domenica 26 gennaio 2025

Un'epoca senza maestri

 


Marcello Veneziani è un noto giornalista, scrittore e filosofo, considerato tra gli intellettuali più autorevoli della destra italiana. Non ha, però, la visibilità mediatica di un Cacciari o di un Galimberti. Mi è capitato di ascoltarlo e, soprattutto di leggerlo, in questi ultimi tempi, e devo dire che - anche se non sempre condivido tutto quello che dice e che scrive – apprezzo molto il suo linguaggio, per niente involuto. Credo che non bisogna cadere in quel pregiudizio, duro a morire, secondo il quale solo chi ha le tue stesse idee merita importanza e riconoscimento. D’altra parte, per giudicare un autore si deve sempre avere l’onestà e lo spirito critico di distinguere le sue posizioni politiche dalla sua prosa e dall’impronta che lascia nel lettore, prima ancora che nelle pagine della letteratura.

Veneziani è nato a Bisceglie in Puglia, è una persona pacata, dallo sguardo malinconico, che ama la lentezza e critica duramente la tirannia della tecnica. Riesce a comunicare molto bene il suo pensiero, un “pensiero mediterraneo” – per usare una sua espressione – e si confronta con il presente e la tradizione, con la filosofia e la religione, con il mito e la storia. E nell’epoca globale in cui viviamo, caratterizzata da un pensiero unico e allineato, voci come la sua sono davvero confortanti.

Ho letto il suo ultimo libro, pubblicato da Marsilio, che si intitola “Senza eredi” con sottotitolo “Ritratti di maestri veri, presunti e controversi in un’epoca che li cancella”. Nella storia dell’umanità – sostiene lo scrittore pugliese – questa “è la prima ad avvertire, come Luigi XV, che dopo di noi verrà il diluvio, che finirà con noi il mondo in cui viviamo”.



In ogni campo sembra aver valore positivo solo ciò che è nuovo, destinato a far dimenticare ogni cosa precedente. Sono rinnegati i maestri, la loro opera, le loro lezioni di vita. Non hanno nulla da insegnare perché arrivano da un tempo arretrato rispetto al nostro, con modi di vedere e di pensare e di agire superati. Questa perdita del “filo ereditario” si manifesta – secondo Veneziani – in tre forme intrecciate: in primis, non esiste più, tra le generazioni, un mondo comune di valori, di saperi e di tradizioni che uniscono, pur nella diversità anagrafica; non si parla lo stesso linguaggio per intendersi e comunicare; non c’è curiosità e interesse per il passato e riconoscenza per i grandi maestri che ci hanno preceduti. Tutto diventa obsoleto in fretta, tutto si automatizza e va sostituito. E il passato, quando non è esecrato, va cancellato, rimosso. In una società come la nostra che non conosce eredi e “non si riconosce erede di niente e di nessuno”, parlare di maestri, dice Veneziani, è un’impresa davvero ardita. Al loro posto pontificano gli influencer, i veri manipolatori delle coscienze che “seducono e conformano, agendo sul linguaggio, sull’immaginario globale e sul narcisismo individuale di massa”. Un’epoca senza maestri e senza eredi è anche un’epoca di solitudine di massa: il destino paradossale di un tempo iperconnesso che offre a ciascuno la possibilità di eleggersi, attraverso i social, maestri di se stessi.

Con questo suo libro, Marcello Veneziani ci presenta una raccolta di settanta brevi ritratti “non convenzionali, in vari casi sconvenienti” di maestri “veri, presunti o controversi, grandi e piccini”. Sono delle succinte biografie di scrittori, poeti, grandi giornalisti, filosofi - del passato come del presente -  accomunati dallo stesso avverso destino: non hanno eredi. Da Giordano Bruno, che orientò lo sguardo del suo pensiero all’infinito, a Giambattista Vico che lo rivolse, invece, all’eternità; da Manzoni che si affidò alla Provvidenza, a Verga che confidò nel Fato; da Baudelaire, poeta dionisiaco dell’ebrezza a D’Annunzio, il poeta soldato, l’esteta armato; da Proust, che guardò il mondo dallo “specchietto retrovisore” a Kafka, che si sentì come un insetto schiacciato dalla vita e dal potere; da Tomasi di Lampedusa e il suo trasformismo a Moravia, il cantore della borghesia romana; da Pascal a Leopardi, da Nietzsche a Kant, da Manganelli a Marchesi, da Camilleri a De Crescenzo, da Bocca a Scalfari a Sartori…quanti maestri senza eredi.

Ma noi – scrive Veneziani nel suo libro - “Non ci rassegniamo e ripetiamo con il drammaturgo austriaco Franza Grillparzer: “Se il mio tempo mi vuole avversare, lo lascio fare tranquillamente. Io sono venuto da altri tempi e in altri tempi spero di andare”. Nonostante tutto, continueremo a sentirci eredi di autori e tradizioni e a onorare i maestri, i padri, i fratelli maggiori. E, se saremo soli, vuol dire che saremo in compagnia degli dei, degli assenti, degli invisibili”


sabato 18 gennaio 2025

Viaggio in Italia

 


Non sono un viaggiatore nell’accezione più nobile e, direi, romantica del termine. E devo dire che non sono viaggiatori, ma solo turisti, anche quelli che oggi fanno in pochi giorni le crociere intorno al mondo e si spostano, a velocità supersonica, da un punto all’altro della Terra, senza alcuna fatica. Diciamocelo: viaggiare è tutt’altra cosa. Viaggiare è un’esperienza di vita che deve modificare e far nascere in chi la vive qualcosa di nuovo. Deve migliorare la persona, non peggiorarla. Viaggiare non è fare un milione di foto, con lo smartphone, dei luoghi visitati in fretta e furia, per mostrarle, poi, agli amici che sono rimasti a casa o postarle sui social.

Nel passato, capitava spesso che uno scrittore partisse per un lungo viaggio – che poteva durare anche degli anni – e, al suo ritorno, raccontasse in un libro ciò che aveva visto, vissuto e provato durante il suo lungo peregrinare. E poi era vivo il Gran Tour, quale esperienza fondamentale di formazione dei rampolli delle antiche e aristocratiche famiglie della ricca Europa. In entrambi i casi, gli interessati sapevano quando partivano ma non quando tornavano. Al mondo d’oggi questi viaggiatori non esistono più: abbondano invece i turisti mordi e fuggi. Non esistono più gli scrittori di viaggi. Abbiamo perso così un modo valido e completo di fare letteratura che va oltre la descrizione dei luoghi visitati e stabilisce un rapporto profondo di conoscenza tra sé e la realtà.

Dicevo che non appartengo a questa categoria eletta di viaggiatori e, forse, per questa ragione sono un cultore della letteratura di viaggio. Il “Viaggio in Italia” di Goethe, “Itinerario italiano” di Corrado Alvaro, “Un viaggio in Italia” di Guido Ceronetti, sono libri che ho amato. Ora sto viaggiando con il “Viaggio in Italia” di Guido Piovene, un libro magnifico di circa 900 pagine, pubblicato da Bompiani. La bellezza di questo libro è che non devi leggerlo necessariamente dalla prima all’ultima pagina, non devi seguire una trama, ma lo puoi sfogliare anche a caso, intraprendere con l’autore un singolo viaggio e poi lasciarlo, per riprenderlo in un tempo successivo. Guido Piovene è stato uno dei grandi scrittori del Novecento italiano e la sua fama è legata proprio a quest’opera monumentale. Indro Montanelli ebbe a scrivere che “un saggio sull’Italia come il suo “Viaggio in Italia” non lo scriverà mai più nessuno”. E aveva ragione! Lo scrittore veneto cominciò il suo viaggio dall’estremo Nord, Bolzano, nel maggio del 1953 e proseguì regione dopo regione, provincia dopo provincia, città dopo città, fino a raggiungere Pantelleria, risalendo poi lo Stivale e fermandosi a Roma nell’ottobre del 1956, dopo 3 anni e 5 mesi: un’impresa senza precedenti. Voleva conoscere l’Italia, gli italiani e, soprattutto, se stesso. Scrive Oreste Del Buono nell’introduzione: “Piovene riesce, come un antropologo, a far emergere dal suo viaggio il carattere nazionale, quello immutabile, che resiste alle mode e ai rovesci della storia”.


venerdì 10 gennaio 2025

L'arte del citare

 




Lo ammetto: quando scrivo un post mi piace citare e non mi lascio mai sfuggire l’occasione di prendere a prestito il pensiero di un grande autore. Però, sia ben chiaro: non intendo assolutamente fare sfoggio di cultura. Ritengo di essere la persona meno adatta per questo genere di ostentazione. Sapere che un concetto, da me appena abbozzato in un post, è stato già espresso con belle parole da un autorevole personaggio del mondo della cultura, mi spinge a citare quelle parole in cui mi ritrovo, a sostegno del mio ragionamento. Pertanto, se qualche volta mi scappa una bella citazione, sappiate che – come scriveva Michel de Montaigne – “faccio dire agli altri quello che non posso dire altrettanto bene, sia per insufficienza del mio linguaggio sia per insufficienza del mio sentimento…bisogna che nasconda la mia debolezza sotto quelle grandi autorità”. Quindi è semplicemente un atto di modestia, il mio; è il riconoscimento della superiorità intellettuale dell’autore a cui mi rivolgo, in quel particolare momento, per puntellare la mia traballante e dimessa descrizione.

Michel de Montaigne è l’autore dei “Saggi” (Adelphi - 2 vol. - pag. 1588), una delle opere più belle che siano state mai scritte, da tenere sempre sul comodino. Un’opera che oltre a raccogliere le sue riflessioni sull’esistenza umana, contiene tantissime citazioni prese da quegli autori dell’antichità che il filosofo francese riteneva fossero riusciti ad esprimersi, su certi argomenti,  meglio di lui e con più raffinatezza. Basti pensare che Seneca viene citato 130 volte, mentre Lucrezio - probabilmente il suo autore preferito - la bellezza di 149 volte. Un libro che spinse F. Nietzsche a dire “che un tale uomo abbia scritto, ha accresciuto il nostro piacere di vivere su questa terra”.

E allora, se l’arte del citare è stata usata così diffusamente dal grande filosofo del ‘600, permettetemi di azzardare, di tanto in tanto, qualche appropriata citazione al fine di rafforzare o migliorare una mia debole opinione su una determinata questione. Opinione – la mia – che si presterebbe facilmente a qualsiasi critica, anche la più feroce, e che riscuoterebbe davvero scarso successo se, in certe specifiche occasioni, non fosse supportata da un riferimento letterario di un grande pensatore. E poi – lasciatemelo dire – posto che io scriva un pensiero rinforzato da una citazione – immaginiamo di Montaigne – il cui contenuto non dovesse incontrare l’apprezzamento di chi legge, ebbene costui anziché criticare me (e sarebbe fin troppo facile), dovrebbe avere doti culturali davvero straordinarie per mettere in discussione il pensiero del filosofo francese. Insomma, la citazione colta si rivela essere anche un mezzo per far valere la propria idea e sentirsi più convincenti, sostenuti e protetti dal pensiero, a volte inattaccabile, di chi è diventato immortale proprio grazie al suo pensiero.

I libri migliori sono fonti inesauribili di citazioni. Non riuscirei a leggere se non avessi tra le mani una matita con la quale sottolineare quelle frasi, quelle parole, quei pensieri che più mi lasciano ammirato ed in cui ritrovo me stesso. In una sua lettera a Lucilio, Seneca scriveva: “dopo aver letto molto, scegli un pensiero che tu possa assimilare in quel giorno. Anch’io faccio così: del molto che leggo, prendo sempre qualcosa…”. Si può non essere d’accordo con il grande filosofo dell’antica Roma?


venerdì 3 gennaio 2025

L'abolizione del tempo: il sogno della nostra epoca

 


L’ideale utopico di questa nostra società sarebbe quello di abolire, del tutto, il tempo che intercorre tra un’occupazione e l’altra o che si interpone tra i nostri desideri e la soddisfazione degli stessi. Gunther Anders, uno dei maggiori accademici del Novecento, scrive nel suo libro “L’uomo è antiquato”, pubblicato nel 1980: “L’abolizione del tempo è il sogno del nostro tempo. La società senza tempo (invece che senza classi) è la speranza del domani. In questa nostra epoca non esiste un attimo che non sia dedicato – giacchè il tempo non ha alcuna importanza – allo sforzo di annullare il tempo, di rendere il tempo una faccenda antiquata, una cosa di ieri”.

Per quanto il “mercato” - supportato dalla tecnologia - si adoperi alacremente per diminuire il tempo - fino a cancellarlo - tra il lancio di un nuovo prodotto e il suo acquisto, tra la vendita e il consumo, siamo ancora lontani da questo agognato obiettivo asintotico. Nel campo dell’informazione, però, già ci siamo: riceviamo notizie, fatti e immagini dal mondo nel momento stesso in cui accadono e si realizzano. Ma ciò che possono le informazioni, e prima ancora la nostra voce attraverso il telefono, noi ancora non possiamo: non siamo in grado di spostarci, fisicamente, da un punto all’altro della terra, senza che tali spostamenti richiedano tempo. E allora adoperiamo tutto il nostro ingegno per inventare macchine sempre più veloci che possano diminuirlo o annullarlo, il tempo, perché il tempo è danaro e noi non possiamo perdere tempo. La lentezza non ci piace, è qualcosa che ci permette di fermarci e di pensare e oggi non bisogna pensare. Pensare è ricordare, è conservare; correre, invece, è dimenticare, è abolire il tempo e lo spazio.

Questa velocità l’abbiamo estesa anche alle cose e agli oggetti che utilizziamo quotidianamente: non sono soltanto intercambiabili ma devono essere sostituiti il più rapidamente possibile. Un avvicendamento produttivo infinito e inarrestabile. Un frigorifero durava troppo? Hanno programmato la sua obsolescenza. Eri affezionato ad una vecchia macchina? Ti obbligano a rottamarla perché inquina e devi comprarti un Suv, anche se inquina dieci volte di più. Tutto ciò che dura, oggi, è sinonimo di negatività, di perdita di tempo. Il motto è: consumare sempre di più per produrre sempre di più. Ma per poter consumare un nuovo prodotto è necessario averne bisogno, un bisogno, questo, che non nasce spontaneamente, come la sete o la fame: è necessario crearlo. Ecco, allora, che subentra la pubblicità che ha il compito di invogliare e spingere la gente a liberarsi delle cose vecchie per le nuove, ed avere sempre bisogno di novità. Frédéric Beigbeder, noto scrittore e pubblicitario francese, dice che la pubblicità non desidera la nostra felicità: deve farci sentire sempre insoddisfatti, perché la gente felice non consuma. Meditate gente, meditate!