Si
presta a diverse chiavi di lettura questo singolare romanzo di Guido Piovene,
vincitore del Premio Strega 1970. Intanto è un libro di difficile
catalogazione: una via di mezzo tra il giallo
metafisico (che pur avendo certe caratteristiche iniziali del giallo
tradizionale, se ne allontana velocemente per assumere connotazioni astratte)
ed il racconto dell’assurdo, che trova riscontro soprattutto nelle opere di
Kafka e di Camus (di quest’ultimo mi viene in mente “Lo straniero”).
L’assurdità, però, non risiede tanto nella prosa, che è lineare e scorrevole
(alcune descrizioni di ambienti sono veramente apprezzabili), quanto negli
avvenimenti suggestivi ed irreali che si succedono nella narrazione.
Il
protagonista del romanzo è un impiegato di una compagnia di aviolinee che si
occupa di pubblicità; egli non crede più nell’uomo, quell’uomo che nel passato
era stato il padrone del mondo e che adesso è “falso e abietto....che non domina, non trasforma, non esprime più
nulla”. Per lui gli alberi sono migliori, più umani, come quel vecchio
ciliegio davanti casa che aveva messo radici in un vecchio muro di cinta, che
gli parlava e da cui “gli piaceva essere
ricevuto dopo una lunga assenza”.
Con
questi sentimenti, un bel giorno, senza un apparente motivo, lascia il lavoro e
si ritira in campagna, in una casa ereditata dal nonno, nonostante non ami la
vita agreste. Qui si verificano dei fatti molto strani perché il nostro
personaggio – che anzitempo aveva lasciato anche la moglie – riceve minacce di
morte da un abitante del posto che, a sua volte viene misteriosamente ucciso.
Ma la cosa che più lo sconcerta - e ci sconcerta - è l’incontro con
Dostoevskij, lo scrittore russo che aveva di più amato in vita sua, ritornato
in vita dal mondo dei morti. “Avevo
deliberato che niente di quanto accadeva dovesse interessarmi o sembrarmi
strano. Dicevo che, se mai, ero io il vero morto; dunque, niente di strano che
ne avessi incontrato un altro probabilmente meno morto di me”.
Inizialmente,
si ha l’impressione che il protagonista sia incapace di rapportarsi con i suoi
simili, di vivere e di agire nella realtà circostante, di partecipare agli
affetti e agli avvenimenti che lo riguardano e cerchi, invece, di trovare la
sua dimensione umana e materiale in un altro mondo: il mondo dei morti,
l’aldilà. Poi scopriamo che l’aldilà è la sua vita di prima, da cui egli stesso
proviene e che il mondo (il passato e il presente) non è altro che un immenso
archivio, in cui sono conservate, come tante fotografie, tutte le cose che
accadono. Un mondo che esiste solo per essere catalogato. “Anche gli odi, le lagrime, le vite inutili e le morti fallite hanno
soltanto questo scopo, in cui non falliscono mai; gli assassinii, i massacri,
l’idiozia, la bassezza, le sofferenze degli amori traditi, accadono per essere
fotografati”.
La lettura di questo libro mi ha lasciato un po’ stordito. Se l’intento di Piovene era quello di disorientare il lettore, di proiettarlo in una dimensione sovrumana, ebbene, devo dire che ci è riuscito pienamente.
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