Mi piace ritornare sui vecchi
libri la cui lettura risale ad un lontano o recente passato. Mi piace ritrovare
certi personaggi letterari (come quei vecchi amici che non vediamo da tempo),
già incontrati una prima volta tra le pagine un po’ ingiallite di un romanzo, che in qualche maniera avevano nutrito la mia
immaginazione e la mia curiosità. Diceva il poeta russo Iosif Brodskij che tra uno
scrittore e un lettore spesso si stabilisce una conversazione del tutto privata,
un rapporto diretto senza intermediari, che poi diventa “un atto di reciproca misantropia”. E forse c’è qualcosa di più bello che
stare in compagnia pur rimanendo in piacevole solitudine? E’ pur vero, però,
che certi personaggi della letteratura, se avessimo la possibilità di incontrarli
davvero nel mondo reale, non sempre potremmo accettarli come amici; perciò li
osserviamo tra le righe con distacco e disincanto, ci piacciono, a volte ne
siamo attratti perché non urtano mai la nostra suscettibilità, come invece
potrebbe accadere se ci trovassimo a discutere con un qualsiasi nostro conoscente
in carne ed ossa.
Andrea Sperelli, il
protagonista de “Il piacere” di
Gabriele D’Annunzio è uno di questi: personaggio emblematico della narrativa
dannunziana, credo che nessuno meglio di lui incarni “l’alter ego” del grande
scrittore. Stare in sua compagnia è come stare in compagnia del Vate. Un giovane
aristocratico d’intelletto dai gusti raffinati, che predilige gli studi e ama
circondarsi di cose eleganti e pregiate, un uomo educato al culto della
bellezza, intorno alla quale gravitano tutte le sue passioni; ma è anche un
uomo prigioniero di mille contraddizioni, vanitoso e viziato, ipocrita e
amorale, che “dell’inganno e della
menzogna si era fatto nella vita un abito” e che “nel grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare
sommerge miseramente” intende “fare
la propria vita, come si fa un’opera d’arte”.
Gli anni romani di D’annunzio
riaffiorano in questo suo primo romanzo, edito nel 1889. “Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei
Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fori, ma la Roma delle Ville,
delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa
Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l’Arco di Tito per la
Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei
Doria, dei Barberini l’attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale.
E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e
istoriato dai Caracci, come quello Farnese; una galleria piena di Raffaelli, di
Tiziani, di Domenichini, come quella Borghese…”.
La “Divina Roma” – come viene da lui definita - è forse la vera
protagonista del romanzo, sempre al centro della narrazione, con i suoi
monumenti, i suoi palazzi, le sue piazze, le sue atmosfere. Per il protagonista
ogni occasione è buona per ammirarla e descriverla e “saziarsi dello
spettacolo”. L’altro giorno (apro una parentesi) mi è capitato di attraversare
Piazza del Quirinale, mentre i soliti turisti (ancora pochi, a causa del covid)
erano intenti in maniera quasi compulsiva a fotografarla e a filmarla impugnando
l’immancabile smartphone: lo facevano senza guardare con attenzione, senza
soffermarsi sui particolari, come una cosa dovuta. Mi sono ricordato, allora,
(e rientro nel libro), delle raffinate e solenni parole con cui il protagonista
del romanzo celebra quella piazza, quasi un atto d’amore verso la città eterna,
direi un invito ad osservare con occhi estasiati la bellezza da cui siamo
circondati. E ho pensato che se qualche volta provassimo a descrivere ciò che
guardiamo, a scrivere su un foglietto le sensazioni che suscitano in noi certi
luoghi, anziché fare migliaia di inutili fotografie da inviare ai social, forse
saremmo migliori, acquisteremmo una diversa sensibilità, un differente
approccio emozionale al bello.
Agli occhi di Andrea Sperelli –
e mi piace qui riportare tutta la descrizione - “la piazza del Quirinale appariva tutta candida, ampliata dal candore,
solitaria, raggiante come un’acropoli olimpica su l’Urbe silenziosa. Gli
edifizii, intorno, grandeggiavano nel cielo aperto; l’alta porta papale del
Bernini, nel palazzo del Re, sormontata dalla loggia, illudeva la vista
distaccandosi dalle mura, avanzandosi, isolandosi nella sua magnificenza
difforme, dando immagine d’un mausoleo scolpito in una pietra siderea; i ricchi
architravi del Fuga, nel palazzo della Consulta, sporgevano di su gli stipiti e
di su le colonne transfigurati dalle strane adulazioni della neve. Divini, a
mezzo dell’egual campo bianco, i colossi parevano sovrastare a tutte le cose.
Le attitudini dei Dioscuri e dei cavalli s’allargavano nella luce; le groppe
ampie brillavano come ornate di gualdrappe gemmanti, brillavano gli omeri e
l’un braccio levato di ciascun semidio. E sopra, tra i cavalli, slanciavasi l’obelisco
e, sotto, aprivasi la tazza della fontana; e lo zampillo e l’aguglia salivano
alla luna come uno stelo di diamante e uno stelo di granito. Una solennità
augusta scendeva dal monumento. Roma, d’innanzi, si profondava in un silenzio
quasi di morte, immobile, vacua, simile a una città addormentata da un potere
fatale. Tutte le case, le chiese, le torri, tutte le selve confuse e miste
dell’architettura pagana e cristiana biancheggiavano come una sola unica selva
informe, tra i colli del Gianicolo e il Monte Mario perduti in un vapore
argentino, lontanissimi, d’una immaterialità inesprimibile, simile forse ad
orizzonti d’un paesaggio selenico, che suscitavano nello spirito la visione
d’un qualche astro semispento abitato dai Mani. La cupola di San Pietro,
luminosa d’un singolare azzurro metallico nell’azzurro dell’aria, giganteggiava
prossima alla vista così che quasi pareva tangibile. E i due giovini Eroi cignigeni,
bellissimi in quell’immenso candore come in un’apoteosi della loro origine,
parevano gli immortali Genii di Roma vigilanti sul sonno della città sacra”
Andrea Sperelli, il
protagonista de “Il piacere”, alla fine dovrà fare i conti con le proprie
sconfitte sentimentali, il suo edonismo vissuto in forme estreme, il vuoto di
valori e il disfacimento di una società che – già ai suoi tempi - al valore
della bellezza aveva cominciato a sostituire quello del profitto. Insieme a questo
giovane eroe decadente - così simile al Dorian Gray di Oscar Wilde o al barone
Des Esseintes di Huysmans, che interpretano la vocazione più raffinata della
cultura europea - osserviamo il declino
di un mondo e la morte di un ideale di bellezza di cui il ceto aristocratico
doveva essere il principale custode.
più del romanzo in sè, che non ho letto, mi attraggono le tue riflessioni iniziali (il rapporto particolare tra lettore e personaggi dei libri, che affascinano finchè racchiusi tra le pagine ma non potrebbero esserci amici nella vita) e la provocazione che butti lì nel contesto della recensione (prendere appunti anzichè scattare ossessivamente foto che quasi annullano ciò che dovremmo vedere)
RispondiEliminapiacevolissima lettura questo tuo brano, senza nulla togliere a D'Annunzio :)
ml
Quel "senza nulla togliere a D'Annunzio" mi piace assai (sorrido). Grazie per le tue belle parole. D'Annunzio non incontra il favore di tutti, con quel suo lessico aulico, colto e prezioso. Io l'ho sempre letto con piacere. Si, la mia riflessione su quest'abitudine compulsiva di filmare e fotografare qualsiasi cosa, da sostituire con carta e matita, è proprio una provocazione. Anzichè guardare la gente passa il tempo a filmare: ma quei filmati chi li guarda? Basta vedere come si comportano i ragazzi ad un concerto: lo seguono attraverso lo schermo del loro cellulare. Mah! Ciao Carlo e buona giornata.
EliminaIntensa lettura di un bellissimo romanzo, tuttora iconico e seminale di certo decadentismo europeo. Bella anche la scelta del brano antologizzato. Io l’ho riletto di recente e mi ha affascinato questa Roma multiforme, esteticamente grandiosa. In certi passaggi (l’incontro al ristorante con gli amici verso il finale) sembra preludere a certe situazioni alla Francis Scott Fitzgerald: divertimento coatto, fatuità e senso di imminente sfacelo. Ciao, Pino.
RispondiEliminaGrazie per l'apprezzamento, Ettore. Diciamo pure che la Roma descritta da Gabriele d'Annunzio, in questo suo romanzo così come in altre occasioni, ha un fascino decadente. D'altra parte lui è il poeta più importante del decadentismo italiano. Ciao
EliminaSplendido questo post. Io mi sono concentrato sulla bellezza come pura estetica, accettabile ma troppo superficiale se non accompagnata da una bellezza dei sentimenti e dell'animo che rappresenta non "Il bene effimero della bellezza" di De Andrè, ma "l'uscire a riveder le stelle" di Dante Alighieri.
RispondiEliminaProprio così! Grazie
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