velocità l’abbiamo estesa anche alle cose e agli oggetti che utilizziamo quotidianamente: non sono soltanto intercambiabili ma devono essere sostituiti il più rapidamente possibile. Un avvicendamento produttivo infinito e inarrestabile. Un frigorifero durava troppo? Hanno programmato la sua obsolescenza. Eri affezionato ad una vecchia macchina? Ti obbligano a rottamarla perché inquina e devi comprarti un Suv, anche se inquina dieci volte di più. Tutto ciò che dura, oggi, è sinonimo di negatività, di perdita di tempo. Il motto è: consumare sempre di più per produrre sempre di più. Ma per poter consumare un nuovo prodotto è necessario averne bisogno, un bisogno, questo, che non nasce spontaneamente, come la sete o la fame: è necessario crearlo. Ecco, allora, che subentra la pubblicità che ha il compito di invogliare e spingere la gente a liberarsi delle cose vecchie per le nuove, ed avere sempre bisogno di novità. Frédéric Beigbeder, noto scrittore e pubblicitario francese, dice che la pubblicità non desidera la nostra felicità: deve farci sentire sempre insoddisfatti, perché la gente felice non consuma. Meditate gente, meditate!


venerdì 13 dicembre 2024

Io, il Natale e la "voluttuosa pigrizia del caminetto"

 


Un caminetto acceso, nelle serate invernali, ha sempre esercitato su di me un fascino straordinario. Una forte attrazione. E’ come ritornare alla mia infanzia, quando il focolare era il centro della vita domestica e offriva non solo calore ma anche serenità, rafforzando quello spirito familiare dello stare insieme. E’ come rivedere le persone care che non ci sono più. E’ riassaporare sensazioni e odori e sapori e ricordi preziosi che albergano, indelebili, nella mia memoria.

Il focolare acceso - prima ancora che una fonte di calore – è per me uno stato d’animo. Una filosofia di vita. E’ riscoprire le cose essenziali della vita. Simbolo di accoglienza e di tradizioni, è una sorgente di piacere che riscopro ogni qual volta mi ritrovo al paese nelle feste di fine anno. Mi piace stare accovacciato su una vecchia seggiola, godermi quella beatitudine nascosta tra le fiamme che scoppiettano e che sembrano gesticolare, parlandomi dell’anno che sta per finire e consigliandomi su quello che verrà. In un’epoca dominata dalla tecnologia sempre più invasiva, il focolare mi riporta alle origini e assurge quasi a simbolo di nume tutelare della casa. Una presenza sacrale che unisce e invoglia a raccontarsi. Ma anche una presenza silenziosa. Manca nella nostra società, nelle nostre case sempre più moderne e tecnologiche, un punto di riferimento così antico e familiare, oggi sostituito da strumenti digitali che annullano il silenzio, anche quando sono spenti, e illudono e allontanano le persone dalla realtà circostante. Andando con la mente alla mitologia greca, è come se Estia, la dea del focolare che vigilava sulla casa, venisse sostituita dal dio Prometeo, l’inventore della tecnica che aveva rubato il fuoco agli dei per darlo agli uomini.

Il Natale è alle porte ed io mi sono già rifugiato nella mia casetta nativa, nel Cilento. “Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade (mi vengono in mente i versi di una indimenticabile poesia di Ungaretti) lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata”. E aspettando che passi questa “tempesta” consumistica, fatta di luminarie e panettoni e regali e cenoni e confusione, me ne sto accanto al fuoco, a godermi le piccole gioie della vita, a dimenticare rimpianti e a stemperare  malinconie. “Qui non si sente altro che il caldo buono – faccio ancora miei i versi del poeta – sto con le quattro capriole di fumo del focolare”. Quanto sarebbe triste e fredda questa casetta se, dal suo tetto, non salisse il fumo del mio caminetto. Anche il paese sembrerebbe incompiuto, come un presepe senza pastori, se dai tetti delle case non svettassero i tanti fantasiosi comignoli che resistono al peso del tempo.

Accendere il fuoco è un rituale rilassante che mi concedo tutte le mattine, appena sveglio. Non potrei mai rinunciarvi. Uso come base di accensione dei fogli di giornale appallottolati, con dei legnetti molto secchi di facile combustione. Poi aggiungo, man mano che la fiamma aumenta, della legna più robusta proveniente dalla mia campagna: legna di quercia, di olmo o di ulivo, legna che sprigiona odori inconfondibili che sanno di terra e di natura. La mia abilità nell’officiare questa liturgia mattutina mi conforta. Mi dona serenità. Inondato dal riverbero della fiamma, osservo estasiato le faville che schizzano di qua e di là, simili a lucciole di antica memoria, che ridestano i miei ricordi infantili. Da bambino amavo sbucciare i mandarini e lanciare le scorze nel fuoco: mi piaceva tanto quel profumo che si sprigionava dai tizzoni ardenti e si diffondeva nell’aria, mentre aumentava all’improvviso la vampata. E quasi mi intimoriva quel suo “linguaggio” crepitante. “Quando il fuoco brontola – diceva la buon’anima di mia nonna - c’è qualcuno che ti pensa”. E chi mai poteva essere? Ecco allora che la mia fantasia cominciava a galoppare, per dare un nome a quella voce misteriosa che proveniva dal camino. Un gioco a cui non rinunciavo, invogliato dalla nonna.

Rinvigorire la fiamma stuzzicando i tizzoni e aggiungendo nuova legna, che ritiro da una catasta innalzata fuori dalla porta di casa, è per me un piacevole passatempo. E’ un’arte antica, quella di  accatastare la legna. Ha una sua bellezza, un suo fascino misterioso. E’ un po' come costruire un muretto a secco, vale la stessa tecnica: impilare i ceppi di misure diverse, uno sopra l’altro, al posto delle pietre. E l’opera è bell’e fatta! A volte è così perfetta che, nel prelevare i tronchetti da ardere, provo quasi un senso di dispiace doverla smantellare, quella catasta.

La felicità è stare accanto al focolare nelle fredde serate di fine anno: è come stare in piacevole compagnia di un amico fidato, che ti parla e non ti fa sentire mai solo. Mi vengono in mente le preziose parole che Giovanni Verga scriveva in una sua novella che si intitola “Nedda”, parole che riscaldano come quel focolare che raccontano e ti trasportano in un mondo che non c’è più:

“Il focolare domestico era sempre ai miei occhi una figura rettorica, buona per incorniciarvi gli affetti più miti e sereni, come il raggio di luna per baciare le chiome bionde; ma sorridevo allorquando sentivo dirmi che il fuoco del camino è quasi un amico. Sembrava in verità un amico troppo necessario, a volte uggioso e dispotico, che a poco a poco avrebbe voluto prendervi per le mani o per i piedi, e tirarvi dentro il suo antro affumicato, per baciarvi alla maniera di Giuda. Non conoscevo il passatempo di stuzzicare la legna, né la voluttà di sentirsi inondare dal riverbero della fiamma; non comprendevo il linguaggio del cepperello che scoppietta dispettoso, o brontola fiammeggiando; non avevo l’occhio assuefatto ai bizzarri disegni delle scintille correnti come lucciole sui tizzoni anneriti, alle fantastiche figure che assume la legna carbonizzandosi, alle mille gradazioni di chiaroscuro della fiamma azzurra e rossa che lambisce quasi timida, accarezza graziosamente, per divampare con sfacciata petulanza. Quando mi fui iniziato ai misteri delle molle e del soffietto, m’innamorai con trasporto della voluttuosa pigrizia del caminetto. Io lascio il mio corpo su quella poltroncina, accanto al fuoco, come vi lascerei un abito, abbandonando alla fiamma la cura di far circolare più caldo il mio sangue e di far battere più rapido il mio cuore; e incaricando le faville fuggenti, che folleggiano come farfalle innamorate, di farmi tenere gli occhi aperti, e di far errare capricciosamente del pari i miei pensieri…”


lunedì 2 dicembre 2024

Il tempo delle cose è finito

 


Siamo quotidianamente investiti da una massa di informazioni che ha preso il posto delle cose, destabilizzando la nostra esistenza. Le informazioni hanno una validità molto limitata: si fondano sulla sorpresa. Siamo diventati consumatori insaziabili di informazioni, che rappresentano la realtà e riducono i contatti fisici. Ma sono le cose concrete i punti fermi che influenzano le nostre vite. Tuttavia, il mondo si fa sempre più inafferrabile – scrive lo scrittore e filosofo coreano Byung-Chul Han nel suo saggio “Le non cose” con sottotitolo “come abbiamo smesso di vivere il reale” – siamo passati dall’era delle cose all’era delle non-cose. Non abitiamo più la terrà e il cielo, ma Google, e all’ordine terreno è subentrato l’ordine digitale.

La realtà ci appare sempre più scivolosa e ingarbugliata, piena di stimoli che non vanno oltre la superficie. Comunichiamo incessantemente, raccogliamo dati e amici e follower senza mai incontrare l’Altro, che scompare in forma di voce e di sguardo. “Il mondo odierno è molto povero di sguardo e di voce”. Non vogliamo più legarci alle cose che un tempo ci erano care, ma evitiamo anche di legarci alle persone, cercando ossessivamente di conoscerne altre in maniera virtuale. “Ci sentiamo liberi – scrive il filosofo coreano – eppure siamo sfruttati, sorvegliati e influenzati”.

Ci stiamo dirigendo, sostiene ancora l’autore di questo libro, verso un’epoca post-umana, “in cui la vita altro non è che mero scambio di informazioni…La digitalizzazione è un passaggio coerente verso l’abolizione dell’humanum”.

E’ finito il tempo delle cose che stanno a cuore. E il tempo del cuore appartiene ormai al passato. Le cose nascono già morte. “Non vengono usate, bensì consumate. Solo un lungo utilizzo dà loro un’anima. Solo le cose del cuore sono animate. Flaubert voleva essere sepolto insieme al suo calamaio”.

Probabilmente l’uomo contemporaneo vorrà essere sepolto insieme al suo smartphone.


lunedì 18 novembre 2024

Io sono nessuno

 


Io sono Nessuno! Tu chi sei?
Sei Nessuno anche tu?
Allora siamo in due!
Non dirlo! Potrebbero spargere la voce!

Che grande peso essere Qualcuno!
Così volgare, come una rana
che gracida il tuo nome, per tutto giugno,
ad una palude ammirata!

Emily Dickinson 

 


sabato 9 novembre 2024

Il mio amico Stoner

 




Ci sono alcuni personaggi letterari che godono della mia simpatia e meritano tutto il mio affetto: sono i “perdenti”, quelli che in letteratura  vengono chiamati inetti, e che hanno difficoltà a vivere una vita cosiddetta “normale”. Devo ammettere, pertanto, che non mi piacciono molto le persone vincenti, i primi della classe, gli ambiziosi ad ogni costo, coloro che hanno successo e potere e fama e soldi e conducono una vita brillante. Quelli, insomma, che attraverso il loro esempio vogliono insegnarti a vivere. Non ci posso fare nulla: costoro mi annoiano terribilmente. Proprio non li sopporto. Preferisco le storie degli incerti, dei dubbiosi, di coloro che hanno sbagliato strada o che sono sempre alla ricerca di qualcosa ma non sanno mai quale. Forse cercano proprio sé stessi e questo loro faticoso cammino esistenziale me li rende simpatici. Mi appassionano molto di più le vicende di uno sconfitto dalla vita come Alfonso Nitti, descritto da Italo Svevo in “Una vita” o le disavventure di JaKob von Gunten dell’omonimo romanzo di Robert Walser (che voleva essere uno zero assoluto), piuttosto che le peripezie di certi arrampicatori sociali come Duroy - il “Bel-Ami” di Maupassant -  o come Mastro Don Gesualdo di Verga. E ora, tra i miei favoriti, è arrivato anche Stoner, dell’omonimo romanzo di John Williams.

William Stoner è un uomo che conduce una vita ordinaria, senza infamia e senza lode, si direbbe. “Era arrivato a un’età in cui, con intensità crescente, gli si presentava sempre la stessa domanda, di una semplicità così disarmante che non aveva gli strumenti per affrontarla. Si ritrovava a chiedersi se la sua vita fosse degna di essere vissuta. Se mai lo fosse. Sospettava che alla stessa domanda, prima o poi, dovessero rispondere tutti gli uomini”. E già un uomo che si pone questa domanda, merita la mia attenzione. Figlio di contadini, la vita privata di Stoner appare alquanto disastrosa: è quasi estraneo ai suoi genitori che sono rimasti da soli a lavorare la terra in una piccola fattoria vicino a Booneville, anche se questa perdita accresce l’amore che nutre per loro; è miseramente sposato con una donna che non lo ama ed ha una figlia con cui non riesce ad instaurare un rapporto sereno. Non ha grandi ambizioni, non ha veri amici, frequenta poche persone, non si aspetta nulla dalla vita, se non di svolgere il suo lavoro di professore universitario con entusiasmo e con un forte senso di responsabilità. Essenzialmente è un uomo paziente, di grande umanità, buono e remissivo che subisce gli eventi della vita e della storia senza reagire e non riesce a stabilire un rapporto appagante con nessuno. Ha una breve e intensa storia passionale con una sua studentessa, che non riuscirà a cambiare in meglio il suo tran-tran quotidiano. Coltiva, però, la sua grande passione della vita: “l’amore per la letteratura, per il linguaggio, per il mistero della mente e del cuore che si rivelano in quella minuta, strana e imprevedibile combinazione di lettere e parole, di neri e gelidi caratteri stampati sulla carta, l’amore che aveva sempre nascosto come se fosse illecito e pericoloso…”.. Questa, in estrema sintesi, la trama del libro che stroncherebbe le velleità letterarie a chiunque decidesse di scrivere un romanzo su un uomo, tutto sommato comune e banale, come Stoner. Ma non a John Williams - scrittore statunitense morto una trentina di anni fa – che ne fa un capolavoro della letteratura. Un libro cult. Ha scritto Niccolò Ammaniti che John Williams è uno di quegli scrittori che non puoi fare a meno di consigliare, perché hai la certezza che farai felice il tuo prossimo. Io devo ringraziare Sari: ne ha parlato nel suo blog Voce di vento  e me l’ha consigliato. E' come se mi avesse presentato un suo caro amico che, immediatamente, è diventato anche il mio. "Stoner" è un libro di una bellezza struggente e disarmante, con un finale molto commovente. Io credo che nessuno, meglio di John Williams, abbia saputo descrivere - con parole di rara delicatezza - l’attesa della morte e l’addio alla vita di questo eroe della normalità. Mi viene da pensare, dopo averlo letto, che se ha avuto così tanto successo tra i lettori è perché un po’ di Stoner sta in ognuno di noi.


giovedì 10 ottobre 2024

Quell'antico frantoio

 


Diceva Schopenhauer che noi crediamo, talvolta, di avere nostalgia di un luogo lontano, mentre a rigore abbiamo soltanto nostalgia del tempo vissuto in quel luogo, quando eravamo più giovani. Così il tempo ci inganna sotto la maschera dello spazio. E se andiamo in quel luogo, ci accorgiamo dell’inganno.

Quando io ritorno nel mio paese nativo, nel Cilento – da cui sono andato via quando avevo poco più di vent’anni – cerco, ma non trovo, il luogo della mia infanzia e della mia spensieratezza. Resta solo la “nostalgia del tempo vissuto in quel luogo”, e ogni volta sono insidiato da una lieve malinconia dovuta al “tacito infinito andar del tempo” (parole di Leopardi) che rimanda al declino delle cose e mi fa pensare che tutto è destinato a finire.

Come quell’antico frantoio – ù trappìto, per noi del paese - che non esiste più, dove le olive venivano frante da due enormi ruote di granito (dette molazze), azionate da un motore elettrico all’interno di una grande vasca di acciaio. Luogo di lavoro, di sacrifici, di memorie, ma anche ritrovo per noi ragazzi di paese - nei lunghi e piovosi pomeriggi invernali, quando i compiti scolastici potevano anche aspettare - quel frantoio si carica di valori inestimabili, legati alla terra, alla produzione dell’olio d’oliva, alle tradizioni contadine e al senso quasi religioso del lavoro.

Lo sento ancora nelle narici quel flusso di aria calda e quell’odore forte e pungente di olio che mi investivano appena entravo nel frantoio. In un angolo c’era una grande stufa di ghisa sempre accesa, alimentata con la sansa, si chiama così il residuo secco della spremitura delle olive. Mi piaceva stare seduto lì, su una panca in un cantuccio, ad osservare il via vai dei clienti e dei curiosi che entravano, anche solo per stare un pò al caldo o per fare due chiacchiere, gustando una bruschetta con l’olio nuovo. Mi lasciavano tranquillamente scorrazzare e curiosare attraverso i locali adibiti alla lavorazione (oggi sarebbe una cosa impensabile), e ricordo che non mi stancavo mai di osservare quelle due gigantesche macine che giravano e giravano, schiacciando le olive. Fino ad ottenere una morbida pasta che poi veniva spalmata su dei dischi di corda (i fiscoli), impilati uno sull’altro su una pressa idraulica. Da quella pressatura usciva, poi, un liquido scuro che veniva convogliato in una vasca e ulteriormente lavorato da una centrifuga (il separatore) con la funzione, appunto, di separare l’olio dall’acqua. Rimanevo affascinato da quella ritualità artigianale, da quel movimento operoso di macchine e di uomini, dalla gestualità degli operai e dal linguaggio che gli stessi usavano. Ricordo ancora l’anziano signore addetto al separatore, lo chiamavano Don Antonio: era il padrone del frantoio, un uomo alto e asciutto, con i capelli bianchissimi che incuteva timore. Era il primo ad assaggiare l’olio nuovo con un dito, e poi ci chiamava a raccolta, sorridendo, per farlo assaporare anche a noi su una fetta di pane. Eravamo felici di partecipare a quel rito. Di stare lì, in quel luogo, che assicurava una sorta di familiare protezione E ancora più felice appariva lui, il capo del frantoio: Don Antonio, che dirigeva questa sua creatura a gesti, senza parlare, come un maestro d’orchestra. Quel colore verde intenso dell’olio appena spremuto, quel profumo inebriante, quel sapore asprigno, tutte quelle sensazioni mi sono rimaste impresse nella mente. E mi sento un privilegiato per aver  vissuto certe esperienze formative, precluse ai ragazzi di oggi che abitano in città.



Come ogni anno, di questi tempi, ritorno al paese per la raccolta delle olive. La mia grande passione. Ho ereditato da mio padre un piccolo terreno agricolo situato in collina, con diversi ulivi secolari ed altri più giovani piantati dal sottoscritto, oltre trent’anni fa. Il raccolto lo trasporto - ogni due/tre giorni - nel piccolo frantoio non lontano dalla mia campagna. E’ un impianto moderno che usa macchine molto sofisticate con frangitori a dischi rotanti, a controllo elettronico: niente a che vedere con le macine in pietra…i fiscoli…la pressa idraulica. Anche il frantoio ha subito, in questi ultimi anni, un processo di trasformazione non dissimile da tutti gli altri contesti produttivi. Nuove macchine che consentono la lavorazione di una maggiore quantità di olive, limitando l’esposizione delle stesse agli agenti atmosferici e preservandone le proprietà organolettiche, per una migliore qualità dell’olio prodotto. Nel frantoio non ci sono più ragazzini spensierati che girano tra i locali, manca la stufa accesa con la sansa, non ci sono i “perdigiorno” per fare quattro chiacchiere e assaggiare l’olio nuovo sulla bruschetta. Tutto funziona alla perfezione, i locali sono quasi asettici, rispetto a quelli di antica memoria, le lavorazioni sono tutte meccanizzate. Al posto del vecchio frantoiano alla Don Antonio, c’è un giovane imprenditore che ha studiato scienze agrarie ed alimentari e manovra le sue macchine con un computer. Il suo compito è quello di ottenere il migliore olio possibile, nel rispetto del territorio e delle tradizioni: e devo dire che ci riesce molto bene. L’evoluzione della tecnologia ha portato migliori condizioni di lavoro anche in questo settore, ed una qualità superiore del prodotto finale, questo nessuno lo mette in dubbio. Ma resta intatto il fascino per quei vecchi frantoi di una volta, custodi e  testimoni di antichi saperi che ci permettono, ancora oggi, di rivivere le tradizioni rurali dei nostri antenati.


venerdì 27 settembre 2024

In tutto c'è stata bellezza

 


Arrivo quasi sempre in largo anticipo alla Stazione Termini di Roma, quando devo prendere il treno. Ne approfitto, allora, per entrare da Borri, una tra le più grandi librerie della Capitale, situata al centro dell’atrio della stazione. Un rito irrinunciabile. Devo dire che ne esco sempre con un nuovo libro, anche se la mia intenzione – ogni volta - è solo quella di curiosare. Ma non si può entrare in acqua senza bagnarsi. E così l’altro giorno, mentre gironzolavo tra gli scaffali in attesa della partenza del mio treno, mi sono imbattuto in una copertina giallo-arancione, con un titolo poetico e seducente: “In tutto c’è stata bellezza”, di un autore a me sconosciuto: Manuel Vilas. Sulla copertina, le parole di un altro scrittore, Javier Cercas, recitavano: “un libro magnifico, coraggioso e struggente”. L’ho subito sfogliato, e ho letto questo straordinario incipit che ha fatto volare la mia immaginazione: “Magari si potesse misurare il dolore umano con numeri chiari e non con parole incerte. Magari ci fosse un modo di sapere quanto abbiamo sofferto, e il dolore fosse materiale e misurabile. Un giorno o l’altro ogni uomo finisce per affrontare l’inconsistenza del suo passaggio nel mondo. Ci sono esseri umani che riescono a sopportarlo, io non lo sopporterò mai”. Sono bastate queste parole per capire che avrei continuato la lettura sul treno.

A volte un libro non sai come classificarlo: romanzo o saggio, diario o autobiografia. Poi, man mano che scorri le pagine, ti accorgi che il suo fascino risiede proprio in questa molteplicità di forme letterarie, in questa sua complessità narrativa. “Ci farebbe bene scrivere delle nostre famiglie – scrive Manuel Vilas – senza nessuna finzione, senza romanzare. Solo raccontando ciò che è successo, o ciò che crediamo sia successo”.  E lo scrittore spagnolo lo fa in maniera intima, poetica, struggente, cruda, raccontando la sua vita e il suo straripante amore per i genitori: Bach, suo padre e Wagner, sua madre. Si, perché lui battezza i personaggi che incontriamo nel libro (in primis i suoi genitori) con i nomi dei grandi musicisti. “Quattrocento pagine di affondo in mezzo secolo di vita personale, di corpo a corpo con i fantasmi dei genitori”, così scrive Paolo di Paolo sulla prima pagina del libro.

“Non so se i miei due figli mi ameranno quanto io ho amato i miei genitori”, dice l’autore. E quando parla dei suoi genitori che non ci sono più, quel padre e quella madre sembrano tornare alla vita. Vilas esplora le sue debolezze, i suoi rimpianti, i ricordi di una vita e li offre al lettore affinché possa fare altrettanto con le proprie vicende familiari. “In tutto c’è stata bellezza” è il romanzo di una storia personale che diventa universale, perchè tratta temi universali, come l’amore, la morte, il trascorrere del tempo, la famiglia, la fragilità umana, le sconfitte della vita, la gioia e il dolore e la solitudine. Il racconto rincorre i capricci della memoria e procede a frammenti; è una narrazione sincera, malinconica, dolce e amara nello stesso tempo. L’autore si sofferma sui legami affettivi, che lo sostengono anche quando sembrano apparentemente affievoliti, e ritrova quelle tracce di vita vissuta che i morti lasciano inevitabilmente ai vivi. “Quando tu riesci a comprendere il tuo passato – sostiene Vilas – quando tu riesci a comprenderne l’umanità, allora nasce la Bellezza, una bellezza morale e spirituale”. Questa sembra essere la chiave di lettura del romanzo: il passato in cui sei vissuto, che ti ha modellato e ti ha reso quello che sei risorge quando lo menzioni. Non va via, ritorna con i ricordi di chi non c’è più, restituisce quella bellezza quasi impercettibile di “quando la vita andava più lentamente e potevi vederla. Le estati erano eterne, i pomeriggi erano infiniti, e i fiumi non erano inquinati…Era il paradiso. E’ stato il mio paradiso. Sono stati loro il mio paradiso, mio padre e mia madre, quanto li ho amati, come siamo stati felici e come siamo crollati. Com’è stata bella la nostra vita insieme, e ora tutto si è perduto. E sembra impossibile”. E questa storia inizia da un paese della Spagna, Barbastro, dove l’autore del libro è nato e cresciuto e dove matura questo rapporto di amore nei confronti dei genitori, un rapporto rivisto al presente. Un padre che parlava poco, “un artista del silenzio” che “non m’insegnò a volergli bene…e non mi ha mai detto che mi voleva bene”, un padre con cui non si era mai abbracciato perché “non avevamo creato quella tradizione. Non avevamo forgiato quel rituale”. E poi, la madre, “una donna-dramma” che morì mentre dormiva, da cui aveva ereditato “il caos narrativo”. Erano diversi dagli altri, i suoi genitori, ma è proprio in quella diversità che risiede la bellezza. E l’amore. “Ciò che mi univa a mia madre – confessa - era e continua ad essere un mistero che forse riuscirò a decifrare un secondo prima della mia morte”.


domenica 15 settembre 2024

Torniamo a zappare la terra!

 


“Vai a zappare”: lo si diceva, un tempo, a chi non aveva molta voglia di studiare. Un modo di dire, questo, per ribadire che se non sei portato per la “cultura” puoi dedicarti solo alla “coltura” e quindi alla terra. Un’attività quasi da disprezzare, adatta solo  alle persone rozze e dotate di poca intelligenza. Devo dire che io sono di diverso avviso. Ho sempre visto  il zappatore (di leopardiana memoria), come una figura di tutto rispetto; ho sempre considerato nobile il lavoro del contadino che nasce con la comparsa stessa dell’uomo sulla terra. D’altra parte, prima ancora che diventassimo falegnami o muratori, medici o avvocati,  impiegati o manager, siamo stati zappatori della terra da cui ha origine tutto il necessario per la nostra sussistenza. Mi diceva sempre la buon’anima di mio nonno: ricordati che tutto viene dalla terra.

Pare che oggigiorno l’accostamento  “ignorante uguale zappatore” sia stato definitivamente superato tant’è che Carlo Petrini, il fondatore del movimento “Slow Food”, ha detto che “l’era del  “vai a zappare”  per chi non è portato per studiare è finita da un pezzo. Oggi a zappare ci vanno quelli che studiando hanno capito che è a partire dal cibo che si cambia il mondo, e si migliora l’ambiente, la salute, la qualità della vita di tutti”. Fino a qualche anno fa, probabilmente, nessuno si sarebbe mai aspettato una simile rivalutazione di quello che era considerato il lavoro più umile e dequalificante; nessuno avrebbe scommesso sull’agricoltura contadina, protagonista di un processo di ritorno alla terra per migliorare la qualità della vita.

Come sostiene anche il professor Serge Latouche, uno dei principali fautori della “decrescita felice”, bisogna rivedere l’uso del territorio, come bene comune da preservare, elemento centrale di tutta la cultura umana; bisogna togliere la terra all’agricoltura intensiva, alla speculazione fondiaria, all’impatto inquinante dell’asfalto e del cemento per darla all’agricoltura contadina, biologica, rispettosa degli ecosistemi; bisogna rendersi conto che una crescita infinita, su cui si fonda sempre di più la nostra società, è incompatibile con un pianeta finito, fatto di risorse destinate ad esaurirsi con il tempo. Il pianeta che noi abitiamo non ci basta più e per poter continuare a tenere lo stesso tenore di vita, ne occorrerebbero molti di più. Per assicurare il benessere all’insieme dell’umanità, la Banca mondiale ha calcolato che nel 2050, la produzione di ricchezza dovrebbe essere quattro volte superiore a quella attuale. Ma come è possibile pensare che si possa produrre all’infinito?

E’ necessario, allora, che nella nostra società i valori di riferimento ed i comportamenti delle persone vengano rivisti e magari sostituiti con altri più opportuni: quindi basta con la competizione sfrenata,  consumare prodotti locali anziché d’importazione, sostituire la produzione industriale con la biologica. E’ necessaria una vera e propria rivoluzione culturale; è fondamentale abbandonare l’idea secondo cui l’unico scopo della vita è quello di produrre e consumare sempre di più. C’è da dire che già si avvertono dei piccoli segnali che fanno ben sperare; in particolare, si sta diffondendo un modo di coltivare la terra sempre più vicino a quello tradizionale, che veniva adottato dai nostri nonni, che zappavano la terra. Il modello agroindustriale che utilizza dosi massicce di diserbanti è sotto accusa perchè danneggia la qualità e la bontà del cibo che arriva sulle nostre tavole. Oggi, chi ha la possibilità, abbandona la città per vivere in campagna e dedicarsi alla coltivazione del proprio orticello con sistemi naturali. Si sta tornando a quegli antichi metodi di conservazione delle sementi che si tramandavano i nostri nonni, al fine di custodire prodotti e conoscenze altrimenti destinati a scomparire. Sempre più spesso si incontrano, nei mercatini rionali, piccoli imprenditori agricoli che cercano di contrastare la grande distribuzione, con prodotti a km 0. Nelle grandi città sorgono i cosiddetti “orti urbani”: piccoli fazzoletti di terra che vengono affidati ai cittadini, a titolo gratuito, ed utilizzati per la coltivazione ortofrutticola. E’ un'iniziativa efficace per salvaguardare il territorio comunale dal degrado, e consentire ai beneficiari di riscoprire quell’antico e nobile piacere di vedere crescere, e poi gustare, frutta e verdura prodotta con le proprie mani. O meglio con la propria zappa.