Quando entro in una qualsiasi
libreria mi lascio piacevolmente irretire, prima ancora che dalla bella
copertina di un libro, dal suo titolo. Se non conosco l’autore, devo assolutamente
aggrapparmi a qualcosa di concreto per poter prendere tra le mani proprio quel
testo e sfogliarlo. E il titolo è la cosa che più mi colpisce. Così è stato per
questo piccolo libro edito da Sellerio che si intitola “Il senso della notte”. Un titolo che racchiude un mondo, quello
appunto legato alle tenebre, che evoca immagini e sensazioni; una espressione che
sembra custodire il mistero stesso dell’esistenza e alludere alla paura della
morte. Ma non è detto che un bel titolo – che è pur sempre una valutazione
soggettiva - significhi necessariamente un bel libro.
Il senso della notte è la prima opera narrativa di Giovanni
Ferrara, lo zio del più famoso giornalista Giuliano: quest’ultimo già
comunista, già conduttore televisivo, già direttore del Foglio. Quando fu pubblicato,
nel 1995, l’autore aveva 67 anni ed era un professore di Storia antica
all’Università di Firenze. Si spense a Pavia nel 2007. Non credo che questo suo
breve romanzo sia da annoverare tra i capolavori della nostra letteratura,
tant’è che difficilmente lo riprenderò per rileggerlo, come spesso mi capita di
fare con i grandi libri.
Il protagonista del romanzo – che
a mio avviso potrebbe essere lo stesso scrittore, attraverso la voce narrante di
una terza persona – ripercorre la sua vita e lo fa solo attraverso il racconto
di tre fondamentali eventi, che costituiscono altrettanti capitoli del libro.
In primis, gli anni della sua
giovinezza, durante i quali si alzava prestissimo la mattina e si coricava
tardissimo la sera, per studiare perché “aveva
capito che per diventare un dotto bisogna vivere come pazzi ed è praticamente
indispensabile cominciare a suicidarsi a diciassette o diciotto anni se non
addirittura prima, ciò che del resto è verissimo ma le persone così dette colte
non lo sanno”. Questa abitudine lui la definiva solitudine studiosa e gli pareva infatti, a quel tempo, il massimo
concepibile di felicità che gli fosse concesso di raggiungere.
Nel secondo capitolo ricorda la
lunga e irripetibile notte, situata nella storia, legata al passaggio sotto la
finestra di casa sua dei soldati tedeschi in ritirata dopo la battaglia di Roma
nel giugno del 1944. Una notte carica di un’attesa gioiosa “per la sicurezza che l’odiato tedesco se ne andava e arrivavano gli
amati Alleati”.
Ed infine l’autore ripercorre con
la memoria una passeggiata in montagna, nell’agosto del 1975, sui luoghi della
Grande Guerra il cui ricordo “entrò a far
parte delle occasioni che si definiscono indimenticabili”, tale da produrre
nell’animo del protagonista una profonda commozione nel visitare quelle rocce
che conservavano la traccia inconfondibile di una lunga guerra, patita nella
feroce immobilità delle trincee e dei rifugi.
Aleggia su tutto il libro la banale realtà dello scorrere irreversibile
del tempo, con le sue giornate luminose ma soprattutto con le notti, che
per il protagonista sono sempre legate ad un senso di imprevedibilità e
minaccia. Devo dire, inoltre, che con la sua scrittura contorta e monotona, più simile ad un
verbale di un commissariato di polizia che non a un testo letterario e con i
lunghi periodi, i cui concetti spesso vengono ripetuti, la lettura del libro
appare poco appetibile. Ma sono solo 93 pagine.
Un altro "sconosciuto" che mi sai raccontare...
RispondiEliminaEvidentemente sono attratto dagli "sconosciuti"...:-)
Eliminal'emozione dell'approccio in libreria, quegl'istanti magici in cui un colore di copertina, un titolo, una frase sbirciata tra le pagine, la fiducia che si concede a uno sconosciuto, la speranza che sia bella lettura, non sempre hanno un esito felice, ma sono comunque irrinunciabili.
RispondiEliminaml
E' proprio così! Grazie ml
EliminaDubito che leggerò il libro recensito, ma ti ringrazio per lo spunto scorto nel terzo dei tre eventi narrati... giusto una settimana fa, in visita alla còrsa rocca di Bonifacio, immensa e imponente opera che respinse per anni attacchi e saccheggi.. mi sono ritrovato a pensare della condizione di quella gioventù - veramente bruciata - dell'epoca.. noi in infradito a goderci sole e spiagge, loro tra feritoie e dannazioni a consumare in un lampo di dolore e morte i migliori anni.. come può essere così folle l'uomo? ..e come fortunati noi, nonostante mille problemi, a poterci godere la natura, l'età, la bellezza, anche solo il sole a scaldare? Questo pensavo varcando erte mura sorte dall'odio...
RispondiEliminaCondivido: grazie, Franco, per questo tuo contributo
Eliminasei un ottimo recensore, complimenti sinceri, hai competenza.
RispondiEliminala notte è, secondo me, un ritorno alle origini, non nelle grandi città ovviamente, quando vado in montagna, se la temperatura me lo consente, passo pezzi di notte nel giardino. Il silenzio degli umani, l'assenza degli umani, è una resa nei confronti della natura, una presa di coscienza del piccolo nei confronti di qualcosa di grande e maestoso.
Grazie, Tads, per le tue belle parole. Dici bene: la notte è un ritorno alle origini...
EliminaQuando entro in qualsiasi libreria o biblioteca ho sempre la malinconica sensazione di dare addio a qualcosa. Allora mi aggiro tra gli scaffali con particolare apprensione (qualche volta mi fermeranno per chiedermi di aprire la borsa tanto sembro furtiva*) osservo, sfoglio e penso sempre a quanto non sarò in grado per il poco tempo a disposizione di leggere e fare mio..
RispondiEliminaE' una sensazione che provo anch'io: al cospetto di migliaia e migliaia di libri, che mai potrò leggere, avverto forte il senso della mia limitatezza.
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