Solo la lettura di buoni libri
ha la straordinaria capacità di rinforzare il nostro vocabolario, che oggi
appare sempre più povero. E la colpa è anche dei mezzi di informazione di massa,
compresi quelli tecnologici, che spingono con forza verso un linguaggio piatto
e omologato. Ricordo una famosa scena di un film di Nanni Moretti “Palombella rossa” (era il 1989), in cui
un pallanuotista (Nanni Moretti) urla alla giornalista che lo sta intervistando:
“Ma come parlaaa? Ma come parlaaa? Le
parole sono importanti! Lei parla in modo superficiale, chissà come scrive”.
E poi, preso dalla rabbia e non riuscendo a trattenersi, la schiaffeggia
sonoramente. Ma qual era il torto di cui si era macchiata la malcapitata
giornalista? Aveva usato un linguaggio banale, frasi fatte come matrimonio a pezzi … alle prime armi, aveva
adoperato termini generici o facili anglicismi alla moda come trend negativo … kitsch, al posto delle
più appropriate e belle espressioni italiane. La condanna dei luoghi comuni non
è racchiusa solo in quel film, ma costituisce quasi una costante delle opere
cinematografiche di Nanni Moretti. Chi non ricorda la satira sul linguaggio dei
giovani degli anni settanta nel film Ecce
bombo? Ancora sorrido se ripenso a quel celebre dialogo tra Cristina e
Michele – due dei tanti personaggi del film – quando, alla domanda di Michele:
“come campi?”, Cristina risponde: “Mah…: giro, vedo gente, mi muovo, conosco,
faccio delle cose”.
Va detto che il regista romano
non ha preso di mira solo il linguaggio dei giovani, ma anche quello della
politica che sempre più spesso è astruso, incomprensibile, vuoto di significati,
ripetitivo. Famosa la sua frase rivolta ad un politico in difficoltà durante un
comizio: «D’Alema, dì una cosa di sinistra… reagisci!».
Ho l’impressione che al giorno
d'oggi le parole abbiano perso il loro significato: basta accendere la televisione
e soffermarsi per qualche minuto a guardare uno dei tanti talk show (chiedo
scusa a Nanni Moretti, ma mi è scappato…), per rendersi conto che certi
personaggi – e sempre gli stessi – infilano una dietro l’altra una serie di
frasi fatte che, al confronto, la
giornalista di Palombella rossa
appare una persona erudita. E allora può capitare di ascoltare perle di
saggezza come: “la violenza va sempre
condannata, senza se e senza ma” e se poi, durante un corteo, un
manifestante se la prende con una vetrina, c’è sempre qualcuno in studio che
pontifica: “sfasciare una vetrina è di
una violenza inaudita! ”, senza dimenticare che “i violenti vanno sempre isolati”. Se poi il dibattito verte sui
problemi della giustizia, ebbene l’intelligente di turno non ha dubbi: “le sentenze vanno sempre rispettate”;
mentre l’indagato presente in trasmissione (quello non manca mai) è sereno
perché ha “piena fiducia nella giustizia
che farà il suo corso”. Potremmo
continuare all’infinito, ma mi fermo qui.
Secondo Erri De Luca, oggi
assistiamo ad una “perdita di
responsabilità della parola e cioè la parola è diventata prevalentemente
pubblicitaria”. Questo vuol dire che nel momento stesso in cui viene
pronunciata - dal politico o dal giornalista di turno – deve servire unicamente
a magnificare il proprio ragionamento, a convincere in maniera subdola il
telespettatore o il lettore cui è rivolta, così come avviene per un qualsiasi
prodotto commerciale reclamizzato. E anche se quella parola afferma il falso (come
da prove documentali), le viene riservata la stessa dignità di una verità
sacrosanta. Con l’aggravante che chi l’ha pronunciata non pagherà alcuna
conseguenza.
Allora, dobbiamo appropriarci
della nostra lingua, delle nostre belle parole; e le migliori le troviamo
soltanto nei libri: sono le uniche che possono combattere quelle ingannatrici
degli imbonitori televisivi. Le parole televisive sempre più spesso sono
urlate, come se strillare possa rafforzare la verità o la ragione di chi, in
maniera violenta, si scaglia contro l’interlocutore che ha di fronte. Ma quando
si alza la voce per sovrastare quella degli altri, significa che siamo ad un
passo dagli insulti, sostitutivi del dialogo e delle parole.
Secondo me la televisione – ad
eccezione di alcuni rari programmi – promuove tutto tranne la parola, intesa
quale strumento nobile che sappia raccontare e coinvolgere, comunicare e
istruire. La televisione è popolata da tantissime persone che si autoincensano
dalla mattina alla sera, mettendo in risalto il loro narcisismo; per loro
l’aspetto fisico, il modo come si presentano, l’apparenza sono molto più
importanti di quello che dicono. Ed ecco allora che le parole perdono di
significato, non sono giudicate importanti, non costituiscono - per chi le
pronuncia - un segno distintivo di diversità capace di arricchire culturalmente
chi guarda ed ascolta. Sono parole morte che irretiscono, ma nello stesso tempo
offuscano la mente. Sono parole prive di responsabilità.
Come non essere d'accordo con te, con Nanni, con Erri?
RispondiEliminaml
Mala tempora currunt...caro M. :-)
EliminaRicordandomi della scena di Palombella rossa ho riso ancora. Meravigliosa. Sai quanri andrebbero schiaffeggiati? Siamo ad un livwllo basso, troppo. Spesso vergognoso. E la colpa, come scrivi tu, è da imputare anche (anche, eh? non unicamwnte) ad un insieme di abitudini che ormai ci circondano, tecnologia inclusa.
RispondiEliminaGrazie per il tuo commento...sono d'accordo.
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