Anna Banti, pseudonimo di Lucia Lopresti, è una scrittrice
toscana, di origine calabrese. Con questo bel libro “Noi credevamo”, poco
conosciuto al grande pubblico dei lettori - da cui peraltro il regista Mario Martone ha
tratto un suo film, che ha il merito di aver rilanciato anche la lettura del
romanzo – rivive le aspirazioni ed i ricordi del nonno (Don Domenico Lopresti)
un fervente repubblicano mazziniano, il quale si era illuso che l’unificazione
d’Italia avesse finalmente cambiato in meglio anche le sorti della sua
Calabria, nonché le condizioni di vita di tutto il Meridione.
Ora, alla soglia dei suoi settant’anni - a poco più di
vent’anni dall’Unità d’Italia (siamo nel 1883) - questo ormai decaduto nobiluomo
calabrese, che in gioventù aveva patito 12 anni di dura detenzione nelle
carceri borboniche di Procida, Montefusco e Montesarchio, per essere stato un
fomentatore di disordini sociali, ormai solo, malato e amareggiato, si ritrova
a scrivere le sue memorie attraverso i ricordi di una vita, e lo fa quasi di
nascosto dalla moglie e dai suoi due figli, nella sua casa di Torino, dove si
era trasferito da due anni, per la gioia della moglie piemontese Annetta.
Non ama nulla di Torino: né il suo ordine, né la sua mediocre
civiltà piena di sussiego, né il razzismo strisciante dei suoi abitanti nei
confronti dei meridionali, che sono tutti “napoletani,
soggetti da guardarsene, da sorvegliare, qualcosa di mezzo fra il brigante e
l’imbroglione”. Questi dissapori, questi contrasti nei confronti di Torino
e dei Piemontesi hanno il merito, però, di sortire “il piacere amaro e inebriante della nostalgia” della sua terra
lontana che, seppure da giovane gli facesse paura, nell’arida vecchiaia
rappresentava senz’altro una meritata conquista.
Il libro è pervaso da un velo di rassegnata delusione, che
appare chiara quando, attraverso la scrittura, Don Domenico rivive i momenti più
significativi del suo passato e si sofferma, con il pensiero, sugli ideali risorgimentali
traditi e calpestati dagli eventi, ripensando a tutti gli anni durante i quali
aveva lavorato e cospirato per il riscatto dei poveri della sua terra, nei cui
confronti aveva riposto fiducia e comprensione per convincersi, alla fine, che
si era ingannato, perché “i pregiudizi
dell’ignoranza secolare erano il vero nemico da vincere e che le nostre povere
armi di settari fanatici li lasciavano freddi e indifferenti”.
Nato nel fondo di una terra arretrata, com’era la Calabria
dell’800, il giovane Domenico Lopresti, nel guardarsi intorno non vedeva altro
che grandi miserie e sporchi privilegi e, immaginando un futuro migliore,
com’era giusto che fosse a quell’età, le sue legittime aspirazioni si
scontravano inesorabilmente con l’esempio di uomini oziosi e prepotenti e con la
necessità di dover servire “un governo
torpido e crudele”, rappresentato dalla dinastia borbonica; scegliere,
quindi, di mutare il corso delle cose attraverso l’attività politica voleva
dire abbracciare una setta segreta, così come facevano certi uomini, i più
coraggiosi, quelli a cui il giovane avrebbe voluto somigliare, che venivano
designati come giacobini e carbonari.
Ma cambiare quella realtà significava anche dover fronteggiare
un mondo ostile rappresentato da una società contadina fondata su arcaiche
credenze, che guardava con pregiudizio e sospetto chi rappresentava loro la
possibilità di poter costruire una società migliore, libera dai lacci e dalle
angherie di una monarchia straniera. E bisognava tener conto anche dei
“traditori”, che per lo più erano uomini poverissimi e ignoranti i quali,
sebbene avessero creduto inizialmente nella rivoluzione, fidando nel riscatto
sociale, spinti dalla fame e dalla miseria finivano per riabbracciare l’antica
reputazione per i Borboni, quali protettori dei poveri e nemici dei feudatari
prepotenti.
Ha quasi l’impressione, il nostro personaggio, di aver
vissuto e sofferto invano per la realizzazione di quella sua idea repubblicana
di Risorgimento, contrapposta all’idea monarchica; non saprà mai se agendo
diversamente, con più accortezza e minore orgoglio, avrebbe meglio giovato alla
causa di quelle idee che ancora crede giuste: e questo dubbio rappresenta l’unica
salvezza che gli è rimasta.
Nel suo monologo interiore, portato avanti attraverso la
scrittura, Don Domenico Lopresti percepisce per la prima volta di sopravvivere,
anzi di non essere mai stato così vivo come nel momento stesso in cui racconta
la propria esistenza. Egli, che mal sopportava gli uomini di penna, avverte
finalmente questo piacere e comprende di essere cambiato perché riconosce la
propria memoria quale unica speranza di sopravvivenza: “in vecchiaia ho scoperto che scrivere aiuta a pensare, finché scrivo
penso, non ci rinuncerò...”
Quella memoria che - mentre se ne sta a letto nella sua casa
torinese, dove gli ha dato appuntamento la morte – lo esorta a rintracciare,
tra i suoi ricordi legati alle sue responsabilità e a quelle degli altri “l’errore in cui siamo caduti, l’inganno che
abbiamo tessuto senza volerlo...eravamo in tanti...noi credevamo”.
La recensione al libro della Banfi, è nella sua ispezione sociale ed introspezione umana una vera chicca. Mette l'accento su sentimenti e stati d'animo che solo chi conosce realtà , storia e storie può darne contezza.
RispondiEliminaE chi solo con gli anni ha affinato sentimenti, ricordi, e carattere.
Il mio tempo è lento, ma purtroppo esso scorre e prescinde dalla mia voglia di allungarlo per poter esaudire tutte le mie curiosità, va sempre e comunque inesorabilmente spedito.
Gingi
Grazie per le tue parole, Gingi. E già...il tempo. Per Sant'Agostino era solo una dimensione dell'anima. “Vorrei fermare il tempo in questo dolce istante”, cantava Adamo negli anni ‘70. Ma il tempo, proprio nei momenti più belli, sembra avere una maggiore rapidità. Non si ferma. Se il tuo tempo va spedito, significa che sei felice. Perché quando siamo tristi e preoccupati abbiamo l'impressione che il tempo non passi mai e si sia fermato :-)
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