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venerdì 22 gennaio 2016

Quella volta che Leopardi chiese la raccomandazione



Qualche giorno fa un parlamentare della repubblica ha confessato durante una intervista di aver ricevuto, in 12 anni di permanenza nelle istituzioni, ben 20.000 richieste di raccomandazioni. Sembrerebbe, visto l’andazzo, che l’Italia sia una repubblica fondata non sul lavoro - che non c’è - ma sulla raccomandazione al fine di ottenere una qualsiasi occupazione. E scagli la prima pietra chi non ha mai sentito il bisogno di affidarsi ad una tale pratica per risolvere qualche problema e aggirare l’ostacolo, o chi non si è mai rivolto ad un amico, ad un conoscente autorevole, per assicurarsi un favore … un aiutino. E allora contattare “l’uomo della provvidenza”, impersonato a seconda delle circostanze dal potente di turno ma anche dall’amico di vecchia data, diventa quasi una necessità irrinunciabile.
Ho scoperto che neppure Giacomo Leopardi fu immune da  questo vizio, tant’è vero che nel 1823 inviò una lettera al cardinale Consalvi, ex Segretario di Sato del Vaticano, con la quale il grande poeta “del natio borgo selvaggio”  chiedeva un posto di lavoro adeguato alle sue capacità. Mi piace qui riportare integralmente la lettera, tratta dal libro di Ermanno Rea La fabbrica dell’obbedienza  (Feltrinelli Editore) :

Eminentissimo Principe. Incoraggiato dai luminosi esempi di sua generosa benevolenza verso quei sudditi Pontificii che in qualche modo si affaticano per li progressi de’ buoni studi, supplico l’Eminenza Vostra Reverendissima a rivolgere anche sopra di me i suoi benefici sguardi. Essendomi finora applicato alle lingue classiche e a quelle materie che più direttamente dipendono dalle medesime ho pur troppo conosciuto che dovrei rinunziare a ogni speranza di ulteriori avanzamenti se continuassi a vivere in Recanati mia patria. D’altronde mio padre aggravato di prole, e per le passate vicende attenuato di rendite, non ha mezzi di mantenermi in altro luogo dove la Società d’uomini di Lettere, e il soccorso de’ libri possano perfezionare le mie deboli cognizioni. Sarebbe pertanto mia fervida brama di giungere a questo scopo coll’esercizio di qualche impiego amministrativo, nel quale servendo fedelmente lo Stato, avessi il modo di servire ancora, secondo le mie scarse forze, all’incremento di quelle scienze a cui mi sono dedicato. Veggo che niun impiego potrebb’essere più confacente alle mie mire e alle mie ristrette capacità che quello di Cancelliere del Censo in qualche importante Capoluogo di Delegazione. E se attualmente non ve n’ha alcuno vacante, non manca certamente all’Eminenza Vostra Reverendissima il modo di supplire a ciò, conferendo ad alcuno degli attuali Cancellieri del Censo qualche equivalente impiego che fosse ora vacante o per vacare. Supplico l’Eminenza Vostra a perdonare colla sua tanto acclamata bontà il mio ardire, ed attribuirlo alla fiducia m’ispira il suo gran cuore, permettendomi intanto di segnarmi con profonda venerazione e gratitudine di Vostra Eminenza Reverendissima umilissimo, devotissimo, obbligatissimo Servitore.
Uno pensa: ma se anche Leopardi, per lavorare, ha dovuto ricorrere ad una consuetudine così deplorevole come la raccomandazione, che speranza hanno i tanti poveri disoccupati del nostro Paese, privi come sono della sua intelligenza e del suo ingegno? Mi chiedo ancora: avvalersi della raccomandazione è un tipico comportamento insito nella natura degli italiani, oppure è solo un momento di pigrizia, un atto di  cedimento ad un costume - o malcostume - che in realtà non ci appartiene e che esula dal nostro abituale modo di agire e di pensare?

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