La
trama è alquanto scarna: il protagonista, che è anche la voce narrante del
racconto, un bel giorno decide di lasciare il mondo in cui vive e ritirarsi in
una casupola in mezzo al bosco, nei pressi di un borgo abbandonato. Non ci è
dato conoscere il perché di questa estrema decisione. “Sono venuto qui per sparire” questo l’incipit del libro “in questo borgo abbandonato e deserto di
cui sono l’unico abitante”.
Da
queste prime battute, sono andato con il pensiero indirettamente a David
Thoreau, lo scrittore americano dell’800, noto per il suo libro autobiografico “Walden, ovvero la vita nel bosco”, in
cui raccontò la sua esperienza di vita alternativa in una casetta di legna nel
bosco, lontano dalla civiltà e dal consorzio umano, nel completo abbraccio con
la natura, in felice e solitaria contemplazione.
Devo
dire, però, che ho dovuto subito abbandonare questo confronto, perché l’autore
del romanzo, già dalle prime pagine, mi fa capire che il suo intento non è
quello di proporre un modello alternativo di vita, di aprire una finestra
spalancata su un altro modo di vivere e di sentire l’esistenza. No. Egli si
incammina, invece, verso un tortuoso percorso di ricerca interiore e ci conduce
in un mondo in cui la natura – metafora della vita - sembra una sorta di selva
oscura in cui gli alberi e tutte le altre forme vegetali sono in lotta tra di
loro per occupare un proprio spazio vitale. In altre parole, la natura
selvaggia in cui lui si è rifugiato per trovare quella pace e quella serenità
interiore, anziché accoglierlo benevolmente, pare vogliano respingerlo
inesorabilmente verso l’abisso. Ma ecco che nel suo vivere quotidiano appare
qualcosa di inaspettato; di notte, quando il buio si fa più fitto, il
protagonista vede accendersi, dall’altra parte del bosco, sempre alla stessa
ora, una strana ed insolita lucina. Incuriosito, dopo qualche giorno, decide di
raggiungere il luogo e con sua grande sorpresa appare di fronte a lui un
bambino, che vive da solo in mezzo al bosco, nelle sue stesse condizioni, in
una piccola casa di pietra.
Chi
sarà quel bambino che si materializza attraverso una luce di notte? E’ forse il
protagonista stesso che diventa bambino o, piuttosto, è quel “bambino” che
alberga nell’animo dell’autore/protagonista e quindi in ognuno di noi?
La
cosa che più mi ha colpito di questo romanzo - al di là della trama che
sconfina nel surreale - è certamente la scrittura: essenziale, asciutta, quasi
elementare in alcune circostanze, soprattutto quando lo scrittore si dilunga in
talune descrizioni che riguardano il vivere quotidiano del suo personaggio.
In
una nota introduttiva al libro, Antonio Moresco scriveva che questo racconto,
proprio per la sua particolare natura intima e segreta, sarebbe stato una sorta
di testamento spirituale, qualora fosse “crepato” il giorno dopo averlo
scritto. L’essenza di tale affermazione io l’ho trovata proprio nell’ultima
pagina.
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