Fare buona letteratura è anche raccontare
la propria vita, raccogliere suggerimenti dal proprio vissuto. D’altronde, quasi
tutti gli scrittori del passato, mescolando a volte finzione letteraria e
realtà, hanno scritto romanzi autobiografici, a cominciare dal più grande di
tutti: Proust. Anche la scrittrice Dacia Maraini, nata a Firenze e appartenente
al ramo siciliano di un’antica e nobile famiglia - gli Alliata di Villafranca,
duchi di Salaparuta - ha attinto dai suoi ricordi personali, dalla sua vita
passata, per scrivere alcune sue opere. Questa scrittrice la conoscevo solo come
donna amabilmente raffinata e salottiera, spesso ospite dei talk show
televisivi, ma non avevo letto nulla di suo. Per caso mi sono imbattuto in “Bagheria”,
un romanzo autobiografico pubblicato nel 1993, ed ho avuto modo di apprezzarne anche le chiare doti letterarie.
Bagheria è la cittadina
siciliana dove la Maraini arrivò, insieme alla sua famiglia, dopo due anni di
prigionia trascorsi in un campo di concentramento giapponese. Qui, nella
splendida villa familiare settecentesca di Valguarnera, circondata di limoni e
ulivi e sospesa in alto sopra le colline - uno dei maggiori complessi architettonici
di Bagheria - trascorre gli anni della sua fanciullezza e della sua adolescenza.
I ricordi di quel periodo affiorano nitidi e a volte malinconici, tra le pagine
di questo libro: la sua timidezza, le sue sterminate letture (Lucrezio, Tacito,
Shakespeare, Dikens, Conrad, Melville…), il sesso scoperto come inganno e
violenza, gli odori e i profumi di quella terra, la bellezza della valle di
olivi che digradavano verso il mare, il rumore continuo delle onde sulle rocce,
il freddo dell’inverno mitigato da una stufa; ma anche la mafia e l’arroganza di
quell'aristocratica famiglia, e poi la madre “bionda e splendente”, il
padre “burbero e allegro, ribelle e solitario”, le sorelle, i cugini, le
tante zie, i nonni, gli amici dell’infanzia che orbitavano intorno alla villa: costituiscono
i reali personaggi del romanzo. “Per anni – scrive la Maraini – ho
cancellato dalla mia vita quelle parentele, considerandole tanto lontane da me
da non poterne tenere conto. Mi vergognavo di appartenere, per parte di madre,
a una famiglia così antica e nobile. Non veniva proprio da loro – si chiede
la scrittrice - da quelle grandi famiglie avide, ipocrite, rapaci, gran
parte del male dell’isola? Odiavo la loro incapacità atavica di cambiare, di
vedere la realtà, di capire gli altri, di farsi da parte, di agire con umiltà.
E la sola idea di dividere qualcosa con loro, fosse solo una involontaria
somiglianza, mi disgustava”. Lei aveva sempre avversato le ricchezze di
quelle grandi famiglie siciliane, che nutrivano e facevano prosperare le mafie
locali. Non aveva mai voluto indagare sul passato, da dove venissero quelle
ville, quelle terre che ormai non le appartenevano più ma erano lì a testimoniare
fasti lontani. Era sempre stata dalla parte del padre che mal sopportava quel
mondo ricco e arrogante, e si considerava nata dalla sua testa “come una
novella Minerva, armata di penna e carta, pronta ad affrontare il mondo
attraverso un difficile lavoro di alchimia delle parole”. Ma, alla fine,
anche la madre aveva dato un calcio a quel passato e si teneva alla larga da
quella pletora di parenti famelici.
Per parlare di quel mondo, di
quella Sicilia, la Maraini ritorna in quei luoghi che l’avevano vista bambina,
in quell’antica e bellissima residenza della sua infanzia dove ancora vive una
sua vecchia zia. Ma non intende raccontare “di una Sicilia immaginaria, di
una Sicilia letteraria, sognata, mitizzata. Ma di quel rovinio di vestiti di
broccato, di quei ritratti stagnanti, di quelle stanze che puzzavano di
rancido, di quelle carte sbiadite, di quegli scandali svaporati, di quelle
antiche storie”, storie che comunque le appartengono e non possono essere scacciate
solo perché la infastidiscono.
“Parlare della Sicilia significa
aprire una porta rimasta sprangata”, dice la scrittrice nel suo
libro. E una volta aperta quella porta “mi sono affacciata nel mondo dei
ricordi con sospetto e una leggera nausea. I fantasmi che ho visto passare non
mi hanno certo incoraggiata. Ma ormai ero lì e non potevo tirarmi indietro”.
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