lunedì 7 aprile 2014

Il rumore assordante delle parole


Da piccolo mi arrampicavo sugli alberi e mi piaceva volare di ramo in ramo; era il gioco che più mi entusiasmava. Ricordo che preferivo un albero di gelso, perché aveva dei rami molto lisci che mi permettevano di fare delle acrobazie senza rovinarmi le mani. Mi arrampicavo e saltavo su e giù; c’era un attimo in cui la mano destra si fidava della sinistra ed io volavo, sentivo i muscoli elastici, la presa forte, ed era come camminare sulle mani e potevo guardare gli altri sotto di me e sentirmi più forte di loro.
Ero una sorta di “barone  rampante”. Ero come quel bambino descritto da Italo Calvino nel suo libro che vedeva negli alberi l’unico modo per affrancarsi dal condizionamento familiare.

Ancora oggi mi arrampico su quell’albero. Però solo simbolicamente. Lo faccio per legittima difesa. Per liberarmi dai condizionamenti imperanti, perché sono un po’ insofferente alle mode....ai volgari gossip quotidiani presenti su tutti i mezzi di informazione.....alle notizie insignificanti presentate come fatti importanti... all’enfasi con cui i mass media costruiscono i fatti per darli in pasto alla gente. Spesso sono costretto a risalire su quell’albero, non per chiudere gli occhi e non vedere,  ma per guardare meglio e per combattere la tirannia dell’informazione e del conformismo.

D’altra parte i giornalisti fanno il loro mestiere, devono vendere e poi conoscono molto bene la curiosità morbosa di chi legge e di chi guarda. Se uno squilibrato ammazza i propri familiari e poi si suicida, io posso anche leggere la notizia come fatto di cronaca, ma non potrei mai seguire le mille puntate successive costruite ad arte su una tragedia umana e familiare che si ripete, purtroppo, da quando esiste l’uomo sulla terra.
In queste occasioni mi “arrampico” su quell’albero ideale, in attesa di tempi e notizie migliori. In attesa che cessi il rumore. Si, perché nella nostra società  esiste un rumore che nel passato non esisteva: il rumore assordante delle parole. Troppe. Una tempesta di parole ci assale non appena mettiamo in moto i mezzi di informazione. Si parla di politica? le parole sono sempre le stesse, da anni, pronunciate dai soliti noti che zompano come cavallette da una trasmissione all’altra. E parlano…parlano.

L’effetto di questo baccano assordante si riflette negativamente sulle persone, che ormai vivono con questo chiacchiericcio di fondo, assuefatte al rumore e sempre meno disposte a cogliere e distinguere la vera comunicazione meditata e quindi realizzata con intelligenza, dalla spazzatura. Televisione, giornali, internet e quant’altro sono diventati tutti contenitori di parole roboanti, in continua guerra tra di loro per accaparrarsi il maggior numero di clienti disposti a farsi fagocitare. Sembriamo ipnotizzati soprattutto dalle parole poco autorevoli, quelle vuote di senso; siamo attratti dalle notizie-gossip e dal frastuono, che ci stordiscono e ci impediscono di pensare. Un profluvio di parole senza alcun contenuto. I fatti che accadono, se non vengono enfatizzati, sono poco appetibili; un avvenimento, quindi, deve essere sempre presentato come straordinario…eccezionale. Anche le notizie meteorologiche subiscono questo speciale trattamento. Se in una normale giornata invernale fa freddo – come succede da millenni – per chi si occupa di informazione è sempre in arrivo “ un’ondata di gelo”; se in agosto fa caldo (sarebbe straordinaria la notizia se facesse freddo), tutto il Paese è serrato “nella morsa del caldo”. Sembra quasi che l’informazione debba  fare ammuina per scuotere le persone dal torpore. Rumore come contrario di una corretta informazione e quindi confusione di ogni messaggio, notizie irrilevanti al fine di nascondere – sempre più spesso - quelle più scomode.

Le nostre capacità percettive, seppure rilevanti, hanno dei limiti oltre i quali sono destinate ad ottundersi per l’eccesso di stimolazioni visive ed uditive cui vengono quotidianamente sottoposte. Per non soccombere, io credo che dobbiamo cercare sempre, durante la giornata, un momento di “digiuno”. E’ difficile che questa limitazione possa arrivare dagli stessi mezzi che vivono di parole e di immagini. E allora spetta a noi ritrovare quell’intervallo perduto, quella pausa immaginifica che ci consenta di liberarci dal “troppo pieno”, dalle troppe parole.

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