“Siamo sinceri. Se ti comparisse davanti Cesare
Pavese e parlasse e cercasse di fare amicizia, sei sicuro che non ti sarebbe
odioso? Ti fideresti di lui? Vorresti uscire con lui la sera a chiacchierare?” Lo scriveva, il 6
maggio del 1938, lo stesso Cesare Pavese in quel suo diario che si intitola “Il mestiere di vivere”, nel quale lo
scrittore piemontese registra avvenimenti, riflessioni, le sue più intime sensazioni.
Una sorta di confessione esistenziale, spietata e compiaciuta. Ebbene, se
avessi potuto rispondere a quella sua provocatoria domanda, non avrei avuto
dubbi: mi sarei fidato di lui e sarebbe stato un vero piacere trascorrere una
serata in sua compagnia per poter ascoltare le sue parole, così come oggi leggo
e rileggo i suoi libri. Ho estrapolato da quel diario – riletto in questi
giorni - alcuni suoi pensieri, rivelatori del suo modo di essere uomo e
scrittore alle prese con quella multiforme occupazione che è “il mestiere di vivere”.
La vita senza fumo è
come il fumo senza l’arrosto.
Ho sempre seguito
impulsi sentimentali, edonistici. Su questo non c’è dubbio. Persino il mio misoginismo
(1930 – 1934) era un principio voluttuario: non volevo seccature e mi
compiacevo della posa.
Non ho mai lavorato
davvero e infatti non so nessun mestiere.
Soltanto così si spiega
la mia vita attuale da suicida. E so che per sempre sono condannato a pensare
al suicidio davanti a ogni imbarazzo o dolore. E’ questo che mi atterrisce: il
mio principio è il suicidio, mai consumato, che non consumerò mai, ma che mi
carezza la sensibilità.
Esprimere in forma
d’arte, a scopo catartico, una tragedia interiore, può farlo soltanto l’artista.
Tra i segni che mi
avvertono esser finita la giovinezza, massimo è l’accorgermi che la letteratura
non mi interessa più veramente. Voglio dire che non apro più libri con quella
viva e animosa speranza di cose spirituali che, malgrado tutto, un tempo
sentivo. Leggo e vorrei leggere sempre più, ma non ricevo ormai come un tempo
le varie esperienze con entusiasmo, non le fondo più in un sereno tumulto
pre-poetico. La stessa cosa mi accade passeggiando per Torino; non sento più la
città come un pungolo sentimentale e simbolico alla creazione. Già fatto, mi
viene da rispondere ogni volta.
In amore conta soltanto
aver la donna in letto e in casa: tutto il resto sono balle, luride balle.
Eppure non riesco a
pensare una volta alla morte senza tremare a quest’idea: verrà la morte
necessariamente, per cause ordinarie, preparata da tutta una vita, infallibile,
tant’è vero che sarà avvenuta. Sarà un fatto naturale come il cadere di una
pioggia. E a questo non mi rassegno: perché non si cerca la morte volontaria,
che sia affermazione di libera scelta, che esprima qualcosa? Invece di lasciarsi
morire? Perché? Per questo. Si rimanda sempre la decisione sapendo – sperando –
che un altro giorno, un’altra ora di vita potrebbero essere affermazione,
espressione di un ulteriore volontà che, scegliendo la morte, escluderemmo.
Perché insomma – parlo di me – si pensa che ci sarà sempre tempo. E verrà il
giorno della morte naturale. E avremo perso la grande occasione di fare per una
ragione l’atto più importante di tutta la vita.
Pensiero d’amore: ti
voglio tanto bene che desidero esser nato tuo fratello, o averti messo al mondo
io stesso.
C’è qualcosa di più
triste che invecchiare, ed è rimanere bambini
Amare un’altra persona
è come dire: d’or innanzi quest’altra persona penserà alla mia felicità più che
alla sua. C’è qualcosa di più imprudente.
Per disprezzare il
denaro bisogna appunto averne, e molto.
La cosa segretamente e
più atrocemente temuta, accade sempre. Da bambino pensavo rabbrividendo alla
situazione di un innamorato che vede il suo amore sposarne un altro. Mi esercitavo
a questo pensiero. E voilà.
La morte è il riposo,
ma il pensiero della morte è il disturbatore di ogni riposo.
Sono in ritardo di
almeno otto anni sui miei coetanei. Solitamente essi a ventidue sono già
convinti di ciò che a trenta non mi convince ancora.
Tutti gli “affetti più
sacri” non sono che una pigra abitudine.
Date una compagnia al
solitario e parlerà più di chiunque.
Sciocco addolorarsi per
la perdita di una compagnia: quella persona potevamo non incontrarla mai,
quindi possiamo farne a meno.
Passavo la sera seduto
davanti allo specchio per tenermi compagnia.
La letteratura è una
difesa contro le offese della vita.
Perché sposarsi segna
il trapasso dalla giovinezza alla maturità? Perché con quest’atto si sceglie
tra le compagnie una che separa da tutte, che s’identifica con noi, che diventa
l’arena circoscritta della nostra socialità onde non avere più bisogno di
cercare la compagnia fuori di noi. E’ il suggello dell’egoismo che occorre per
vivere moderatamente, un egoismo cui serve di scusa il fatto che si cerca dei
doveri.
Leggendo non cerchiamo
idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un
suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una
zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di
cogliere nuovi spunti dentro di noi.
Gli anni diventano
lunghi nel ricordo se ripensandoci troviamo in essi molti fatti da distendervi
la fantasia. Per questo l’infanzia appare lunghissima. Probabilmente ogni epoca
della vita si moltiplica nelle successive riflessioni delle altre: la più corta
è la vecchiaia perché non sarà più ripensata.
L’arte di vivere è
l’arte di atteggiarsi in modo che le cose e le persone non abbiano bisogno
d’invitarle, ma vengano a noi. Per ottenere questo non basta disprezzarle ma
bisogna anche disprezzarle. Come con le donne non basta essere stupidi ma
bisogna anche essere stupidi.
Il matrimonio lo
prendono più sul serio gli scapoli che non i coniugati.
Siccome una donna
presto o tardi bisogna piantarla, tanto vale piantarla subito.
Passare del tempo in
silenzio, ringiovanisce individui e popoli.
Gli artisti sono i
monaci dell’età borghese. In essi l’uomo comune vede attuarsi quella vita di
contatto con l’eterno, quell’ascesi, che i villani del 200-400 vedevano nel
monaco.
Non si ricordano i
giorni, si ricordano gli attimi.
La vita pratica si
svolge nel presente, la contemplativa nel passato. Azione e memoria.
Nessuna donna fa un
matrimonio d’interesse: tutte hanno l’accortezza, prima di sposare un
milionario, d’innamorarsene.
Una beffarda legge
della vita è la seguente: non chi dà ma chi esige, è amato. Cioè, è amato chi
non ama, perché chi ama dà. E si capisce: dare è un piacere più indimenticabile
che ricevere; quello a cui abbiamo dato, ci diventa necessario, cioè lo amiamo.
Il dare è una passione, quasi un vizio. La persona a cui diamo, ci diventa
necessaria.
Nel rovello che ci dà
un rumore, un odore, una sensazione sgradevole – rovello improvviso e bestiale,
acutissimo – è mista un’ansia gioiosa che la sensazione si ripeta, che l’autore
vi torni, quasi per aver noi campo e motivo di odiarlo di più, di scattare.
Vivere in un ambiente è
bello quando l’anima è altrove. In città quando si sogna la campagna, in
campagna quando si sogna la città. Dappertutto quando si sogna il mare.
Non è bello esser
bambini: è bello da anziani pensare a quando eravamo bambini.
Ogni sera, finito
l’ufficio, finita l’osteria, andate le compagnie – torna la feroce gioia, il
refrigerio di esser solo. E’ l’unico vero bene quotidiano.
E’ bello scrivere
perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla.
Aspettare è ancora
un’occupazione. E’ non aspettare niente che è terribile.
C’è un solo piacere,
quello di essere vivi, tutto il resto è miseria.
La mia parte pubblica
l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho
condiviso le pene di molti.
"Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma."
RispondiEliminaecco leggendo questi stralci faccio mia questa sua affermazione.
ml
E la faccio anche mia...ciao Carlo
RispondiElimina"Aspettare è ancora un’occupazione. E’ non aspettare niente che è terribile" contro la depressione, la noia, l'inutilità di certo nulla che molti, troppi, fanno fatica a combattere..
RispondiEliminaConcordo, Franco. Un saluto
Elimina"E’ bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla". E' proprio così. Chi scrive, anche su un blog, vuole essere letto e quindi desidera parlare a una folla.
RispondiEliminaFrancesco
Mah! Non esageriamo, Francesco, altrimenti mi monto la testa. Più che a una folla, io parlo a due, tre persone: e tra queste, ci sei anche tu. E perciò ti ringrazio. Ciao, amico mio... :)
EliminaBuonasera Pino ,spero tu e famiglia stiate bene innanzitutto..
RispondiEliminaMi hai spronato a leggere con più attenzione e profondità questo scrittore e ti ringrazio.
Approfondendo altrove mi son trovata dinanzi una sua sorta di sua "sofferta ricerca spirituale"...e il paradosso è averne recepito qui in questo post una gioiosa certezza alla sua concretezza spirituale...
Ci sono frasi che ho riletto più volte per cercare di non farmele sfuggire o di trattenerle con più sicurezza ,evitando equivoci nella lettura e nell'interpretazione. Forse anche la motivazione stessa di approfondirne i suoi scritti .
Buongiorno L., leggo solo adesso il tuo commento, perché di sera raramente sono collegato al Pc.
EliminaNonostante tutto, devo dire che stiamo bene, grazie. E spero altrettanto di te.
Pavese è certamente uno dei miei scrittori preferiti: i suoi libri mi accompagnano dagli anni del liceo. “La sua sofferta ricerca spirituale” è sempre presente nei suoi scritti e in modo particolare nelle sue belle e profonde poesie che si allontanano dalla lirica del tempo per assumere una forma-racconto, struggente e appassionata. Ti consiglio, al riguardo, la raccolta di poesie “Lavorare stanca”, un testo che racchiude temi e spunti della sua narrativa. Un caro saluto
"lavorare stanca" ...grazie di cuore , seguirò il tuo consiglio e poi magari mi piacerebbe scriverti le mie osservazioni ,se naturalmente avrai tempo e piacere.
RispondiEliminaMi fa piacere saperti in salute a te e i tuoi ...anche io sto bene Grazie.
Grazie a te...e per me sarà un gradito piacere
EliminaLa mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti.
RispondiEliminaSai, questa ultima citazione, me la sono sentita perfettamente addosso. E' la precisa conferma della risposta alla domanda che per anni mi sono fatto su quale contributo al sociale io abbia dato negli anni, io che mi sono occupato solo delle singole persone.
"Ha dato poesia agli uomini, ha condiviso le pene di molti" vorrei che fosse scritto (fra molti anni!!!) sulla mia tomba!
Grazie a Pavese e grazie a Pino!!
Grazie a te. L'epitaffio è bello...lunga vita a te. Un sorriso.
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