mercoledì 23 novembre 2016

Le terre del Sacramento: quell'eterno conflitto tra signori e cafoni nel Mezzogiorno d'Italia



Sebbene non sia considerato dalla critica un capolavoro letterario da incorniciare, “Le terre del Sacramento” - Einaudi Editore - di Francesco Jovine  (il massimo scrittore molisano) rappresenta - a mio modesto parere – un libro molto interessante, una testimonianza significativa del verismo meridionale, le cui vicende sono incastonate negli anni precedenti all’avvento del fascismo ed alla vigilia della marcia su Roma. Il testo, peraltro, pur non avendo la potenza evocatrice dei grandi romanzi storici, va annoverato comunque nel filone della cultura storiografica del Novecento, quale documento di denuncia della situazione di miseria e di abbandono dei contadini meridionali all’indomani della prima guerra mondiale. Dal romanzo fu tratto anche un fortunato sceneggiato televisivo negli anni settanta, il cui cast comprendeva, tra gli altri, la bravissima Paola Pitagora e il grande Renato De Carmine.

Al centro della vicenda ci sono le terre del Sacramento – che danno appunto il titolo al romanzo - un immenso feudo molisano abbandonato da tempo, di proprietà dell’avvocato Enrico Cannavale, su cui gravano – da una parte - un groviglio di debiti, di ipoteche e di controversie legali e – dall’altra – una serie di credenze e superstizioni popolari secondo cui quelle terre, che un tempo appartenevano alla Chiesa, risulterebbero maledette; e poiché nessuno osa lavorarle, per via di quella maledizione – tranne alcune superfici date in affitto - vengono utilizzate essenzialmente come pascolo abusivo e legnatico dai contadini poverissimi del posto.

Il proprietario di questi possedimenti è un uomo abulico, rinunciatario, decadente, con idee socialiste, che vive arroccato nel suo palazzo avito circondato da servitori e serve, tra cui una sua cugina educata in un convento (Clelia) di cui ne è l’amante; dedito al bere, alle letture dei libri della sua biblioteca, alle chiacchiere con il suo amico professore di greco, appare poco incline alla cura e alla gestione dei suoi affari, ai quali provvede un suo contadino furbo e astuto che, un po’ alla volta, si impadronisce del patrimonio della sua famiglia, con imbrogli e prestiti usurari.

Inizialmente tutto appare immobile, piatto, inamovibile: da un lato i notabili del posto, con a capo il riverito Don Enrico Cannavale, il quale è sempre in vena di inutili discussioni al circolo delle professioni e delle arti e, dall’altro lato, i cafoni meridionali, la gente più umile e povera del Molise, che appare senza prospettive di lavoro, senza terra, senza un futuro degno di essere vissuto. A smuovere questa inerzia che sembra trascinarsi da secoli, provvede una giovane donna molto ambiziosa (Laura) figlia di un ex Presidente di Corte d’Appello, cugina del Cannavale - di cui ne diventa la moglie - la quale cerca di ridare ordine alle faccende economiche dell’inerte marito, attraverso lo sfruttamento delle terre del Sacramento. Per realizzare questo suo progetto, Laura si fa aiutare da un giovane studente di Giurisprudenza (Luca Marano) il quale, avendo un grande ascendente sui suoi compaesani contadini, dovrà persuaderli a dissodare le terre, in cambio di un diritto di enfiteusi sulle stesse.

Ma non tutto procede secondo le regole stabilite: assistiamo quindi ad una rivolta da parte dei contadini, capeggiati dal Marano, per la salvaguardia dei loro diritti calpestati; ma, come spesso succede, a rimetterci sono sempre loro, i più deboli, le classi sociali meno protette. Una storia amara per un romanzo storico che si addentra, ancora una volta, nella intricata e difficile “questione meridionale”.

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