Non amo le favole. Forse perché, quand’ero piccolo, nessuno
me le ha mai raccontate; le favole vanno lette ai bambini, affinché da grandi
possano rimanere vive nella memoria. Ma Pinocchio, o meglio “Le avventure di
Pinocchio”, è un libro talmente speciale che
è conosciuto praticamente da tutti, anche da chi non l’ha mai letto e,
comunque, lo si può leggere in qualsiasi stagione della nostra vita. Perché è
un libro universale, per grandi e per piccoli; perché commuove e appassiona, fa
ridere e fa piangere, diverte e istruisce. E’ un libro che racconta la vita,
nelle sue innumerevoli vicissitudini, che racconta le passioni e le cattiverie
dell’uomo, ma che si sofferma anche sugli slanci di altruismo e di solidarietà
che attraversano l’animo umano.
Pinocchio, questo simpatico e bellissimo burattino di legno,
rappresenta nella sua reale semplicità un autentico capolavoro di ebanisteria –
oserei dire - degna creazione di quel grande “maestro d’ascia” della
letteratura che si è rivelato Collodi, pseudonimo di Carlo Lorenzini, lo
scrittore fiorentino che pubblicò il libro nel 1883. Per me il burattino
Pinocchio va tutelato come patrimonio dell’umanità, come il David di
Michelangelo, perché incarna l’espressione fiabesca del genio italico nel
mondo, considerato che il libro è stato praticamente tradotto in quasi tutte le
lingue, ed è conosciuto nel mondo quanto il Colosseo o la Basilica di S.
Pietro.
Negli anni della fanciullezza avevo letto pagine sparse del
libro, senza avere la capacità di fare una riflessione più profonda sul
significato del testo; ora, rileggendolo, il mio pensiero è andato
immediatamente al libro della Genesi, dove si legge che il Signore Dio creò
l’uomo dal fango della terra, gli soffiò sul volto lo spirito della vita e
quella creatura divenne un essere vivente. Il creatore, quindi, visto come una
sorte di artigiano – non vorrei essere blasfemo – che modella l’argilla a sua
immagine e somiglianza e ne ottiene il primo uomo.
Mi piace immaginare un Collodi, che accingendosi a scrivere
il suo libro, abbia pensato - almeno per un momento - al sacro libro della
Genesi e si sia ispirato alla più grande e sublime delle creazioni divine
(effettuata da Nostro Signore il 6° giorno) per portare a termine la sua fatica
e quindi la sua personale “creazione”: quel burattino chiamato Pinocchio,
costruito da un pezzo di legno dall’artigiano Geppetto. Certo, un accostamento
alquanto azzardato, ma per me resta sicuramente affascinante. Sia l’uomo
apparso per la prima volta sulla terra creato da Dio, che il bambino/burattino,
nato dalla straordinaria fantasia di Collodi, sono stati modellati con un
materiale molto comune presente in natura: nel primo caso, il fango; nel
secondo un pezzo di legno, che non era “un legno di lusso, ma un semplice pezzo
di catasta, di quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per
accendere il fuoco e per riscaldare le stanze”, così si legge nel libro.
E’ veramente incredibile come queste due meravigliose
“creature”, ossia l’uomo, signore indiscusso dell’universo e Pinocchio,
l’immaginario collettivo della fiaba universale che incarna il bambino
indisponente e bugiardo che è in noi, siano nati non già da un materiale ricco
e pregiato, come potrebbe essere l’oro o qualsiasi altra sostanza preziosa, ma
dalla terra e dal legno. Quasi a voler significare che la bellezza si genera
dalla semplicità piuttosto che dalla ricchezza. Esiste forse in natura un
qualcosa di più bello della “persona umana”, intesa come la massima espressione
dell’intelligenza e della perfezione? E forse esiste nel mondo delle favole un
personaggio che sia più amato del burattino Pinocchio, che diventa bambino e
quindi uomo nel momento stesso in cui sa prendersi le sue responsabilità?
Pinocchio ci rappresenta e ci somiglia, con i suoi vizi e le
sue virtù, con i suoi momenti di tristezza e con i suoi slanci di gioia e di
affetto, con la sua furbizia, ma anche con la sua ingenuità. C’è forse qualcuno
che non abbia mai disubbidito ai suoi genitori, o che non abbia mai pensato di
marinare la scuola, almeno una volta nella sua vita? O che non si sia fatto
imbrogliare da qualcuno più sveglio, pagandone le conseguenze?
Personaggi come Geppetto, il Gatto e la Volpe, Mangiafoco,
il Grillo parlante, la Fatina e tante
altre mirabili invenzioni restano indelebili nella memoria collettiva, miti
intramontabili della nostra fanciullezza, a cui ricorriamo ogni qualvolta
abbiamo desiderio di ritornare bambini e credere nelle favole.
E poi come dimenticare quel finale, un po’ a sorpresa, che
in qualche maniera ci sconcerta, in cui il burattino di legno diventa un
ragazzo in carne e ossa. Una trasformazione che vuole rappresentare,
metaforicamente, il passaggio dalla fanciullezza alla maturità, dalla
spensieratezza e dalle imprudenze tipiche dei bambini alla consapevolezza ed
alla responsabilità degli adulti. E quell’immagine del burattino inerme
“appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte, con le braccia
ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo” non può che
metterci un po’ di tristezza, perché perdiamo un amico a cui ci eravamo
affezionati e in cui ci eravamo immedesimati allorquando, con le sue ribellioni
e le sue disubbidienze, combatteva la sua personale battaglia contro il mondo
degli adulti.
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