Giuseppe
Dessì è stato uno dei grandi narratori della nostra letteratura. In questo suo
romanzo, vincitore del Premio Strega 1972, lo scrittore sardo descrive la sua
terra, quella Sardegna della sua infanzia (era nato a Villacidro, in provincia
di Cagliari), a cui era rimasto legato tutta la vita e che fa da sfondo a tutte
le sue opere narrative.
La
Sardegna che egli ci racconta in questo libro è quella dei primi anni del ‘900:
una regione antica e rurale, abbandonata dalle autorità locali e dalle
istituzioni che - nonostante l’unificazione dell’Italia avvenuta nel 1861 - non
aveva nulla a che fare con il Continente, dal momento che il suo mondo, anche
per le differenti condizioni geografiche e culturali, contrastava con
quell’astratta e retorica idea nazionalistica uscita dalle mani di Mazzini e
Garibaldi. Era ancora una terra che continuava ad essere tenuta nel conto di
una colonia da sfruttare, ed i suoi abitanti erano considerati alla stregua dei
briganti calabresi, rozzi e ignoranti, incapaci di darsi un futuro migliore. I
sardi, scrive l’autore, “si convincevano
di essere sudditi e non concittadini degli italiani, e sempre più si abbandonavano
alla loro secolare apatia e alla totale sfiducia nello Stato.
In
questo contesto socio-politico si snoda la vicenda del romanzo, che è
ambientata in un immaginario paesino della Sardegna, Norbio (potrebbe essere
Villacidro, il borgo natio dello scrittore) e ruota intorno all’ascesa sociale
di un povero ed umile ragazzo, orfano di padre (Angelo Uras), il quale, anche
grazie all’aiuto della ricca e nobile famiglia Fulgheri (il defunto avvocato
Don Francesco Fulgheri lo aveva nominato suo erede universale) diventa padrone
di uno dei più grossi patrimoni terrieri del circondario, fino ad essere eletto
sindaco del proprio paese. Assistiamo, così, al lento passaggio del nostro
personaggio dalla condizione contadina a quella borghese, dalla condizione di uomo
libero a quella di uomo pubblico, osservato e criticato. Egli, però, senza mai
ingannare i suoi elettori, durante il suo lungo mandato riesce a cambiare il
volto del suo paese attraverso importanti riforme; in particolare, il giovane
sindaco si batte strenuamente per impedire il taglio sistematico di migliaia di
ettari di bosco – su cui gli abitanti di Norbio esercitavano i loro antichi
diritti di pascolo e di legnatico – da parte di una Società Mineraria per
alimentare e sostenere le fornaci delle Regie Fonderie della zona.
Lo
scrittore, per mezzo del protagonista del suo libro – che assurge a paladino
dell’ambiente e sostenitore della messa in sicurezza del patrimonio boschivo
della sua terra - svela tutta la sua attenzione e la sua sensibilità verso una
problematica così delicata come la salvaguardia della natura e dei boschi. E’
molto bella la descrizione del paesaggio sardo che ne fa l’autore, con le sue
foreste, antiche quanto la stessa isola, margini naturali alle alluvioni e alle
frane, con i suoi monti che chiudevano le vallate, con i suoi olivi secolari,
così simili ad enormi pachidermi “di cui
si percepiva il silenzio, non come si percepisce il silenzio delle cose, ma
come si percepisce il silenzio di persone che stanno zitte e pensano”. Il
fascino di quella natura selvaggia e arcaica “che faceva pensare a ere geologiche scomparse” è sempre presente
tra le righe del romanzo, così come sono presenti, con le loro vicende umane,
gli innumerevoli personaggi che nell’insieme contribuiscono a fare del libro un
romanzo corale, un affresco storico di tutto un popolo, di straordinaria
intensità.
Colto
e armonico appare lo stile narrativo, che non delude mai il lettore amante
della bella scrittura.
(maggio 2013)
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