venerdì 13 giugno 2025

Viaggio nel Cilento

 


Nella primavera del 1881 – a vent’anni dall’Unità d’Italia – un insigne studioso pugliese, Cosimo De Giorgi, intraprese un lungo viaggio esplorativo nel Cilento, con l’incarico di redigere una carta geologica del territorio. Nel percorrerlo tutto, dalle valli del Calore a quelle dell’Alento, ebbe modo di conoscere e studiare dettagliatamente anche le condizioni di vita e di lavoro dei suoi abitanti, nonché le caratteristiche antropologiche degli stessi, evidenziandone miserie e degrado, pregi e difetti. Il suo reportage è contenuto in un libro molto interessante “Viaggio nel Cilento” (pubblicato da Galzerano Editore) la cui lettura mi ha stimolato (da buon cilentano) a fare una breve riflessione. Sarebbe oltremodo interessante capire – a distanza di oltre 140 anni da quel viaggio – quanto le caratteristiche identitarie di quegli antichi abitanti della seconda metà dell’Ottocento appartengano ancora ai moderni cilentani. E’ chiaro che la mia non vuole essere un’analisi a valenza scientifica dell’intima natura dell’uomo cilentano: non ho né la competenza né gli strumenti conoscitivi per farla. Vorrei soltanto soffermarmi, con leggerezza, senza pregiudizi ed in maniera anche ironica, su alcuni aspetti caratteriali messi in evidenza dallo scrittore pugliese, il quale, “calandosi” tra gli uomini del Cilento, offre la possibilità di guardarsi allo specchio del passato e verificare cos’è cambiato in questo arco di tempo. 

La prima cosa che traspare dalla lettura del libro è la grande ospitalità che i cilentani sapevano offrire ai propri visitatori “un’ospitalità franca, cordiale e senza orpelli. E’ questa la pagina più bella che renderà simpatica a tutti gli Italiani questa regione, come ha lasciato in me dei ricordi carissimi”. Così scriveva De Giorgi, il quale, girando tra i diversi paesi ebbe la possibilità di sperimentare la bontà e la meravigliosa accoglienza che gli riservavano: infatti a Roccadaspide il Sindaco lo accolse “a braccia aperte e mi offrì una cortese e gradita ospitalità nel suo palazzo”; a Felitto i signori che lo ospitarono “furono cortesissimi e mi prodigarono nel breve tempo che mi  trattenni delle cure affettuose delle quali serberò perenne ricordo”; a Vallo della Lucania il sig. Ermenegildo “mi usò un mondo di cortesie nel tempo che mi trattenni da lui”; a Pollica i signori della Cortiglia si dimostrarono nei suoi confronti “gentilissimi e colti”; a Ortodonico “mi prodigarono mille cortesie”, a Rutino la famiglia Magnoni “mi fu cordialissima” e a Vatolla “fui accolto gentilmente”. 

I cilentani, insomma, erano e sono rimasti così: ospitali, dal carattere tranquillo e cortese. Ecco, bisogna tirar fuori il meglio della tradizione. E il meglio è rappresentato senza dubbio dall’accoglienza e dall’affabilità dei comportamenti che sono alla base della nostra forza e ci contraddistinguono. Il De Giorgi scriveva anche che il cilentano è in generale “docile, buono, quieto, laborioso, coraggioso e audace nei pericoli”. Però poi notava che era anche “geloso e vendicativo specialmente nella cerchia dei suoi parenti e conterranei”.  Escludo che lui, oggi, possa considerarsi vendicativo: la vendetta è un sentimento che non gli appartiene. E poi uno che possiede una grande dose di bontà non può pensare alla vendetta come mezzo di riparazione delle offese ricevute. Sarebbe una palese contraddizione. Aveva poi notato - il viaggiatore pugliese - che l’abitante di quel territorio aveva qualcosa dei popoli orientali quando cantava le sue canzoni intrise di frasi monotone e melanconiche che egli ripeteva in maniera cantilenante: canzoni in cui vi era sempre “l’impronta dell’amore disperato, della gelosia, dell’abbandono e della voluttà”. E’ difficile oggi immaginare le giovani generazioni (sempre con un cellulare tra le mai) votate a questo tipo di canto di stampo orientale. I mass media, l’omologazione dei comportamenti e… Sanremo hanno provveduto, in maniera definitiva, a cancellare ogni traccia di quel passato. Parlando poi dell’indole del contadino, De Giorgi scriveva che “è svelto, sobrio, perspicace per talento naturale non per educazione o per istruzione: ma il suo lavoro è profuso in modo cieco ed irrazionale, e serve più come forza muscolare che come intelligenza”. Ebbene, quando ho letto questa frase, il mio pensiero è andato immediatamente a ciò che mi disse, tempo fa, proprio un contadino del mio paese natale, il quale avendo visto il suo asino in difficoltà mentre stava per attraversare un ruscello, se lo caricò sulle spalle sussurrandogli in un orecchio: “mi puoi fottere con l’intelligenza ma non con la forza”. 

Nonostante il De Giorgi non viaggiasse per scopi artistici, tuttavia non poteva esimersi dal visitare i monumenti e i cimeli d’arte che incontrava lungo il suo percorso. “Quanti tesori di arte e di antichità sono nascosti in questi piccoli paesi”, così annotava tra i suoi appunti. A tal proposito ebbe modo di verificare, in diverse circostanze, che nel popolo cilentano il sentimento della bellezza e dell’arte “era ridotto ai minimi termini”. Infatti, osservando gli edifici pubblici oltre quelli privati, si era reso conto che non era raro “veder delle case a due e tre piani, belle e finite e mobiliate con lusso nell’interno, ma senza facciata”. Devo dire che questo vizio non l’abbiamo ancora perso, tant’è che girando per i paesi è facile imbattersi in queste costruzioni le cui rifiniture esterne lasciano molto a desiderare. Il De Giorgi aveva notato inoltre che la coltura dei fiori, che ingentilisce lo spirito e rallegra la vista, in quei posti era sconosciuta, tanto è vero che un ricchissimo proprietario gli rispose “che preferivano un cavolo cappuccio ad una rosa o a un gelsomino”. Ma la cosa più grave era che sia a Paestum che a Velia “l’incuria degli uomini verso i monumenti sa dei popoli barbari…la profanazione qui ha toccato l’apice e prosegue vandalicamente senza che nessun italiano pensi ad opporvi riparo”. Mi viene da pensare a tutte le spoliazioni di monumenti perpetrate sul suolo italico e non solo nel Cilento. Basti pensare al detto latino riferito a Roma: quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini. 

De Giorgi aveva inoltre riscontrato nella popolazione la mancanza di iniziativa, lo scarso spirito di associazione, una certa indolenza e indifferenza per le cose, caratteristiche queste che forse ancora ci appartengono e che riguarderebbero praticamente tutto il meridione. Ogni opera buona e degna di attenzione veniva accolta con freddezza e con indifferenza – rilevava De Giorgi – “va innanzi pel tenace buon volere di qualcuno, e poi rapidamente languisce. Invano l’Autorità superiore cerca di soffiare un po’ di vita nel corpo addormentato; difficilmente si sveglia e presto si addormenta”. Egli portava l’esempio di Vallo della Lucania, dove due monumentali fontane decoravano la piazza; ma erano simulacri senz’acqua nonostante i monti dei dintorni fossero ricchissimi di acque potabili. 

E mi chiedo, per finire: gli odierni cilentani si sono risvegliati da quell’antico torpore? Hanno abbandonato quell’atavico letargo che li costringeva all’inerzia? Sono stati capaci – nel corso degli anni – di esprimere una classe di amministratori locali all’altezza della situazione? I risultati sono sotto gli occhi di tutti e, nel bene e nel male, ognuno può trarre le proprie conclusioni. Mi viene da pensare che quando un popolo - qualunque esso sia - riesce a fare autocritica individuando la parte peggiore di sé, debba munirsi di strumenti adeguati per poterla combattere. E penso che debba anche investire tutte le risorse e le energie necessarie al fine di potenziare il meglio che gli appartiene.

lunedì 2 giugno 2025

Come sopravvivere alla modernità

 


“Considerare la modernità come una malattia è il primo passo per curarla”. Lo scrive lo scrittore Alain De Botton nel suo ultimo libro che si intitola “Come sopravvivere alla modernità”. Pur avendo portato benessere e ricchezza, pur avendo allungato l’aspettativa di vita, liberato l’uomo dalle fatiche fisiche e dalle malattie, la modernità ci ha alienati, ci ha resi più ansiosi, ci ha disorientati ed esasperati come non era mai accaduto prima. Ha trasformato il nostro modo di pensare e di sentire ed ha apportato una serie di cambiamenti radicali in molti ambiti della nostra vita. Il segno più evidente è dato dall’informazione: siamo sempre connessi con un altrove indefinito. Veniamo continuamente assaliti da notizie di guerre in corso, di disastri ambientali, di tragedie familiari e umanitarie, di pettegolezzi politici e mediatici, di fatti anche minimi che, pur accadendo nei posti più remoti del pianeta, entrano prepotentemente nella nostra esistenza, anche se non ci riguardano da vicino. Ma le notizie di cui abbiamo veramente bisogno – sostiene De Botton – sono quelle che ci parlino della necessità di riflettere sulle cose, di ascoltare, di apprezzare ciò che abbiamo, di essere gentili ed accoglienti, educati e civili, di tornare a stili di vita più umani. Notizie più vicine alle nostre esigenze, alla nostra sensibilità e alla nostra capacità di poterle elaborare, notizie che possano acquistare il rilievo che meritano e lasciar perdere tutto il resto, mantenendo l’indipendenza mentale necessaria per non essere sopraffatti dalla volontà di chi ci vuole omologati nelle sue forme più ottuse e spietate.

La modernità, così rapida nei cambiamenti e nel cancellare tutto ciò che appartiene al passato, ha scatenato, in chi fatica ad assecondare i gusti imposti dal mercato globale, un’ondata di nostalgia per le cose semplici di una volta. Ha generato elaborate fantasie di fuga verso isole lontane, rifugi di montagna, luoghi isolati o piccoli borghi a misura d’uomo dove prendere le distanze dal caos, dai continui stimoli pubblicitari, dalle macchine e da certe “sirene” che vogliono rubarci il tempo. Desideri estremi, questi, che pur non essendo destinati a tradursi in realtà, rappresentano tuttavia il sogno suggestivo di tante persone - compreso lo scrivente - di fronte ai disastri del nostro tempo.

Se avessimo il coraggio di mettere in discussione i ritmi frenetici della vita moderna e limitare l’uso dei suoi strumenti tecnologici di cui siamo diventati schiavi; se avessimo la forza di prendere le distanze da tutto ciò che appare urgente; se fossimo capaci di non seguire passivamente le mode imperanti, di stare lontani dai consumi superflui, ebbene ci renderemmo conto che, in fondo, abbiamo bisogno di poche cose e che starsene in una stanza silenziosa in compagnia dei nostri pensieri “è forse il luogo più produttivo in cui ci si possa trovare”. I pensieri più brillanti nascono quando abbiamo la possibilità di stare da soli, passeggiando in un bosco, guardando  fuori dalla finestra nei tempi vuoti della giornata, ascoltando il silenzio.

La modernità, dice l’autore del libro, ha costruito gli ambienti urbani più deprimenti, caotici e  sgradevoli che la storia ricordi, anche se  li ha resi funzionali. In un ambiente degradato, anche con una vita ricca dal punto di vista materiale, il nostro spirito ne  risente e si fiacca perché i luoghi in cui viviamo parlano di noi e ci condizionano. La modernità ci ha dato un mondo più ricco, non un mondo più bello. La sfida, perciò, è non perdere di vista il nostro bisogno di bellezza e lottare contro certe forze della modernità che ci impediscono di assecondarlo. E’ stata la conoscenza a guidare il progetto della modernità, e la strada da fare è ancora lunga. L’uomo è l’animale sapiente. La modernità sarà anche un’epoca confusa – conclude De Botton – ma la traiettoria del futuro è chiara: non solo continuare a soffrire a cicli ricorrenti, ma anche gettare sempre più luce sull’oscurità primordiale – in linea con le nostre migliori potenzialità – per capire come scongiurare i pericoli della modernità.



domenica 18 maggio 2025

Certi luoghi...

 


…esercitano su di noi un forte richiamo, hanno un’anima, certi luoghi, che parla alla nostra anima;

ce li portiamo dentro senza saperlo, certi luoghi e, un bel giorno, si manifestano evidenziando quel legame profondo che con essi abbiamo deciso di intrattenere;



certi luoghi ci elevano verso una dimensione spirituale, forgiano la nostra vera identità, fortificano la nostra salute mentale, allontanano la tristezza, sono una promessa di felicità;

certi luoghi ci rendono migliori moralmente, esaltano i valori in cui crediamo, ci parlano di serenità, di equilibrio, di armonia e offrono l’espressione di quell’intima affinità che esiste tra ciò che vediamo e ciò che desideriamo essere;

certi luoghi custodiscono le note del silenzio, lo sguardo lento della gente, la gioia durevole delle piccole cose, il rumore dei nostri passi sul selciato in pietra;



certi luoghi - dove il tempo sembra essersi fermato - incoraggiano uno stile di vita alternativo, un nuovo modo di vedere le cose e di stare al mondo;

non ci fanno sentire mai soli, certi luoghi, e ci attraggono profondamente, a volte senza capirne la vera ragione; è come se proteggessero i nostri desideri, le nostre sensazioni, i nostri stati d’animo;



certi luoghi li percepiamo come un rifugio, sono cura dell’anima;

certi luoghi…


venerdì 2 maggio 2025

Invecchiare al tempo della rete

 


La lentezza, oltre a richiamare una filosofia di vita, un modo di stare al mondo, è anche una caratteristica propria della vecchiaia. Invecchiando si diventa lenti, nel fisico e nella mente, mentre il mondo intorno gira a grande velocità. E a volte appare incomprensibile. Al di là della retorica con cui oggi si cerca di mitigare quella che comunemente viene chiamata “terza età”, io mi sento di  dire, senza falsi infingimenti, che sono dentro la vecchiaia. E’ inutile girarci intorno: è arrivata con la pensione e me la porto dietro. Il passato, quello giovanile, io lo percepisco sempre più lontano, un passato che mi costringe a constatare il mio distacco dal presente, a volte la mia inadeguatezza, sebbene la società consumistica e tecnologica mi inviti a partecipare ai cambiamenti impetuosi che il mondo produce.

La vecchiaia, come scrive Massimo Mantellini in “Invecchiare al tempo della rete” è una faccenda da vecchi, interessa soprattutto chi è ormai avanti negli anni. Tutti gli altri le passano accanto con indifferenza. Da giovane io non mi sarei mai sognato di leggere un libro sulla vecchiaia.  Con questo saggio, Mantellini - uno dei maggiori esperti del mondo digitale - ci ricorda che nessuno, fino ad ora, è diventato vecchio su internet, un luogo molto diverso da quello in cui invecchiavano i nostri nonni e poi i nostri genitori. Tutto è iniziato circa un quarto di secolo fa quando la “rete” ha cominciato ad avviluppare le nostre vite, anche se in maniera differente. E chi nel frattempo cominciava ad avere una certa età, l’unica maniera possibile per dimostrare di essere ancora vivi ed attivi dentro la spietatezza del mondo digitale era quella di mimetizzarsi, adattandosi ai tempi che cambiavano. Il nuovo vecchio si è trovato, allora, ad un bivio: rimanere tale senza lasciarsi influenzare più di tanto dai cambiamenti tecnologici, oppure trasformarsi in una nuova figura: il vecchiogiovane. E la differenza principale fra il vecchio e il vecchiogiovane, ci dice Mantellini, è che “il primo rimpiange mentre il secondo – ancora – invidia”. E chi può invidiare se non i giovani? Il primo riconosce le sue limitate possibilità e si mette da parte, il secondo si finge innovativo e ancora giovane perché solo il giovane è la faccia dell’innovazione. Per Mantellini, il vecchio è Bartali, che apre un negozio di biciclette dopo aver appeso la sua al chiodo. Il vecchiogiovane invece, esponendosi talvolta allo scherno altrui, continua ad immaginarsi sui tornanti del Tour de France, trionfante a fine tappa mentre indossa la maglia gialla e riceve il bacio dalla miss. Per quanto mi riguarda, devo dire che con l’avvento della rete io sono rimasto fondamentalmente vecchio, sono il “Bartali che apre un negozio di biciclette”; e, come una pietra sul greto del torrente che scorre vorticoso, osservo la vita e, a volte, rimpiango. Avevo tutta la vita davanti, un tempo, perciò mi potevo permettere il lusso di rinviare. E rinviavo. Ora che il mio tempo va esaurendosi, mi accorgo che me ne servirebbe altro. Diceva Bobbio – citato da Mantellini – che “quanto più mantiene fermi i punti di riferimento del suo universo culturale, tanto più il vecchio si estrania dal proprio tempo”. E’ ciò che mi succede.

La rete ha capovolto il rapporto tra chi sa e chi non sa, tra la nuova vecchiaia e quella precedente. Un tempo erano i vecchi che sapevano e tramandavano ai giovani le proprie conoscenze. Oggi i vecchi non sanno, vengono guardati con sospetto e commiserazione, mentre i giovani sanno tutto. Sono i padroni della rete. Ma la possibilità di “esserci senza esserci, di guardare senza essere visti, di parlare in forma di sconosciuto, è una delle ragioni per cui, dopo un allenamento durato un paio di decenni, l’uomo adulto che inizia ad invecchiare in rete sceglierà di trasformarsi talvolta nel vecchiogiovane”. Gli ambienti digitali rendono ogni confine impalpabile, aggiungono astrattezza, confondono le carte e solo da quelle parti “gli estremi potranno mescolarsi e perdersi uno nell’altro”. Ciò non può succedere nel mondo reale dove non c’è alcuna mediazione e dove l’età separa e rappresenta un confine geografico insormontabile.

Il vecchio in rete si materializza con le parole, ma la rete resta pur sempre un luogo impervio e pieno di insidie, un percorso ad ostacoli nel quale la velocità fa da padrone incidendo sulle sue abitudini di vita come mai era avvenuto nel passato. Quando un’epoca decide di sostituire la scrittura a matita con quella digitale, la tecnologia costruisce improvvisamente barriere e fossati, spesso insormontabili, che fino a poco prima non esistevano, riducendo ulteriormente gli spazi di esistenza in vita dei più anziani. Alcuni riusciranno, o quantomeno proveranno a superare quei fossati, altri saranno lasciati ai margini “nel medesimo luogo nel quale in fondo erano sempre stati – scrive Mantellini - ma dentro una marginalità che origina per la prima volta dal design degli oggetti: una specie di dichiarazione di irrilevanza che ogni persona anziana vedrà ripetuta ogni giorno, dentro ogni gesto della parte di vita che gli resta”.



martedì 22 aprile 2025

"Serve il coraggio della bandiera bianca..."

 


Tener bene a mente certe parole di Papa Francesco è il modo migliore per ricordarlo, e per capire dove stiamo andando:

“Come vorrei una chiesa povera e per i poveri! Per questo mi chiamo Francesco: come Francesco d’Assisi, uomo di povertà, uomo di pace. L’uomo che ama e custodisce il Creato; e noi oggi abbiamo una relazione non tanto buona col Creato”

“Quando una società ignora i poveri, li perseguita, li criminalizza, li costringe a mafiarsi, quella società si impoverisce fino alla miseria”

“Nessuna pace è possibile senza un vero disarmo. L’esigenza che ogni popolo ha di provvedere alla propria difesa non può trasformarsi in una corsa generale al riarmo”

“Serve il coraggio della bandiera bianca: il negoziato non è mai una resa”

“La guerra in Ucraina non è la favola di Cappuccetto Rosso: Cappuccetto Rosso era buona e il lupo cattivo. Qui non ci sono buoni e cattivi metafisici, in modo astratto. Emerge qualcosa di globale, con elementi molto intrecciati. Un paio di mesi prima dell’inizio della guerra ho incontrato un capo di Stato, un uomo saggio…molto preoccupato per come si muoveva la Nato. Gli ho chiesto perché, mi ha risposto: stanno abbaiando alle porte della Russia”

“Alcuni stati si sono impegnati a spendere il 2% del Pil nell’acquisto di armi: sono dei pazzi”

“Oggi noi siamo in un mondo in guerra  dappertutto…noi siamo nella terza guerra mondiale, ma a pezzi”

“No a un’economia dell’esclusione. No all’idolatria del dio denaro”

“In questa società in cui c’è l’abitudine di fare muri, voi fate ponti, per favore”

“Un cristiano se non è rivoluzionario non è un cristiano”

“Se una persona gay e cerca il Signore e ha buona volontà chi sono io per giudicarla?

“Se uno dice una parolaccia a mia mamma io gli do un pugno”

“La corruzione spuzza”


mercoledì 9 aprile 2025

Moravia: Quando verrai sarò quasi felice

 




Alberto Moravia è uno dei grandi narratori del ‘900. Tra i miei preferiti. Penso di aver letto quasi tutto di lui, soprattutto durante gli anni del Liceo. Ricordo che lo incontrai un pomeriggio di tanti anni fa: credo fosse il 1990, l’anno della sua morte. Passeggiava per il centro storico di Roma, appoggiato al suo bastone, con quella sua andatura claudicante e con quella sua espressione perennemente annoiata, in compagnia della seconda moglie, Carmen Llera, di ben 45 anni più giovane di lui. Lo confesso: mi sarebbe piaciuto salutarlo e dirgli che ero un suo fedele lettore o, magari, avere un autografo, io che non ho mai chiesto autografi a nessuno. Ma non me la sentii di disturbarlo. Devo dire, però, che gli andai dietro per un po’, forse per trovare quel coraggio che mi mancava o forse per carpire qualche sua parola, prima che entrasse in un cinema di Via del Corso, dove proiettavano un bellissimo film che io collego sempre a quell’incontro rimasto in sospeso: “Balla coi lupi”. Qualche giorno dopo lessi la sua recensione su l’Espresso – lo scrittore allora collaborava con la rivista come critico cinematografico - e mi colpì positivamente, tant’è che decisi di andare al cinema a vedere il film.

Questo “amarcord”, per dire che ho appena finito di leggere le lettere che Alberto Moravia scrisse - dal 1947 al 1983 - a Elsa Morante, la sua prima moglie sposata nel 1941, raccolte in un volume pubblicato da Bompiani che si intitola “Quando verrai sarò quasi felice”, titolo tratto proprio da una lettera che lo scrittore le aveva inviato da Anacapri nel 1951. Sono lettere, queste, nate nei momenti di reciproca lontananza fisica, durante i numerosi viaggi di lavoro dello scrittore, che testimoniano la relazione affettiva e intellettuale della coppia, relazione tanto passionale quanto tormentata che andò oltre la loro separazione giunta dopo 25 anni, e mai sancita dal divorzio.

“Ho molto amato Elsa Morante – ebbe a scrivere una volta Moravia – non sono mai stato innamorato di lei. Innamorarsi è una cosa, amare è un’altra cosa”. Scorrendo queste lettere si comprende come i due giganti della nostra letteratura del Novecento - che riuscivano a catalizzare attorno a sé la società letteraria di quel tempo, e non solo – si amassero litigando. “Uniti e insieme divisi, per l’intera vita” come ha scritto la curatrice di questa corrispondenza, Alessandra Grandelis che si occupa da tempo dell’opera omnia dello scrittore romano. Devo dire che dalle lettere non si manifesta - se non a livello sotterraneo - quel “demone della letteratura” che li univa, mentre traspare con forza il lato umano, intimo e privato di Alberto Moravia, la sua fragilità, la sua solitudine che avvertiva anche stando tra la gente, la sua tristezza, le sue giornate “orribilmente noiose e angosciose”  vissute a Roma. “Cara Elsa – scrive in una lettera, proprio da Roma – mi sento così depresso come non sono mai stato in vita mia. Non riesco a fare niente senza impazienza e noia e le giornate sono un vero tormento per me. Ti prego però di non prendere troppo sul serio queste mie lamentele. E’ sempre stato così. Adesso è un poco peggiorato, ecco tutto”. Moravia appare saturo della vita di Roma, “i rumori terribili, il puzzo della benzina, la folla, tutte cose stancanti e ossessive”. In una lettera inviata dalla Iugoslavia nell’agosto del ‘64 fa presente di ritardare il suo rientro a Roma perché odia quella città, gli è completamente straniera e non ci trova “più niente che mi piaccia o per lo meno che me la faccia sopportare”.

Si sente spesso infelice, Moravia, ha la sensazione di portare un “busto” che lo “affligge molto”, si sente scontento di sé stesso e del lavoro che fa, non gli piace star solo, ma neppure “di stare in compagnia di gente volgare e noiosa” e allora avverte la necessità di evadere, viaggiare, cambiare aria. Le lettere sono state spedite dalle località più diverse: Parigi, Londra, Francoforte, Tokyo, New York, Leningrado…e Capri, dove spesso lo scrittore soggiorna, un’isola “che sta avviandosi decisamente a rassomigliare ad una spiaggia del tipo di Viareggio”, così scrive a Morante; preferisce invece Anacapri “il luogo che amo di più al mondo”. Ma la cosa che più colpisce, leggendo questa corrispondenza, è che Moravia declama sempre, in ogni occasione, il suo amore, il suo affetto a Elsa: “penso spesso a te – le scrive da Roma nel settembre del ’59 – e voglio dirti ancora una volta che tu sei la sola persona che conta nella mia vita e che non desidero se non di renderti felice e di stare con te. Non credere però (secondo il tuo solito) che io dica queste cose perché sei andata via e sei lontana. Le dico perché oggettivamente e realmente questa è la verità”. Eppure, a volte Moravia appare in balia delle bizze e delle stranezze della moglie, come quando lui le parla di quelle piccole cose quotidiane di interesse comune che ci sono tra di loro. E lei, ogni volta, sbotta. In una lettera che le invia da Roma nel 1961 ci tiene a rimarcare questo suo aspetto impulsivo scrivendo alcune frasi in maiuscolo, come a voler urlare la propria rabbia: “OGNI VOLTA CHE TI SI PARLA DI COSE MATERIALI FAI DELLE SCENATE INVEROSIMILI ASSURDE. TUTTO QUESTO DEVE FINIRE UNA BUONA VOLTA. HAI CAPITO?”. E’ una delle poche volte in cui Moravia sembra perdere le staffe e abbandonare la sua calma, il suo affetto per la moglie Elsa Morante. Un affetto che in qualche maniera durò tutta la vita. Lei morì nel 1985, Moravia la raggiunse cinque anni dopo.



sabato 29 marzo 2025

La gioia, all'improvviso

 


“Sono arrivato alla gioia dal dolore”

La buona letteratura prende lo spunto, a volte, dalle esperienze personali degli stessi autori. E quando ciò si manifesta non sai mai come catalogare il libro che stai leggendo, perché ti appare ora come un racconto autobiografico ora come un romanzo-saggio, ora come un diario. E man mano che scorri le sue pagine, all’interno delle quali spesso trovi riflessioni sorprendenti e di rara bellezza, avverti che il suo fascino risiede proprio in questa molteplicità di aspetti letterari, in questi flash mentali che scorrono lievi e struggenti sulla pagina. E’ lo stile narrativo, questo, che usa lo scrittore spagnolo Manuel Vilas ne “La gioia, all’improvviso”, già adottato nel suo primo romanzo  “In tutto c’è stata bellezza” che gli ha dato notorietà a livello internazionale.

Con “La gioia, all’improvviso” l’autore-protagonista si trascina per il mondo dietro qualcosa di nuovo che è comparso nella sua vita: un entusiasmo che a volte chiama bellezza, e altre volte gioia. Accompagnato dal figlio o dalla moglie - durante i suoi viaggi di lavoro, tra una città e l’altra, a presentare il suo libro o a tenere conferenze – approfitta dei momenti di dolce solitudine per ricordare il suo passato, le sue radici, i suoi amatissimi genitori, veri protagonisti del libro sebbene siano scomparsi da diversi anni. Ma l’autore continua a cercarli, forse perché cercandoli cerca sé stesso. Il libro è un autentico inno d’amore per un padre e una madre che vengono quasi divinizzati, perché “abbiamo tutti una necessità immensa di continuare a parlare con i nostri morti”. E lo scrittore spagnolo cerca di riannodare questa conversazione.

Nel libro ritroviamo i pensieri più intimi e più dolorosi dello scrittore: le sue amicizie, che sono sempre temporanee come gli amori; i suoi ricorrenti pensieri suicidi, che mai potrebbe mettere in atto perché causerebbe un dolore insanabile ai suoi familiari; e poi, la paura della morte, che ci coglie sempre soli anche se “abbiamo costruito l’illusione della compagnia…con l’invenzione della famiglia, dell’amicizia, dei legami incondizionati, anche se nessuno osa pensare alla propria morte che “non è brutta, l’abbiamo resa brutta noi”, ed è sempre quella degli altri, come se la nostra non esistesse. E poi i suoi fantasmi, che non lo abbandonano mai, in primis quello che lui chiama “Nosferatu”, il quale ha scelto come “dimora” il suo corpo “dove vive a proprio agio”: la depressione, “morso di un lupo sconosciuto sul benessere dei tuoi pensieri, della tua anima, della tua coscienza, del tuo equilibrio”; e poi ci sono i suoi anni tremendi avvolti nell’alcol, perché “l’inferno si presenta sempre con gli ornamenti del paradiso. E’ un classico della vita. Entri all’inferno credendo di entrare in paradiso…vai verso la morte ricordando che sei stato un grande bevitore. E la morte non può più farti nulla che non ti abbia fatto prima la vita”. Le sue notti insonni sono frequenti, come quella volta a Venezia: “Non sono quasi riuscito a dormire, mi svegliavo in continuazione. Mi alzavo dal letto e andavo a guardare il panorama: il buio, l’acqua, di tanto in tanto una chiatta che solcava il Canal Grande. Venezia alle tre di notte, alle quattro di notte. Sempre più vicino agli artigli di Nosferatu, in una liturgia di disperazione intelligente. Cercavo di ripassare in rassegna le cose meravigliose della vita”.

“Non sono un uomo – dice Vilas - sono un corpo che invecchia…un viaggiatore della parola”. Perché lui si è sempre sentito fuori dal dibattito sociale e dalle lotte di potere tra uomini e donne. Ma per sentirsi un uomo o una donna “bisogna avere vanità”. E lui non ce l’ha. Quella vanità che tutti accettano affinché “ci siano discendenza, lotta, movimento, aggressione, delitto, passione, ingiustizia”. Gli costa moltissimo trovare il suo posto nel mondo, forse non l’ha mai trovato perché non ha mai saputo quale finalità avesse la sua vita. E perciò vaga per il mondo. E viaggia.

Ma c’è tanto posto per la bellezza, nel libro, che non si mostra “agli esseri umani in gioventù, né durante la prima maturità. Piuttosto si mostra quando tutto comincia ad andarsene”. “L’unico modo per vivere in pace, all’età che ho io – scrive Vilas - è respirare un po' di bellezza. Forse la bellezza che arriva dal passato, come se fosse una fede o una religione. Se lo adoriamo, se ne facciamo un oggetto di culto, come faccio io, il passato ci invia un po' di gioia velata…ma quant’è difficile trovare la gioia profonda in questo mondo e quanto poco durano i momenti di gioia”.  Sono parole, queste, che provengono da un’esperienza personale ma hanno una valenza universale, dal forte impatto emotivo, perché “tutto ciò che ci è accaduto torna altrove e in altri esseri umani”. E’ il miracolo della letteratura, quella vera. E’ la dolcezza dei ricordi, e più s’invecchia e più affiorano. Eppure, abbiamo paura di “discendere nel passato”, ci “fanno male i suoi enigmi” e allora “ci inventiamo il presente”. Ma “cosa c’è nel mio presente – dice l’io narrante del libro - se non quell’ostinata e oppressiva e decadente e voluttuosa abbondanza del passato”.

Nel libro non mancano le considerazioni sul suo paese di origine, la Spagna, “che ha gente meravigliosa, però le sue élite politiche, sociali, economiche e intellettuali sono malate…sono sempre state le élite a rovinarci”; non mancano le riflessioni sul mondo caotico in cui viviamo dove non esiste più il silenzio, “una cosa che scarseggia dovunque”, quel silenzio che “soltanto la musica ha la legittimità di distruggerlo”. Ma la nostra civiltà produce solo rumori, solo la natura produce suoni. E “quando il suono si trasforma in rumore comincia il degrado della vita”.

Se io dovessi riassumere questo libro con tre aggettivi, direi: malinconico, struggente, poetico.


mercoledì 12 marzo 2025

Una mutazione antropologica

 


Quando ti trovi a discutere dell’attuale incontrollabile sviluppo tecnologico e digitale, che sta cambiando il mondo e le sue regole di vita, è facile che si crei una netta contrapposizione tra i sostenitori tout court di questa rivoluzione globale e chi invece – come il sottoscritto -  nutre più dubbi che certezze nei suoi confronti.

La tecnica sta producendo nel mondo, attraverso le sue innovazioni e i suoi strumenti altamente invasivi, scenari inquietanti e incontrollabili. E il genere umano, sotto questa continua spinta, sta subendo una vera e propria mutazione antropologica e culturale. Prendiamo, per esempio, l’intelligenza artificiale, ossia quell’insieme di capacità tecnologiche in grado di eseguire una serie infinita di funzioni avanzate, attraverso una macchina, e riprodurre quei processi mentali più complessi, propri di un essere umano. Ebbene, in molti campi potrebbe essere anche utile e preziosa, aiutando così l’umanità ad ampliare le possibilità di conoscenza. Ma quando poi leggo che grazie all’I.A. le immagini, le parole, il volto di una persona e i fatti possono essere travisati e sostituiti, senza che nessuno sia in grado di distinguere il vero dal falso, allora non posso non preoccuparmi. E chiedermi: chi dovrà fermare l’intelligenza artificiale quando diventa così pericolosa? L’umanità è già in pericolo da quando è stata inventata la bomba atomica e tutte le altre armi chimiche e nucleari di distruzione di massa. Di pazzi che governano il mondo io ne vedo tanti in giro e non vorrei che a questi si aggiungesse pure un robot di grande intelligenza, ma impazzito. Diceva Gunther Anders (non smetterò mai di citarlo) che “ciò che sappiamo produrre non possiamo non produrlo, ma anche perché non possiamo non usare ciò che abbiamo prodotto. Stando così le cose – diceva ancora Anders - viviamo in un’era nella quale gestiamo la produzione della nostra stessa distruzione (ciò che non sappiamo è solo il momento in cui essa avverrà)”. Questo per dire che la nostra capacità di fare è enormemente superiore alla capacità di prevedere gli effetti deleteri del nostro fare.

Sarebbe urgente, allora, un ripensamento del modus operandi che tenga conto di quella distinzione tanto cara a Pasolini tra “sviluppo” e “progresso”. E la nostra epoca - non dimentichiamolo - agisce secondo logiche di mercato e di sviluppo, non di progresso. Il “progresso” è quella condizione che determina l’elevazione culturale e morale e spirituale di un paese, da cui nasce una migliore qualità della vita. Ho l’impressione che oggi questa crescita qualitativa arranchi (se non è già scomparsa), di fronte al processo tecnico-economico-produttivo - lo sviluppo, appunto - che avanza sempre più velocemente, attivando cambiamenti e sconvolgimenti in tempi brevissimi.

Nel nome di uno scellerato sviluppo tecnologico, pieno di effetti collaterali negativi e di una crescita economica illimitata, stiamo mettendo a repentaglio anche il clima del pianeta, contaminando l’aria, l’acqua e il suolo. Perché dobbiamo correre e produrre e consumare sempre di più, altrimenti l’economia collassa. Così ci dicono. Ma siamo davvero sicuri che questa sia la strada giusta da percorrere per costruire il migliore dei mondi possibili? Io penso che l’uomo debba ristabilire con la natura l’equilibrio perduto e tornare a coltivare il suo limite umano, anche avvalendosi della tecnica ma senza che la stessa diventi il potere assoluto e dominante nel mondo.


sabato 8 marzo 2025

Sicilianità: una condizione esistenziale

 


Io penso che nel mondo della letteratura nessuno sia riuscito a cogliere meglio la natura peculiare di una comunità - illustrandone le caratteristiche più profonde attraverso storie umane – come gli scrittori siciliani dei loro conterranei. Da Verga a Pirandello, da Patti a Brancati, da De Roberto a Tomasi di Lampedusa, tutti questi grandi autori - provenienti da quella “provincia dell’intelligenza”, per usare una felice espressione di Leonardo Sciascia - hanno descritto la condizione umana ed esistenziale dell’essere siciliani, sintetizzabile in una sola parola: sicilianità. Attraverso le loro opere hanno svelato il carattere distintivo di un popolo, nel bene e nel male, fortemente influenzato dal passaggio di tante altre civiltà conquistatrici, a cominciare dai greci e dai bizantini, e poi via via dagli arabi, dai normanni e dagli spagnoli. 

Durante le mie letture credo di essermi imbattuto in tre tipologie diverse di sicilianità: e sono sicuro che non sono le uniche, ammesso che si possa catalogare l’identità socio-culturale di un paese e dei suoi abitanti. La prima che mi viene in mente è quella che aleggia nei libri di Vitaliano Brancati e del suo grande amico e scrittore Ercole Patti: una sicilianità incarnata da personaggi maldestri e smidollati, perdigiorno disincantati, improbabili seduttori, vanitosi e indolenti, che vivacchiano in un’isola assolata e addormentata, dove comicità e tragedia, ironia e scherno, commedia e farsa si mescolano. Un modo di essere siciliani, questo, condizionato da convenzioni sociali e pregiudizi e incentrato in un microcosmo dove la vita scorre lenta e immobile, monotona, noiosa…e dolce. Ma così dolce, ebbe a scrivere lo stesso Patti, “che si poteva invecchiare senza accorgersene e ritrovarsi ad averla vissuta tutta senza averne avuto coscienza, rimanendo sempre figli di famiglia. Questo era il dolcissimo veleno di Catania”.  

Poi c’è la sicilianità che traspare dai libri di Verga e Pirandello, precursori di uno scavo psicologico dei personaggi e, al tempo stesso, sostenitori dei valori e delle tradizioni di una terra antica, ma anche interpreti del divario economico e culturale che si era venuto a creare a seguito dell’Unità d’Italia tra nord e sud. E’ la Sicilia degli ultimi, dei pescatori, dei contadini, degli strati sociali più poveri dell’isola,  chiusi nella loro gretta mentalità, legati a rituali arcaici e sorretti da codici d’onore, sempre in lotta tra di loro, incapaci di aprirsi agli altri per trovare un reciproco positivo sostegno.

E, infine, c’è l’aristocrazia terriera e poi la borghesia che per molti secoli hanno rappresentato il potere politico, economico e sociale della Sicilia, forse l’espressione più alta, più ricca, più discutibile della sicilianità, fatta di luci e di ombre, di legalità e ingiustizia, di bellezza e bruttezza, mirabilmente descritta da Federico De Roberto e Tomasi di Lampedusa in quei due capolavori della nostra letteratura che sono “I Vicerè” e “Il Gattopardo”, le cui vicende si pongono a cavallo di due epoche: la borbonica e la sabauda. Al centro della narrazione, due illustri e nobili casate: la famiglia Uzeda di Francalanza – i Vicerè, nelle cui vene scorre sangue regale spagnolo – e la famiglia principesca dei Salina che ruota intorno al fascino irresistibile del protagonista, il Principe Fabrizio, metafora idealizzata dell’aristocrazia siciliana, colta e raffinata tardo-ottocentesca. Due saghe familiari rivelatrici di un ambiguo rapporto di attrazione-avversione verso un mondo scomparso, ma all’epoca dominante nell’isola.

Se dal romanzo di De Roberto emerge un potere cinico, sprezzante, che si regge su latifondi messi a rendita, i cui protagonisti - morbosamente  attaccati alla roba e ai titoli nobiliari - si detestano e si tiranneggiano a vicenda, pur di conquistare ricchezza e prestigio; dall’opera di Tomasi di Lampedusa affiora l’orgoglio di una dinastia decadente, alla fine del suo splendore, incarnata da Don Fabrizio, Principe di Salina. Il quale, incalzato dal Segretario prefettizio arrivato direttamente dal Piemonte, con il compito di convincerlo ad accettare la nomina a Senatore del futuro Regno d’Italia, declina decisamente l’offerta, pronunciando un lungo e intenso monologo - una sorta di testamento spirituale - che sancisce, come nessuno aveva mai fatto, la “sicilianità” di un intero popolo.

“Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee – dice il Principe di Salina - tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il “là” (…) Il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio. (…) tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi (…) vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi (…) i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria (…) La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?”


venerdì 21 febbraio 2025

Se telefonando...

 


Non ho un buon rapporto con il telefono: lo confesso. C’è ancora qualcuno che rimane sorpreso quando scopre che non ho il cellulare, una cosa rara di questi tempi. Quello che posso dire è che non mi serve, e poi mi causerebbe fastidio e imbarazzo, doverlo utilizzare in un luogo aperto. Però, non ho rinunciato al telefono fisso di casa: ma non rispondo quasi mai, quando squilla. Tanto nessuno mi cerca... A gestirlo, ci pensa mia moglie: lei ama tantissimo il telefono, non potrebbe vivere senza. Con il fisso o con il mobile, trascorre diverse ore della giornata in sua compagnia. Beata lei, io non la invidio affatto! E forse anche da qui nasce la mia idiosincrasia verso questo strumento, forse il più amato dall’umanità. Ma non da me. Se tutti fossero come il sottoscritto, oggi i gestori della telefonia sarebbero sull’orlo del fallimento. Tutti. Per fortuna non è così e il mondo va avanti.

Non esistono statistiche attendibili sull’argomento, ma io credo che da quando il cellulare ha fatto irruzione nella vita delle persone la quantità delle insulsaggini, dette e ascoltate, sia aumentata vertiginosamente. Un vantaggio comunque ce l’ha: si può parlare da soli, ad alta voce, e gesticolare furiosamente, ovunque, senza essere presi per matti.

Lo scrittore svedese Bjorn Larsson, in un suo delizioso libro che si intitola “Filosofia minima del pendolare” - l'ho letto in treno qualche giorno fa - ha scritto che alcuni studiosi del comportamento umano ritengono che le chiacchiere quotidiane degli esseri umani, al telefono o in altre circostanze, hanno la stessa funzione dello spulciarsi a vicenda delle scimmie, sarebbero cioè una sorta di collante che tiene insieme la società. Insomma, è l'evoluzione della specie umana.


mercoledì 19 febbraio 2025

Coltivo una rosa bianca

 




Coltivo una rosa bianca,
in luglio come in gennaio,
per l’amico sincero
che mi porge la sua mano franca.
E per il crudele che mi strappa
il cuore con cui vivo,
né il cardo né ortica coltivo:
coltivo la rosa bianca

 

José Martì


domenica 16 febbraio 2025

Sanremo

 


Il festival di Sanremo è finito. Deo gratias!

E' riuscito a sostituire e plasmare l'intero Paese per una serie infinita di serate, monopolizzando l'informazione e occupando la Rai. Ora si fa un gran parlare dei suoi 13 milioni e 400.000 spettatori che hanno seguito il festival nell’ultima puntata. Ma nessuno spende una parola per i 46 milioni e 600.000 italiani che non l’hanno guardato e che hanno dovuto subire, invece, il battage pubblicitario e mediatico di una ristretta minoranza. Diceva Nanni Moretti nel film “Caro diario”: “io credo nelle persone però non credo nella maggioranza delle persone: mi sa che mi troverò sempre a mio agio e d’accordo con una minoranza”. Ecco, devo dire che – diversamente da altre circostanze - in questa particolare occasione festivaliera le parole di Moretti mi trovano in totale disaccordo.


sabato 8 febbraio 2025

Biglietto lasciato prima di non andar via

 


Se non dovessi tornare,

sappiate che non sono mai

partito.

Il mio viaggiare

è stato tutto un restare

qua, dove non fui mai.

 

Giorgio Caproni

 

Ho letto e riletto, tante volte, questa breve poesia di Giorgio Caproni, cercando di afferrare quell’ intima e misteriosa essenza che si nasconde tra i suoi versi: ma non so se ci sono riuscito. La poesia, qualsiasi poesia, si presta sempre a innumerevoli chiavi di lettura. E la nostra non sempre coincide con quella dell’autore.

Il viaggio, lo sappiamo, è la metafora della vita: si viaggia, vivendo. Ma è un viaggio che si può fare anche senza partire: restando. D’altra parte, il mondo intorno a noi è sempre in movimento, è in continuo cambiamento e, quindi, non partire potrebbe essere una regola diversa del viaggiare. Ma viaggiare presuppone sempre un tornare. E non tornare significa morire. “Se non dovessi tornare – dice il poeta - sappiate che non sono mai partito”. E’ il suo epitaffio. Il poeta non parte e non torna: è in continuo viaggio con la sua poesia. E la poesia non muore mai, ti fa viaggiare con la fantasia e ti fa restare anche laddove non sei mai stato.


lunedì 3 febbraio 2025

Il teatrino della politica e dell'informazione

 


Non so voi, ma il sottoscritto  si nutre di pochissima televisione, per lo più di genere documentario. E’ noto, però, che siamo alquanto masochisti e farsi del male è una caratteristica che appartiene  unicamente al genere umano: e allora basta accendere la televisione e sintonizzarsi su uno dei tanti talk show, in onda dalla mattina alla sera. Sono quegli spettacoli tutti uguali nei contenuti: cambia solo il nome, il conduttore e il pubblico (dove è presente) che applaude a comando. Che si discuta di arte o di cucina, di ambiente o di economia, di lavoro o di pace o di guerra, ebbene, appare sempre lui: l’opinionista di turno, che può essere un giornalista o un politico. Uno potrebbe dire, a proposito dei parlamentari: sono circa seicento, quelli che siedono alla Camera e al Senato, e quindi è giusto che i cittadini che l’hanno eletti (o meglio li eleggevano…visto che ora non succede più), abbiano la possibilità di sentirli…di vederli…di conoscerli. Macché! La pattuglia che sta in televisione è composta da un numero esiguo di presenzialisti: sempre gli stessi di questo e di quel partito, i soli esperti della comunicazione politica e del sapere universale. E i giornalisti, allora? Sempre i soliti noti, pure quelli, che zompano da un programma all’altro.

E allora può accadere che il leader politico chiamato Tizio e il giornalista chiamato Caio - che all’alba erano ospiti di “Uno Mattina” a discutere di economia – si trovino entrambi, verso mezzogiorno, a “l’aria che tira” a discettare di guerra, per rincontrarsi, la sera, a “otto e mezzo”, pronti a inscenare una litigata su un tema molto spinoso come “il campo largo”. Il ministro Sempronio, intanto, aveva fatto una breve comparsata a “Omnibus” per dire la sua sullo strapotere di Trump e poi un salto a “Coffee break” (a pontificare su “la guerra in Medio Oriente”), dove era presente anche il suo avversario politico Vattelapesca, il quale - intervistato, la mattina presto, dal TG1 - aveva poi rilasciato un breve comunicato nel recarsi ad una riunione di partito, per essere poi ospite di Fabio Fazio a “Che tempo che fa”, dove avrebbe presentato il suo ultimo libro, già best seller.

Ma non è finita qui, perché se vi capita di incrociare qualche telegiornale – di qualsiasi televisione pubblica o privata – ebbene, le facce di bronzo che avevate visto disquisire a Porta a Porta…a Otto e mezzo…a Piazza Pulita e chi più ne ha più ne metta, ve le ritrovate di nuovo nei vari notiziari. E la cosa buffa è che le immagini dei soliti politici… che salgono o scendono da una macchina o stringono mani o parlano al cellulare – spesso attorniati da guardie del corpo in assetto di guerra e da un nugolo di giornalisti che impugnano microfoni alla ricerca di scoop – vengono trasmesse, in maniera ossessiva anche quattro/cinque volte durante lo stesso notiziario, a supporto visivo di servizi diversi (si fa per dire). Insomma vanno bene per tutte le salse.

E’ il solito teatrino dell’informazione che va in onda tutti i giorni negli studi televisivi, dove la menzogna ha la stessa dignità della verità documentata con prove inoppugnabili; dove si consuma la quotidiana, ipocrita celebrazione della politica, “per il bene del Paese” o “per le ragioni di stato” o “per la sicurezza della nazione”; dove il conduttore fa una domanda al politico di turno, senza poi replicare alla risposta, qualunque essa sia; dove un pubblico, pagato e plaudente, assiste in maniera passiva ad una falsa contrapposizione di idee e di intenzioni; dove i nostri cosiddetti “rappresentanti” – lo ripeto ancora – sempre gli stessi, possono esprimere qualsiasi sciocchezza, possono promettere mari e monti e mentire spudoratamente, perché tanto noi cittadini italiani siamo completamente sedati, incapaci di comprendere e di reagire. Mi chiedo: ma tali rappresentazioni televisive hanno il pregio di apportare qualche contributo, non dico alla soluzione dei problemi trattati, ma almeno alla conoscenza degli stessi? C’è forse qualcuno che a fine trasmissione - avendo ascoltato le opposte fazioni politiche insultarsi - ricordi qualcosa di ciò che è stato detto, dopo che gli uni hanno affermato una cosa e gli altri il suo contrario? Ma quando finirà questa farsa autoreferenziale? E chi fa informazione, potrà mai abusare all’infinito della pazienza degli spettatori che si ostinano ancora a guardarli?


domenica 26 gennaio 2025

Un'epoca senza maestri

 


Marcello Veneziani è un noto giornalista, scrittore e filosofo, considerato tra gli intellettuali più autorevoli della destra italiana. Non ha, però, la visibilità mediatica di un Cacciari o di un Galimberti. Mi è capitato di ascoltarlo e, soprattutto di leggerlo, in questi ultimi tempi, e devo dire che - anche se non sempre condivido tutto quello che dice e che scrive – apprezzo molto il suo linguaggio, per niente involuto. Credo che non bisogna cadere in quel pregiudizio, duro a morire, secondo il quale solo chi ha le tue stesse idee merita importanza e riconoscimento. D’altra parte, per giudicare un autore si deve sempre avere l’onestà e lo spirito critico di distinguere le sue posizioni politiche dalla sua prosa e dall’impronta che lascia nel lettore, prima ancora che nelle pagine della letteratura.

Veneziani è nato a Bisceglie in Puglia, è una persona pacata, dallo sguardo malinconico, che ama la lentezza e critica duramente la tirannia della tecnica. Riesce a comunicare molto bene il suo pensiero, un “pensiero mediterraneo” – per usare una sua espressione – e si confronta con il presente e la tradizione, con la filosofia e la religione, con il mito e la storia. E nell’epoca globale in cui viviamo, caratterizzata da un pensiero unico e allineato, voci come la sua sono davvero confortanti.

Ho letto il suo ultimo libro, pubblicato da Marsilio, che si intitola “Senza eredi” con sottotitolo “Ritratti di maestri veri, presunti e controversi in un’epoca che li cancella”. Nella storia dell’umanità – sostiene lo scrittore pugliese – questa “è la prima ad avvertire, come Luigi XV, che dopo di noi verrà il diluvio, che finirà con noi il mondo in cui viviamo”.



In ogni campo sembra aver valore positivo solo ciò che è nuovo, destinato a far dimenticare ogni cosa precedente. Sono rinnegati i maestri, la loro opera, le loro lezioni di vita. Non hanno nulla da insegnare perché arrivano da un tempo arretrato rispetto al nostro, con modi di vedere e di pensare e di agire superati. Questa perdita del “filo ereditario” si manifesta – secondo Veneziani – in tre forme intrecciate: in primis, non esiste più, tra le generazioni, un mondo comune di valori, di saperi e di tradizioni che uniscono, pur nella diversità anagrafica; non si parla lo stesso linguaggio per intendersi e comunicare; non c’è curiosità e interesse per il passato e riconoscenza per i grandi maestri che ci hanno preceduti. Tutto diventa obsoleto in fretta, tutto si automatizza e va sostituito. E il passato, quando non è esecrato, va cancellato, rimosso. In una società come la nostra che non conosce eredi e “non si riconosce erede di niente e di nessuno”, parlare di maestri, dice Veneziani, è un’impresa davvero ardita. Al loro posto pontificano gli influencer, i veri manipolatori delle coscienze che “seducono e conformano, agendo sul linguaggio, sull’immaginario globale e sul narcisismo individuale di massa”. Un’epoca senza maestri e senza eredi è anche un’epoca di solitudine di massa: il destino paradossale di un tempo iperconnesso che offre a ciascuno la possibilità di eleggersi, attraverso i social, maestri di se stessi.

Con questo suo libro, Marcello Veneziani ci presenta una raccolta di settanta brevi ritratti “non convenzionali, in vari casi sconvenienti” di maestri “veri, presunti o controversi, grandi e piccini”. Sono delle succinte biografie di scrittori, poeti, grandi giornalisti, filosofi - del passato come del presente -  accomunati dallo stesso avverso destino: non hanno eredi. Da Giordano Bruno, che orientò lo sguardo del suo pensiero all’infinito, a Giambattista Vico che lo rivolse, invece, all’eternità; da Manzoni che si affidò alla Provvidenza, a Verga che confidò nel Fato; da Baudelaire, poeta dionisiaco dell’ebrezza a D’Annunzio, il poeta soldato, l’esteta armato; da Proust, che guardò il mondo dallo “specchietto retrovisore” a Kafka, che si sentì come un insetto schiacciato dalla vita e dal potere; da Tomasi di Lampedusa e il suo trasformismo a Moravia, il cantore della borghesia romana; da Pascal a Leopardi, da Nietzsche a Kant, da Manganelli a Marchesi, da Camilleri a De Crescenzo, da Bocca a Scalfari a Sartori…quanti maestri senza eredi.

Ma noi – scrive Veneziani nel suo libro - “Non ci rassegniamo e ripetiamo con il drammaturgo austriaco Franza Grillparzer: “Se il mio tempo mi vuole avversare, lo lascio fare tranquillamente. Io sono venuto da altri tempi e in altri tempi spero di andare”. Nonostante tutto, continueremo a sentirci eredi di autori e tradizioni e a onorare i maestri, i padri, i fratelli maggiori. E, se saremo soli, vuol dire che saremo in compagnia degli dei, degli assenti, degli invisibili”


sabato 18 gennaio 2025

Viaggio in Italia

 


Non sono un viaggiatore nell’accezione più nobile e, direi, romantica del termine. E devo dire che non sono viaggiatori, ma solo turisti, anche quelli che oggi fanno in pochi giorni le crociere intorno al mondo e si spostano, a velocità supersonica, da un punto all’altro della Terra, senza alcuna fatica. Diciamocelo: viaggiare è tutt’altra cosa. Viaggiare è un’esperienza di vita che deve modificare e far nascere in chi la vive qualcosa di nuovo. Deve migliorare la persona, non peggiorarla. Viaggiare non è fare un milione di foto, con lo smartphone, dei luoghi visitati in fretta e furia, per mostrarle, poi, agli amici che sono rimasti a casa o postarle sui social.

Nel passato, capitava spesso che uno scrittore partisse per un lungo viaggio – che poteva durare anche degli anni – e, al suo ritorno, raccontasse in un libro ciò che aveva visto, vissuto e provato durante il suo lungo peregrinare. E poi era vivo il Gran Tour, quale esperienza fondamentale di formazione dei rampolli delle antiche e aristocratiche famiglie della ricca Europa. In entrambi i casi, gli interessati sapevano quando partivano ma non quando tornavano. Al mondo d’oggi questi viaggiatori non esistono più: abbondano invece i turisti mordi e fuggi. Non esistono più gli scrittori di viaggi. Abbiamo perso così un modo valido e completo di fare letteratura che va oltre la descrizione dei luoghi visitati e stabilisce un rapporto profondo di conoscenza tra sé e la realtà.

Dicevo che non appartengo a questa categoria eletta di viaggiatori e, forse, per questa ragione sono un cultore della letteratura di viaggio. Il “Viaggio in Italia” di Goethe, “Itinerario italiano” di Corrado Alvaro, “Un viaggio in Italia” di Guido Ceronetti, sono libri che ho amato. Ora sto viaggiando con il “Viaggio in Italia” di Guido Piovene, un libro magnifico di circa 900 pagine, pubblicato da Bompiani. La bellezza di questo libro è che non devi leggerlo necessariamente dalla prima all’ultima pagina, non devi seguire una trama, ma lo puoi sfogliare anche a caso, intraprendere con l’autore un singolo viaggio e poi lasciarlo, per riprenderlo in un tempo successivo. Guido Piovene è stato uno dei grandi scrittori del Novecento italiano e la sua fama è legata proprio a quest’opera monumentale. Indro Montanelli ebbe a scrivere che “un saggio sull’Italia come il suo “Viaggio in Italia” non lo scriverà mai più nessuno”. E aveva ragione! Lo scrittore veneto cominciò il suo viaggio dall’estremo Nord, Bolzano, nel maggio del 1953 e proseguì regione dopo regione, provincia dopo provincia, città dopo città, fino a raggiungere Pantelleria, risalendo poi lo Stivale e fermandosi a Roma nell’ottobre del 1956, dopo 3 anni e 5 mesi: un’impresa senza precedenti. Voleva conoscere l’Italia, gli italiani e, soprattutto, se stesso. Scrive Oreste Del Buono nell’introduzione: “Piovene riesce, come un antropologo, a far emergere dal suo viaggio il carattere nazionale, quello immutabile, che resiste alle mode e ai rovesci della storia”.