Qualche giorno fa un parlamentare
della repubblica ha confessato durante una intervista di aver ricevuto, in 12
anni di permanenza nelle istituzioni, ben 20.000 richieste di raccomandazioni.
Sembrerebbe, visto l’andazzo, che l’Italia sia una repubblica fondata non sul
lavoro - che non c’è - ma sulla raccomandazione al fine di ottenere una qualsiasi
occupazione. E scagli la prima pietra chi non ha mai sentito il bisogno di
affidarsi ad una tale pratica per risolvere qualche problema e aggirare l’ostacolo,
o chi non si è mai rivolto ad un amico, ad un conoscente autorevole, per assicurarsi
un favore … un aiutino. E allora contattare “l’uomo della provvidenza”,
impersonato a seconda delle circostanze dal potente di turno ma anche dall’amico
di vecchia data, diventa quasi una necessità irrinunciabile.
Ho scoperto che neppure
Giacomo Leopardi fu immune da questo vizio,
tant’è vero che nel 1823 inviò una lettera al cardinale Consalvi, ex Segretario
di Sato del Vaticano, con la quale il grande poeta “del natio borgo selvaggio” chiedeva un posto di lavoro adeguato alle sue
capacità. Mi piace qui riportare integralmente la lettera, tratta dal libro di
Ermanno Rea La fabbrica dell’obbedienza (Feltrinelli Editore) :
Eminentissimo Principe. Incoraggiato dai luminosi
esempi di sua generosa benevolenza verso quei sudditi Pontificii che in qualche
modo si affaticano per li progressi de’ buoni studi, supplico l’Eminenza Vostra
Reverendissima a rivolgere anche sopra di me i suoi benefici sguardi. Essendomi
finora applicato alle lingue classiche e a quelle materie che più direttamente
dipendono dalle medesime ho pur troppo conosciuto che dovrei rinunziare a ogni
speranza di ulteriori avanzamenti se continuassi a vivere in Recanati mia
patria. D’altronde mio padre aggravato di prole, e per le passate vicende
attenuato di rendite, non ha mezzi di mantenermi in altro luogo dove la Società
d’uomini di Lettere, e il soccorso de’ libri possano perfezionare le mie deboli
cognizioni. Sarebbe pertanto mia fervida brama di giungere a questo scopo
coll’esercizio di qualche impiego amministrativo, nel quale servendo fedelmente
lo Stato, avessi il modo di servire ancora, secondo le mie scarse forze,
all’incremento di quelle scienze a cui mi sono dedicato. Veggo che niun impiego
potrebb’essere più confacente alle mie mire e alle mie ristrette capacità che
quello di Cancelliere del Censo in qualche importante Capoluogo di Delegazione.
E se attualmente non ve n’ha alcuno vacante, non manca certamente all’Eminenza
Vostra Reverendissima il modo di supplire a ciò, conferendo ad alcuno degli
attuali Cancellieri del Censo qualche equivalente impiego che fosse ora vacante
o per vacare. Supplico l’Eminenza Vostra a perdonare colla sua tanto acclamata
bontà il mio ardire, ed attribuirlo alla fiducia m’ispira il suo gran cuore,
permettendomi intanto di segnarmi con profonda venerazione e gratitudine di
Vostra Eminenza Reverendissima umilissimo, devotissimo, obbligatissimo
Servitore.
Uno pensa: ma se anche
Leopardi, per lavorare, ha dovuto ricorrere ad una consuetudine così
deplorevole come la raccomandazione, che speranza hanno i tanti poveri disoccupati
del nostro Paese, privi come sono della sua intelligenza e del suo ingegno? Mi
chiedo ancora: avvalersi della raccomandazione è un tipico comportamento insito
nella natura degli italiani, oppure è solo un momento di pigrizia, un atto di cedimento ad un costume - o malcostume - che
in realtà non ci appartiene e che esula dal nostro abituale modo di agire e di
pensare?
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