Sebbene non sia considerato dalla
critica un capolavoro letterario da incorniciare, “Le terre del Sacramento” - Einaudi Editore - di Francesco Jovine (il massimo scrittore
molisano) rappresenta - a mio modesto parere – un libro molto interessante, una
testimonianza significativa del verismo meridionale, le cui vicende sono
incastonate negli anni precedenti all’avvento del fascismo ed alla vigilia
della marcia su Roma. Il testo, peraltro, pur non avendo la potenza evocatrice
dei grandi romanzi storici, va annoverato comunque nel filone della cultura
storiografica del Novecento, quale documento di denuncia della situazione di
miseria e di abbandono dei contadini meridionali all’indomani della prima
guerra mondiale. Dal romanzo fu tratto anche un fortunato sceneggiato
televisivo negli anni settanta, il cui cast comprendeva, tra gli altri, la
bravissima Paola Pitagora e il grande Renato De Carmine.
Al centro della vicenda ci sono
le terre del Sacramento – che danno appunto il titolo al romanzo - un immenso
feudo molisano abbandonato da tempo, di proprietà dell’avvocato Enrico Cannavale, su cui gravano – da
una parte - un groviglio di debiti, di ipoteche e di controversie legali e –
dall’altra – una serie di credenze e superstizioni popolari secondo cui quelle
terre, che un tempo appartenevano alla Chiesa, risulterebbero maledette; e poiché
nessuno osa lavorarle, per via di quella maledizione – tranne alcune superfici
date in affitto - vengono utilizzate essenzialmente come pascolo abusivo e
legnatico dai contadini poverissimi del posto.
Il proprietario di questi
possedimenti è un uomo abulico, rinunciatario, decadente, con idee socialiste,
che vive arroccato nel suo palazzo avito circondato da servitori e serve, tra
cui una sua cugina educata in un convento (Clelia) di cui ne è l’amante; dedito
al bere, alle letture dei libri della sua biblioteca, alle chiacchiere con il
suo amico professore di greco, appare poco incline alla cura e alla gestione
dei suoi affari, ai quali provvede un suo contadino furbo e astuto che, un
po’ alla volta, si impadronisce del patrimonio della sua famiglia, con imbrogli
e prestiti usurari.
Inizialmente tutto appare
immobile, piatto, inamovibile: da un lato i notabili del posto, con a capo il
riverito Don Enrico Cannavale, il
quale è sempre in vena di inutili discussioni al circolo delle professioni e
delle arti e, dall’altro lato, i cafoni meridionali, la gente più umile e
povera del Molise, che appare senza prospettive di lavoro, senza terra, senza
un futuro degno di essere vissuto. A smuovere questa inerzia che sembra
trascinarsi da secoli, provvede una giovane donna molto ambiziosa (Laura)
figlia di un ex Presidente di Corte d’Appello, cugina del Cannavale - di cui ne
diventa la moglie - la quale cerca di ridare ordine alle faccende economiche
dell’inerte marito, attraverso lo sfruttamento delle terre del Sacramento. Per
realizzare questo suo progetto, Laura si fa aiutare da un giovane studente di
Giurisprudenza (Luca Marano) il quale, avendo un grande ascendente sui suoi
compaesani contadini, dovrà persuaderli a dissodare le terre, in cambio di un
diritto di enfiteusi sulle stesse.
Ma non tutto procede secondo le
regole stabilite: assistiamo quindi ad una rivolta da parte dei contadini,
capeggiati dal Marano, per la salvaguardia dei loro diritti calpestati; ma,
come spesso succede, a rimetterci sono sempre loro, i più deboli, le classi
sociali meno protette. Una storia amara per un romanzo storico che si
addentra, ancora una volta, nella intricata e difficile “questione meridionale”.
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