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venerdì 5 giugno 2020

L'uomo senza qualità



Ci sono dei libri monumentali che da sempre mi perseguitano. Provo una certa difficoltà nell’affrontarli, avverto nei loro confronti una sorta di timore reverenziale che scaturisce non tanto dalla mole dei volumi quanto dalla loro indiscussa complessità letteraria. Penso ai 7 volumi della “Recherche” di Proust (ne ho letti, con una certa fatica, appena tre); penso a “Ulisse” di Joyce che non ho ancora letto. E penso, poi, a “L’uomo senza qualità” di Musil che da lungo tempo sembra sfidarmi dall’alto di un ripiano della mia libreria. Il testo in mio possesso è quello pubblicato da Newton nel 2013 (i Mammut) di 1137 pagine. Devo dire che - dopo molti rinvii e titubanze - ho iniziato finalmente a leggerlo in questi giorni. E tra lentezze, interruzioni e riprese, tra noia ed elogi, saltando anche delle pagine per me indigeste, ma soffermandomi con vero piacere su altre davvero illuminanti, credo che alla fine riuscirò  a portarlo a termine.

Ora - sia ben chiaro - non ho la sfacciataggine di “recensire” questo sterminato romanzo/saggio (tra l’altro incompiuto) su cui sono stati versati i classici fiumi d’inchiostro. Non potrei aggiungere nient’altro rispetto a ciò che è stato già scritto da studiosi e lettori appassionati, molto più autorevoli di me. Mi limito a dire che forse una delle possibili chiavi di lettura del libro si nasconde nelle parole che Musil mette in bocca al suo eroe protagonista, Ulrich: “un uomo che vuole la verità diventa scienziato; un uomo che vuole sfogare la propria soggettività diventa forse scrittore; ma che cosa deve fare un uomo che vuole qualcosa di intermedio?” Lungo tale tracciato si colloca il percorso esistenziale di questo trentaduenne matematico e ingegnere - uomo dell’utopia e per questo uomo “senza qualità” – anche se di qualità ne ha tante ed anche eccezionali, che però mal si adattano ai tempi, già massificati, in cui vive. Ulrich è un uomo segnato da sconfinate letture in tutti i campi del sapere, “innamorato della scienza in un mondo più umano che scientifico”; è sostenitore di un mondo “retto da un Senato di uomini sapienti e progrediti” e non sapendo cosa fare della propria esistenza, decide “di prendersi un anno di vacanza dalla vita per cercare un uso appropriato delle sue capacità” abbracciando la causa nazionalistica del comitato che dovrà organizzare le celebrazioni per il settantesimo anniversario dell’ascesa al trono dell’imperatore austro-ungarico Francesco Giuseppe. Ci troviamo nel 1918, epoca di collasso della plurisecolare e grandiosa dinastia asburgica, travolta dall’avanzata della tecnica e stretta dalla sua variegata e inarrestabile crisi spirituale. E’ un libro che, dall’interno di questa vicenda storica, intende rappresentare le contraddizioni della modernità - e per questo appare molto attuale - lasciando spazio a riflessioni, digressioni, paradossi, ironie e introspezioni di vario genere, come questa riservata a quegli improbabili “cacciatori di spirito” che mi piace riportare di seguito:

“Si poteva ben dire che lui stesso volesse diventare qualcosa di simile a un principe o a un signore dello spirito. Del resto, chi non lo vorrebbe? E’ così evidente che lo spirito venga considerato l’elemento supremo e dominante su qualsiasi altro. Lo impariamo a scuola. Chi può si adorna di spirito, se ne abbellisce. Legato ad alcunché, lo spirito è l’elemento più diffuso al mondo. Lo spirito della fedeltà, lo spirito dell’amore, uno spirito virile, uno spirito colto, il più importante spirito del nostro tempo, teniamo alto lo spirito di questa o di quell’altra impresa, agiamo secondo lo spirito del nostro movimento: come suonano rassicuranti e inoffensive queste espressioni fino ai gradi più bassi. Tutto il resto, i crimini che si compiono ogni giorno o la mai paga avidità di guadagno, sembra in confronto come l’inconfessabile, come la sporcizia che Dio si toglie dalle unghie dei piedi. Ma quando lo spirito se ne sta lì da solo, un sostantivo nudo, spoglio come un fantasma al quale si vorrebbe prestare un lenzuolo, che cosa accade allora? Si possono leggere poeti, studiare filosofi, comprare quadri e trascorrere intere nottate a discutere: ma è spirito quello che si ottiene così? Mettiamo pure che lo si ottenga, ma poi lo si possiede? Questo spirito è così fortemente legato alla forma contingente nella quale si presenta! Passa attraverso l’individuo che vorrebbe accoglierlo, e si lascia dietro solo una piccola vibrazione. Che cosa ce ne facciamo di tutto questo spirito? Lo si continua a produrre su montagne di carta, di pietra, di tela in quantità addirittura astronomiche; altrettanto di continuo lo si gusta e lo si assimila con un impegno smisurato di energia nervosa: ma che ne è poi dello spirito? Scompare come un’allucinazione? Si scompone in particelle? Si sottrae alla legge fisica della conservazione? Non c’è proporzione tra tutto quello spreco e i granelli di polvere che scendono dentro di noi e lentamente si posano. Dove va, dov’è, che cos’è? Forse se ne sapessimo di più calerebbe sul termine “spirito” un silenzio opprimente”.

4 commenti:

  1. confesso che nemmeno ricordo se sono arrivato alla fine del romanzo o se ne ho saltato a piè pari interi capitoli qua e là. Il succo è che non posso dire di averlo "letto", troppo pigro io e sfiancante lui, perchè ne potessi apprezzare le qualità.
    PS Noto che abbiamo lacune simili (Joyce, Proust) e la cosa mi consola.
    massimolegnani

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  2. E' pur vero che non tutti i romanzi possono piacere dalla prima all'ultima pagina. A volte io salvo un libro solo perchè vi ho trovato un aforisma illuminante, una frase poetica. Si, abbiamo lacune simili per via della nostra giovane età...:) E meno male che le nostre lacune riguardano Proust o Joyce e non Fabio Volo o Chiara Gamberale...sarebbe stato ancora più grave :)
    Un caro saluto

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  3. Confesso. Confesso che da quando ho scoperto e cominciato a leggere il tuo blog sono rimasto colpito da molte cose, tutte diverse tra loro. La prima è che più di scrivermi, mi sembra, leggendoti, che tu mi parli, come se fossimo fisicamente vicini e parlassimo insieme. Credo che ciò derivi da un lato dal fatto che ti poni in modo dialogante con ciò di cui scrivi e con i tuoi potenziali lettori e, dall'altro, che mi ritrovo completamente in quasi tutto quello che scrivi, spesso sono pensieri che ho già pensato e altre volte sono idee che condivido. Il discorso fatto per Proust e Joyce vale pari pari anche per me. Ma posso aggiungere anche molta letteratura russa dell'800, cosa di cui un po' mi vergogno e un po' non riesco a capacitarmi. Aggiungo pure il Libro dell'inquietudine di Pessoa, cominciato alcune volte ma mai portato a termine perchè mi angoscia profondissimamente.
    Il tuo blog, con mia grande meraviglia, sta diventando una specie di mio Libro d'ore personale. Lo sto leggendo a ritroso, tutte le sere una o due pagine al massimo, e sempre ci trovo qualcosa che mi attira e mi dà gioia. E' una specie di innamoramento. Non so se continuerà così (come potrei saperlo?), ma mi piacerebbe molto.
    Scusa se mi sono dilungato ma sentivo di dover condividere questi miei sentimenti per la tua scrittura. Giuro che non lo farò più!
    Quanto a Musil, che pure ho iniziato e mai finito, mi è stato molto utile ciò che hai scritto. Grazie!

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    1. Caro Giorgio, sono davvero lusingato dalle tue parole che mi mettono quasi in difficoltà. Non sono abituato a ricevere elogi così sentiti e sinceri. Credimi! Se mi permetti una battuta, non vorrei, poi, diventare il tuo psicoterapeuta, visto che ti ritrovi e ti rispecchi nei miei scritti...sorrido. Mi fa piacere trovare una persona come te che apprezza e condivide il mio pensiero, le mie idee, le mie riflessioni. Diciamo pure che io parlo di me, anche quando parlo di libri, perchè tutto sommato siamo quel che leggiamo. E perchè no: quando scrivo qualcosa è come se facessi psicoterapia e quindi sono diventato, senza volerlo, un tuo paziente visto che mi leggi con attenzione ed esprimi i tuoi giudizi. Spero che questo "innamoramento" duri a lungo: mi darebbe la carica per continuare. :) Un caro saluto

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