Sono un estimatore della
corrispondenza epistolare tenuta dai grandi scrittori del passato, un genere
letterario, questo, che mi ha sempre appassionato. Non potevo, quindi, non
leggere la raccolta delle oltre 900 lettere che Giacomo Leopardi scrisse ad
amici, familiari e personalità del mondo della cultura tra il 1810 e il 1837:
l’Epistolario. E’ il Leopardi intimo, privato, quotidiano quello che affiora
dalle pagine di questo straordinario documento, un Leopardi diverso da quello
che avevo conosciuto sui banchi di scuola (proprio perché non mi era stata data
la possibilità di leggere nessuna di queste lettere). Direi che è un Leopardi
più umano e più sensibile, che non manca di ironia: con le sue confidenze, i
suoi sofferti sentimenti, la sua solitudine, le sue speranze, i suoi giudizi
sulla cultura, il suo bisogno straziante di dare e ricevere amore, le sue
illusioni. Leggere Leopardi, oggi – nell’era della felicità che si compra come un
qualsiasi prodotto commerciale - può sembrare anacronistico, quasi un modo erudito
per farsi del male; eppure io credo che nessuno, meglio di chi ha sofferto
nella vita e ha saputo sublimare in arte la sua malinconia, può darci lezioni
quotidiane di autentica felicità.
Molte di queste lettere, pur
non essendo state scritte per essere divulgate – non penso che Leopardi,
allora, avesse mai pensato di pubblicarle - sono di rara e intensa bellezza da
cui traspare non solo il grande desiderio del poeta di comunicare con gli altri
e, quindi, di evadere da quel “natio borgo selvaggio”, ma anche quel suo
estremo bisogno di calore umano, nonostante fosse “naturalmente inclinato alla vita solitaria”. Alcune di queste
lettere Leopardi le scrisse durante il suo soggiorno a Roma. E io su queste
volevo soffermarmi. Aveva 24 anni quando arrivò la prima volta (nel novembre
1822), ospite dello zio materno nel palazzo Antici Mattei, dove dominavano “orrendo disordine, confusione, nullità,
minutezza insopportabile e trascuratezza indicibile” . Leopardi non amava
Roma e questi suoi sentimenti negativi non l’aveva mai nascosti. Rimase deluso fin
dal primo momento dalla città e dalla vita che vi si conduceva. La sua prima
impressione - per lui che veniva da un piccolo borgo come Recanati - fu di
totale rigetto, estraneità e spaesamento e non riuscì mai, anche nel corso delle
visite successive, a stabilire con la città eterna alcuna forma di partecipazione
e accettazione.
Nel leggere i suoi scritti, si
percepisce immediatamente il disagio che gli provoca la grande città, dove
risulta difficile coltivare amicizie e rapporti di solidarietà. “Tutta la grandezza di Roma – scrive
alla sorella Paolina – non serve ad altro
che a moltiplicare le distanze, e il numero dei gradini che bisogna salire per
trovare chiunque vogliate. Queste fabbriche immense, e queste strade per
conseguenza interminabili, sono tanti spazi gittati fra gli uomini, invece
d’essere spazi che contengano uomini”. Per il poeta, in un piccolo borgo ci
si può anche annoiare, ma alla fine i rapporti tra gli uomini e le cose risultano
proporzionati alla natura umana. Cosa che invece non può succedere in una metropoli
dove “l’uomo vive senza nessunissimo
rapporto a quello che lo circonda”. E arriva alla conclusione che l’unica
maniera per vivere in un posto simile senza soccombere “è quella di farsi una piccola sfera di rapporti, rimanendo in piena
indifferenza verso tutto il resto della società. Vale a dire fabbricarsi
d’intorno come una piccola città, dentro la grande”.
Al fratello Carlo confida che
da quando ha messo piede a Roma non è riuscito a godere di nessun momento di
piacere; l’unico luogo che gli ha procurato una vera gioia è stato il sepolcro
di Torquato Tasso, nella cappella del monastero di sant’Onofrio al Gianicolo.
Infatti, in una lettera al “carissimo signor padre” Monaldo scrive: “Venerdì 15 febbraio 1823 fui a visitare il
sepolcro del Tasso e ci piansi. Questo è il primo e l’unico piacere che ho
provato in Roma”. E le donne? Per Leopardi “le donne romane alte e basse fanno propriamente stomaco; gli uomini
fanno rabbia e misericordia”. E in un’altra occasione, sempre al fratello
Carlo, ribadisce quel concetto sulla ritrosia delle donne romane che non si
concedono neanche con uno sguardo “al
passeggio, in chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi
guardi”. Leopardi si definisce “molto
più disprezzatore che ammiratore” e le occasioni per confermare queste sue
caratteristiche non mancano. Alla sorella Paolina scrive: “tenete per certissimo che il più stolido Recanatese ha una maggiore
dose di buon senso che il più savio e più grave Romano”. Ha parole dure
anche nei confronti degli uomini di cultura, i “letterati” che poi sono pure “antiquari”
i quali trascorrono la loro esistenza “d’intrigo,
d’impostura e d’inganno”. In una lettera al padre rivela tutta la sua
insofferenza nei loro riguardi: “io n’ho veramente conosciuto pochi, e questi
pochi m’hanno tolto la voglia di conoscerne altri. Tutti pretendono d’arrivare
all’immortalità in carrozza, come i cattivi Cristiani al Paradiso…tutto il
giorno ciarlano e disputano, e si motteggiano nei giornali, e fanno cabale e
partiti, e così vive e fa progressi la letteratura romana”.
Si scaglia contro la
megalomania dei Romani, riscontrata anche nei numerosi spettacoli che vengono
allestiti in città : “pare che questi
fottuti Romani – dice sempre al fratello Carlo - che si son fatti e palazzi e strade e chiese e piazze sulla misura
delle abitazioni de’ giganti, vogliano anche farsi i divertimenti a
proporzione, cioè giganteschi, quasi che la natura umana, per coglionesca che
sia, possa reggere e sia capace di maggior divertimento”. Si lamenta, poi,
con la sorella Paolina di quanto sia cara la vita in questa città “dove colla maggior quantità di danari si ha
il minor numero di comodità e di beni. Gli alloggi soprattutto sono
strabocchevolmente cari l’inverno. L’estate è un’altra cosa: ma Roma allora non
è abitabile”. Insomma, Roma e i romani non ne escono bene da queste
lettere, vengono ripetutamente e duramente bastonati dalla penna di Leopardi. Non
oso immaginare cosa avrebbe mai potuto scrivere, il genio di Recanati, se si
fosse trovato a visitare la Roma di oggi! E chissà come li avrebbe visti e
descritti i suoi abitanti!
però, quanto livore contro "questi fottuti Romani"!
RispondiEliminaml
Mi hai fatto ridere...io però non sono romano. :)
EliminaMah, mi sembra che Leopardi abbia descritto, almeno in parte, anche la Roma di oggi, che per tanti versi negativi, sembra assomigliare a ciò che egli racconta. Io ho sempre pensato che Leopardi non fosse solo un poeta malinconico, ed è verissimo quello che scrivi quando dici che chi ha sublimato in arte la propria malinconia ci può insegnare a vivere bene. Sono sicuro che se potessi avere Leopardi seduto sulla poltrona del paziente, ne sentirei di molto belle...
RispondiEliminaIo credo che un paziente come Leopardi, per chi fa il tuo mestiere, sarebbe un soggetto molto interessante, sotto tutti i punti di vista. Un saluto
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